LA SCIENZA DELLO SPIRITO CONTRO IL SOVVERSIVISMO OCCULTO (di M. Scaligero)

(Illustrazione dall’Hortus deliciarum, una delle enciclopedie che nel Medioevo costituivano la summa della cultura sapienziale dell’epoca, concepita come il complesso armonico delle sette arti liberali, qui simboleggiate da sette figure femminili con al centro la filosofia.)

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Mai come in questo momento si è visto coincidere il tema sociale con il tema morale, ed ambedue, per la ragione ultima del loro essere, giungere ad evocare il principio metafisico-mistico. I diaframmi scolastici scompaiono e forze spirituali sembrano urgere nell’umano con violenza restauratrice: viene in particolare compresa la necessità di riconquistare quella saggezza interiore che in antico veniva chiamata “conoscenza di sé”, e viene riconosciuto che soltanto tale conoscenza può offrire la soluzione dei piú gravi problemi dell’umanità attuale e dare a questa infine la possibilità di aprire gli occhi, di conoscere chi è veramente il suo avversario, quali sono i suoi pericoli, quale la via della sua salvezza. Un avversario veramente esiste, ed è forse da moltissimi il meno sospettato: è un avversario che ha agito sempre sotto maschere diverse, attraverso un’azione che si potrebbe anche chiamare “sub-liminale”. E possiamo subito dire che esso ha agito principalmente attraverso la diffusione di un errore che purtroppo è divenuto la base della conoscenza moderna della vita, della cultura, della morale. Ben sapendo che l’autentica perfezione della vita umana consiste in una comunione armonica tra spirito e vita, tra pensiero e azione (comunione che, come si è spesso rilevato, si esprime in forma felice nella Tradizione di Roma) da secoli “qualcuno” ha operato in seno ai popoli a separare la spiritualità dalla vita materiale, specialmente attraverso la confusione recata nel campo della cultura, attraverso una falsa rappresentazione di ciò che veramente è spirito e di ciò che veramente è aspetto materiale della vita, attraverso un’azione metodica di travisazione degli elementi propri alle tradizioni metafisiche dei popoli.

Ora, si ha un bel predicare contro il materialismo moderno: questo non potrà mai essere sradicato dall’anima dei popoli, se non si potrà contrapporgli null’altro che una cultura conforme alla vita moderna, al modo di pensare moderno, già depotenziato proprio a causa dell’accennata separazione tra spirito e vita. Né dobbiamo credere che tale separazione possa essere superata grazie a un semplice atteggiamento mentale: una sola via si offre a chi oggi veramente voglia cessare di essere strumento di forze e di miti di oscura origine: riprendere contatto con quella Tradizione spirituale occidentale, nella quale, mentre è presente la concezione ternaria per cui il pensiero e l’azione possono fondersi grazie all’azione di un principio ad essi superiore, che è lo spirito, al tempo stesso è contenuta l’esatta descrizione degli aspetti sotto cui si può presentare la prevaricazione dualistica, sia nel senso del pensare astratto sia nel senso dell’agire materialistico. Soltanto chi è capace di riacquistare quella che dagli antichi saggi veniva chiamata “conoscenza di sé”, può oggi veramente riconquistare la propria personalità e lottare efficacemente contro le deviazioni dovute alla prevaricazione materialistica, non soltanto nella forma esteriore ma soprattutto in senso interiore. Se noi consideriamo che l’errore dualistico ha agito nella cultura moderna in modo da poter essere accettato persino sul piano piú altamente intellettuale sotto specie di opposizione tra il Bene e il Male, tra la verità e l’errore, mentre si tratta parimenti di due errori, possiamo renderci conto delle difficoltà di risolvere positivamente tale problema. Infatti, dalla cultura e dall’intellettualismo inconsapevolmente inspirati al materialismo moderno, questo dualismo è stato presentato in una forma che può veramente sembrare legittima: in alto, le attività dello spirito, in basso quelle della materia, come due forze opposte, Dio e il Diavolo, il Bene e il Male, l’ordine e il disordine; mentre, se noi esaminiamo questi due aspetti soprattutto nelle ultime formazioni della filosofia e della cultura, ossia sotto forma di idealismo e materialismo, ci accorgiamo che si tratta di due forze in apparenza contrarie, ma che in sostanza sono ambedue al servizio di un unico errore veramente diabolico, trattandosi di un pensiero incapace di possedere in profondità l’esperienza fisica e di un piano fisico che ignora ogni vera esperienza dello spirito. Abbiamo detto che la risoluzione di questo dualismo è possibile soltanto se si può ridestare l’idea secondo la quale il vero bene non è nello spirito che esclude il basso o viceversa, ma in una sintesi dei due temi, in ordine a un terzo principio ad essi superiore, capace di dare a ciascuno di essi la sua autentica funzione creativa e di agire come potenza di sintesi.

Ma, esaminando la civiltà moderna, dobbiamo necessariamente constatare che questa separazione tra spirito e vita è talmente profonda, che non esiste quasi nessuna attività di carattere spirituale che sia veramente spirituale e nessuna attività di ordine materiale attraverso cui l’uomo veramente domini il piano della materia: attraverso la deleteria antitesi è stata provocata in ogni campo una immane confusione di valori, evidente specialmente nel campo filosofico, culturale, scientifico, per cui l’umanità viene continuamente allontanata dalla soluzione vera di ogni suo problema. Altra conseguenza di tale inversione di valori è la confusione dei linguaggi, ossia l’incapacità degli uomini a intendersi in sede dialettica: il che naturalmente rende gli individui piú agevoli strumenti di forze prevaricatrici, di errori sotto forma di verità. Il nemico dunque è dappertutto, sempre pronto a far ricadere nella falsa esperienza anche chi sinceramente combatta per ritrovare la verità.

Occorre che l’uomo non cerchi appoggi e rimedi in ciò che gli è abitudinario, in ciò che gli è stato reso familiare sotto diverse forme di cultura e di consuetudine sociale, ma che sappia infine ritrovare se stesso, contemplare se stesso, riconoscersi in quel piano della pura coscienza in cui da tempo era disabituato a sentirsi, e da questo prenda le mosse per riordinare se stesso. Perché riordinare se stesso è il principio per riordinare ciò che è fuori di sé: chi possiede la regola interiore può veramente fondare una regola esteriore. Mai il mondo esteriore potrà essere riordinato da chi non possiede quell’ordine interiore che è la “conoscenza di sé”. Taluni non sospetti avversari del costume materialista si illudono che sia sufficiente opporre ad esso una spiritualità o una religiosità o un idealismo di tipo moderno, per neutralizzarlo o eliminarlo, e non si avvedono che, secondo il loro rimedio, in sostanza si tratterebbe di passare da un errore ad un altro, da una forma dell’anti-Tradizione ad un’altra.

Ecco perché il problema si presenta insolubile. E occorre il coraggio di non essere in alcun senso ottimisti; occorre avere il coraggio di riconoscere che né la cultura, né la religione, né l’economia, né la politica, né il pacifismo, né il militarismo, hanno saputo fino ad oggi offrire una soluzione, perché in ciascuna di queste attività proprie all’uomo moderno esiste un errore comune a tutte: l’estroversione, il capovolgimento del rapporto spirito-materia, la sottile inversione dei valori. Si può dire che un sovversivismo occulto ha inquinato ogni aspetto della vita dell’uomo, il quale, ove creda di salvarsi col passare da un sistema ad un altro contrario, non fa che passare da un settore ad un altro dominato, sotto diversa forma, dallo stesso errore.

L’unica salvezza è – ripetiamo – nella “conoscenza”, nell’autentica via metafisica, nella resurrezione dell’autentica Sapienza tradizionale: perché essa soltanto dà il modo di riprendere coscienza di sé e di identificare e combattere l’errore alla sua origine. Qualcuno, in questi tempi, piú di una volta ha avuto il coraggio di parlare di ciò, ma subito le forze dell’anti-Tradizione in veste “tradizionalista” si sono mosse e hanno cercato di soffocarne la voce: nuovi scribi e nuovi farisei hanno riaffermato il loro atteggiamento classicamente anti-metafisico, sotto l’etichetta della religiosità, e tale atteggiamento è stato accompagnato dal solidale controcanto dialettico del mondo “borghese”, ormai ossificato dalla sclerosi razionalistica. Ma se qualcuno ha osato pronunciare nuovamente il Verbo della Tradizione, fondare la Scienza dello Spirito, evocare il Principio, il Lògos, pur non udito o compreso, ciò forse vuol dire che i tempi sono maturi perché il passaggio da un ciclo all’altro si compia sotto il segno di una schiera di nuovi eroi, veramente capaci di conoscenza, veramente atti al combattimento.

Rendere viva la Tradizione, liberarsi dalle espressioni morte, ossia da quelle che permangono come meccanizzazioni dialettiche di originari princípi dello spirito: è questo il compito iniziale. Occorre chiarire peraltro che assumere i principi della Tradizione non significa rivolgersi alle grandezze del passato e svalutare il presente, non consiste in un rimanere affascinati dalle forme in cui questa Tradizione si espresse nel passato e il considerare il presente soltanto in relazione a tali forme. È questo un altro pericolo della deviazione verso la pseudo-Tradizione, in quanto, senza avvertirlo, si fa soggiacere la Tradizione a una concezione temporale e formale, mentre la Tradizione, per il suo carattere metafisico, muove, se cosí si può dire, da un piano supertemporale e meta-morfico. Essa non appartiene al passato o al presente o al futuro, rimanendo nella sua perennità inalterata dal tempo, ma appunto per questo essa deve poter riflettersi in ogni tempo senza che ne risulti modificata la sua originaria essenzialità, rivestendo in ogni ciclo le forme culturali che a questo sono proprie, attraverso un’interpretazione sempre adeguata e sempre nuova.

In tale senso la Scienza dello Spirito ha il compito in ogni epoca di rendere attuale la Tradizione, ossia di evocare le forze della perenne conoscenza, per la risoluzione dei problemi piú urgenti del tempo, cosí che ogni aspetto della vita umana possa essere contemplato e rettificato alla luce di questa Conoscenza. Se esistono dottrine che pretendono riflettere il Vero Unico ma sono incapaci di offrire all’uomo la soluzione – non semplicemente dialettica ma soprattutto pratica – per i problemi dominanti della sua epoca, tali dottrine avranno soltanto un valore particolare, non un valore universale: esse non saranno certamente la vera Scienza dello Spirito, epperò non saranno la veste autentica della Tradizione; esse saranno, bensí, comprese nella vastità unitaria della Scienza spirituale, ma non saranno questa Scienza. Il segno che specialmente contraddistingue l’antica e inconfondibile Scienza dello Spirito è la sua possibilità di comprendere, spiegare e trasformare nel senso della perfezione tutti gli aspetti dell’esistenza umana – nessuno escluso – cosí da rendere attuale in ogni tempo la loro virtú potenziale, normalmente mal riflessa o deformata.

È questa la migliore pietra di paragone per riconoscere in quale cultura o in quale dottrina è presente quella Sapienza “solare” che inestinguibilmente insegna ai pochi che vogliono cercare e capire, ai pochi che intendono essere svegli, vivere e non essere vissuti – protagonisti ignoti della storia di ogni tempo – la via per ricondurre l’umano al Divino e per rendere sempre piú conforme al disegno divino l’architettura della vita individuale e della vicenda sociale. Perciò noi possiamo sapere, sia con certezza intellettiva che per via di conoscenza super-razionale, dove questa Sapienza oggi è, come sempre, viva.

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Selezione da «La vita italiana», marzo 1943, fasc. 360.

per gentile concessione de L’Archetipo

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LA “REFLEXIO” JUNGHIANA (di F. De Pascale)

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Carl Gustav Jung è indubbiamente uomo di grande cultura, fornito di una raffinata dialettica, di un seducente e illudente linguaggio, dominato in maniera magistrale. Ma – come insegna Massimo Scaligero – “ciò che seduce non libera!”.

Chi conosca l’Opera di Massimo Scaligero, sa bene come proprio il pensiero riflesso – anche nel suo momento dinamico come pensiero pensante – sia proprio ciò che lega l’uomo alla dimensione corporea, alla prigione somatica: quella che faceva dire agli antichi Iniziati orfici e pitagorici: “soma-sema”, ossia “il corpo è una prigione, il corpo è una tomba nella quale l’anima muore!”.

E la bronzea catena, che lega l’anima al corpo-prigione, al corpo-tomba, è proprio il pensiero riflesso: quel cogitante pensiero, che come descrive lo stesso Jung, è solo un “riflesso virtuale”, quindi una immagine “non reale” – come ben sa chiunque abbia studiato a fondo sia la Fisica che l’Ottica, come scienza della visione. Un tale pensiero riflesso, esangue e disanimato, è mediato dallo strumento del cervello, del sistema nervoso centrale, degli stessi organi di senso, cui è così ferreamente incatenato, talché verrebbe la tentazione di dire che è “in-catena-morto”. E infatti la maggior parte degli umani passano tutta la vita – se poi quella è vita – con un tale pensiero incate-nato sino a che la morte mette fine a quella farsa che è solo una parvenza di vita, mentre è unicamente un lunghissimo, estremamente rallentato, morire.

Che una tale “riflessione” doni una qualche “libertà di fronte alla costrizione delle leggi naturali”, come afferma Jung, non è solo una “fabula” – come affermerebbe il Vico della “Antiquissima Italorum Sapientia” – ovvero non è solo, come si può evincere dal facile anagramma, una “bufala”, bensì altresì è una pericolosa illusione. Illusione, perché nel pensiero riflesso, nella riflessione cogitante, l’essere umano può bensì credere di essere autonomo e libero dai lacci e lacciuoli della costringente natura, mentre ne è solo più sottilmente, e più insidiosamente, manovrato: un tale pensiero, infatti, gli è “suggerito”, dalla natura stessa che lo illude e lo manovra, affinché egli non cerchi l’unica vera libertà, la quale può sorgere soltanto dalla realizzazione del “pensiero libero dai sensi” del quale parla Rudolf Steiner nel quinto capitolo della sua Scienza Occulta, e Massimo Scaligero in ogni pagina della sua Opera.

Del resto, l’ideologia marxiana e quella leninista – a loro modo coerentemente – riconoscono gnoseologicamente nella “teoria del rispecchiamento”, ossia nel fatto che, a loro dire, il conoscere umano è solo una sovrastruttura, un riflesso della realtà materiale esteriore, mentre è vero esattamente il contrario: chi pratica la Via del Pensiero e la Concentrazione dimostra a se stesso, sperimentalmente che è possibile liberare il pensare dalla mediazione del sistema nervoso e dagli organi di senso, e sperimentare la realtà originaria del pensiero vivente su sé fondato, unica mediazione a se stesso, e la realtà di un Mondo Spirituale, del quale il mondo sensibile non è che un riflesso, una illudente “maya” o una manifestazione, direbbero i Sapienti d’Oriente e d’Occidente.

Quindi, quella che propugna con un linguaggio accattivante Carl Gustav Jung, è una menzogna, dimostrabile come tale da chiunque si impegni con volontà veramente consacrata nella Via del Pensiero e nella Concentrazione. Il pensiero riflesso non è, e non può mai essere, libero: né nel suo aspetto statico come pensiero pensato, né nel suo aspetto dinamico come pensiero pensante, ossia come pensiero riflesso in movimento.

Jung invoca un “comportamento”, ossia un’azione, ma una tale azione, basata sul pensiero riflesso ferreamente incatenato al sistema corporeo, non sarà mai un agire libero. L’essere umano non è certo libero perché condizionato dalla costrizione di un vincolo o di una molla interiore, che non scorge, invece che da una costrizione grossolanamente esteriore: sarebbe ben ingenuo solo il pensarlo! Infatti, oramai da molto tempo, tutta la demagogia politica e confessionale, e quella della pubblicità commerciale, sono basate sulla costrizione, non avvertita come tale, dei “persuasori occulti”, il cui estremo strumento – cinicamente spregiudicato – è quello dell’uso, più che abbondante, delle percezioni subliminali.

La stessa psicologia comportamentale – quella che gli anglosassoni chiamano “behaviourism” – si basa esattamente su questo principio. A tale proposito, una lettura molto istruttiva è quella del libro dell’americano Francis Skinner “Beyond Freedom and Human Dignity”, ossia “Oltre la libertà e la dignità umana”, nel quale si negano quali pericolose illusioni concetti “sovversivi” come quelli della “libertà” e della “dignità umana”, e si propugna un forzato, ancorché abilmente mascherato, condizionamento psicologico e integrale degli individui e dlle masse, da parte di una classe dirigente di “tecnocrati”, unici “razionalmente” legittimati a detenere il potere assoluto. Anche le cosiddette neuroscienze e il condizionamento neuro-linguistico si basano sugli stessi presupposti.

Curiosamente, l’idea junghiana del “comportamento” basato sulla “reflexio”, coincide perfettamente con l’idea marxiana e leninista della “praxis”, ossia dell’agire rivoluzionario coerentemente derivato dal presupposto logico erratissimo – e si può dimostrare razionalmente e sperimentalmente che lo è – che il pensare e conoscere umano sia soltanto il cosciente riflesso della realtà sensibile. In effetti il marxismo e il leninismo concepiscono la “liberazione” del proletariato dalla “schiavitù” del sistema produttivo capitalistico e dal sistema politico borghese, che ne è la sovrastuttura, e non concepiscono affatto una “libertà” dell’individuo singolo, la cui esistenza è solo un momento del processo storico ed economico, quindi una mera illusione. Quando Rudolf Steiner insegnava alla Scuola Operaia di Berlino, fondata da Wilhelm Liebknecht, entrò in aperto e aspro contrasto con i dirigenti marxisti della medesima, i quali gli opposero il principio che loro “non conoscevano affatto una libertà reale, ma solo una ragionevole costrizione”. Le conseguenze tragiche e sanguinose sul piano sociale di una tale impostazione teoretica errata sono sotto gli occhi di tutti coloro che veramente vogliono pensare. Non per niente, nella seconda metà dello scorso secolo, si è manifestata, negli intellettuali “à la page” e “radical chic”, una appassionata “corrispondenza di amorosi sensi”, per dirla col Foscolo,tra le teorie marxiane, la psicanalisi freudiana e la psicologia analitica junghiana.

Il limite materialistico di Jung è più abilmente e dialetticamente mascherato che non in Freud, ma non per questo meno efficiente e più pericolosamente insinuante e illudente. Jung parla della “psiche”, ch’egli conosce unicamente sul piano discorsivo, non potendone avere esperienza o percezione diretta alcuna, e nega apertamente che tale “psiche” sia l’anima – la quale “apertis verbis” afferma di non sapere cosa sia – così come nega, che più chiaramente non potrebbe, il fondamento divino, e quindi la realtà non sensibile né materiale, dell’anima stessa. E gli stessi “archetipi” dei quali parla non sono entità spirituali ontologicamente fondate, bensì per Jung sono unicamente deduzioni cliniche verbali, deducibili dalla omologia biologica dei diversi sistemi nervosi degli individui umani: quindi, a suo stesso dire, nulla di spirituale. I mezzi che usa nella sua prassi “terapeutica” sono un pessimo strumento perverso come il fine e l’inevitabile risultato che si propone: non certo la realizzazione della guarigione del paziente, né tantomeno la libertà dell’Io, cui non credeva affatto.

Jung non si è affatto “convertito”, ossia non ha attuato una ascetica “metanoia” del pensare nella sua luce originaria, ché una tale “metanoia” egli non poteva, perché non voleva attuare, poiché la temeva con quel compulsivo terrore, che lo spinse addirittura a fuggire – soli 30 km da Tiruvannamalai – dalla possibilità di incontrare un Asceta autentico, uno Jnani realizzato, come Ramana Maharshi, il quale con un solo sguardo, col suo travolgente Silenzio, avrebbe ridotto al nulla tutto il suo intellettualismo psicoanalitico, e gli avrebbe mostrato come sia ben concreta la realizzazione dell’Io, dell’Atman, radicalmente indipendente dalla dimensione corporea, e dalla sua pallida e anemica appendice mentale e psichica. Ma Jung era solo un medium, non un asceta.

Il pensiero riflesso, sia statico e pensato che dinamico e pensante, non è libero in quanto riflettente in maniera obbligata l’apparire sensibile e legato alla mediazione nervosa e corporea che lo incatena, e alle sue risonanze costringenti l’anima prigioniera. MA la volontà la quale coscientemente VUOLE il pensiero riflesso, è libera. Una tale cosciente volontà pensante, la quale si voglia nella Concentrazione, e quindi voglia insistentemente il proprio volere – dapprima attraverso la mediazione di un pensato univocamente pensato, poi liberandosi anche di tale mediazione col volere il proprio cosciente movimento indipendente da OGNI pensato – realizza la libertà autentica: libertà da ogni limite e supporto sia corporeo che animico. Questa è la vera ed unica terapia dei mali del corpo e dell’anima: Non quella di cui parla Carl Gustav Jung, la quale – beffardamente suggerita da potenze antispirituali ostili all’uomo e alla sua libertà – è solo una tragica presa in giro mediante il suo asservimento corporeo e “psichico”!

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L’ESSERE CENTRALE DELL’AMORE (di M. Scaligero)

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Trasparenza del primo tramare dell’anima nella sfera dei Serafini, è il primo risonare dell’accordo che nell’altro s’incentra, secondo il moto iniziale dell’amore: richiesta di un’azione rinnovellatrice della piú alta vicenda dell’essere metafisico: vicenda che nell’oscurità della Terra diviene forza di Resurrezione.

Perché l’Amore Divino trasformatore entri nel mondo, occorre il concorso di due esseri il cui amore sia intenso e fedele nell’umano, ma il loro accogliere questo Amore Divino non è sufficiente alle categorie ricettive umane che trepidano ed ingenuamente possono alterare il principio. Occorre che i due evochino l’Essere Centrale dell’Amore perché agisca come una Forza piú forte, capace di superare le incertezze e i tremori delle categorie umane. Perché l’evocazione di questa Forza piú forte sia possibile, occorre, oltre la massima intensità dell’Amore umano, la massima capacità di donazione come capacità di sacrificio e di superamento del dolore. Questa è la chiave dell’Amore che vincerà il mondo. QUESTA FORZA È INTERNA ALL’IO. Si può evocare e adorare e anelare fuori di sé, ma è intima al proprio Io.

L’amore nasce per l’altro, ma il suo universale è unicamente la vita mediante cui nasce nell’Io ed è in tal modo conoscibile all’anima come proprio movimento, ma al tempo stesso come il proprio mistero, apparente nella inaccessibilità dell’anima dell’altro: onde si anela a una gioia, che tuttavia è ben vivente in un luogo celato dell’anima: si anela ad essa come fosse irraggiungibile, e questa è la gioia poetica, del cercarsi per ritrovarsi, ogni volta, per un moto abnegante dell’anima.

Il segreto dell’amore infinito è il summum crucis, il senso della relazione come apice di una cristificazione dell’essenza: il summum è il conoscere l’unicità assoluta dell’essere dell’altro. Summum crucis, perché finisce con l’essere la relazione segreta delle anime, come relazione unica, che ha in sé la chiave di tutte le relazioni: questa unificazione per la relazione assoluta è il segreto per essere in rapporto a tutto l’umano, femminile e maschile, fuori dell’equivoco dell’eros. Ogni minima reazione dell’etero-sessualità va risolta nell’univoco e segreto e assoluto rapporto con l’unico altro. Questo è un aspetto della Via della Salvazione. È un modo dell’essere cristico dell’amore umano, la compenetrazione della monade cosmica dell’amore nell’accordo dei due che rifiorisce: possa il Graal risplendere di là dalle brume dell’attuale mondo, grazie alla dedizione dell’altro, per virtú dell’unico e vero incontro. La croce è il segno della restaurazione dell’ordine cosmico dei quattro: terra, acqua, aria, fuoco. “Riscaldare col fuoco la terra…” è il segreto dell’amore, il segreto della Croce.

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(M. Scaligero, aprile1969)

per gentile concessione de L’Archetipo

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L’ARCHETIPO-LUGLIO 2025

Anno XXX n. 7

Luglio 2025

In questo numero:

NELLA TEMPESTA È IL RIFUGIO (di F. De Pascale)

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Malgrado le mie caustiche considerazioni a taluno possano far sembrare il contrario, io NON sono affatto pessimista. Perché conosco bene che cosa significhi VOLERE. Certo, volere non è desiderare. Desiderare è un’emozione passiva, uno stato d’animo istintivo, il cui entusiasmo facilmente svanisce, evaporando di fronte alle prime serie difficoltà. Il volere, invece, è sempre mosso dalla Conoscenza, e quindi dal pensare cosciente. Già per il pensare cosciente è necessario un attivo e fervido volere.

Io NON sono affatto pessimista – pur non nascondendomi punto la gravità della situazione generale umana, e quella ancor più grave delle comunità sedicenti spirituali, le quali in molti casi latitano o tradiscono – non sono affatto pessimista perché Massimo Scaligero in “Kundalini d’Occidente” scrive che nelle epoche più oscure e antispirituali, nei momenti di pericolo per la storia umana, il Mondo Spirituale proietta nell’umano le sue forze più potenti, e ai volitivi sperimentatori sono possibili audaci realizzazioni, che in epoche “più spirituali” sono maggiormente difficili, perché l’essere umano in tali epoche facilmente si addormenta nel sogno della “tradizione”, e scambia una “natura spirituale” per lo Spirito.

Anche il principe Siddhartha – il Buddha Shakyamuni – affermava che “NELLA TEMPESTA E’ IL RIFUGIO!”. Le difficoltà e le tragedie che l’umano sta attraversando non possono impedire la realizzazione dello Spirito, anzi possono favorire tale realizzazione, perché lo Spirito è “atto” e non un “fatto”. Come ammonisce Massimo Scaligero ne “L’Uomo Interiore”, nello Spirito non si “sta”, nello Spirito si “è”! E nel “Trattato del Pensiero Vivente” afferma che il pensiero volitivo di pochi asceti può operare positivamente e vittoriosamente per la generale condizione umana, perché “è un solo pensare quello che pensa nei pensieri dei molti”. Un tale pensare volitivo – anche di pochi asceti sconosciuti operanti in silenzio e in solitudine – evita tragedie più grandi e, pur tra mille strazi e difficoltà, restituisce luminosità e positivo svolgimento alla vicenda umana.

Un’audace – apparentemente paradossale – affermazione di Massimo Scaligero, da me molto amata, è che “noi siamo condannati a vincere, perché noi abbiamo il pensiero”.

Occorre consacrarsi – in maniera “unicitaria”, come direbbe la mia amica cinese Fang-pai – alla Via del Pensiero, e soprattutto alla Concentrazione. Occorre – nella Concentrazione – volere, volere intensamente, volere a lungo, volere sino a infrangere il limite umano. Occorre rendere incandescente il volere con il “freddo” pensare, e non con la tiepida sentimentalità delle “anime belle”.

E di tali asceti – pur non essendo essi folla – ve ne sono, e operano in maniera consacrata nell’ascesi individuale solitaria e nel Rito dell’ascesi individuale fraternamente svolta nella meditazione in comune con altri.

Rudolf Steiner, nell’ultimo colloquio avuto con Giovanni Colazza – Maestro di Massimo Scaligero, che più volte me ne riferì – affermò che se l’Antroposofia avesse fallito la sua missione in Germania, sarebbe rinata in Italia in novella forma, giovanile e non legata a strutture organizzative cristallizzate e burocratiche.

Circa il fatto che nel novembre del 1923, Rudolf Steiner – di fronte alla inadeguatezza dei discepoli della Scienza dello Spirito, che in vari casi – in maniera insana e improvvida – giunsero in Germania a contestare la fondatezza della sua visione spirituale e il suo operare, volesse ritirarsi in un villaggio svizzero, costituendo con pochissimi discepoli “provati” un Ordine occulto rigorosamente chiuso – “streng geschlossen” dicono i testi in lingua tedesca – lasciando al suo destino la Società Antroposofica e movimento antroposofico, mi fu riferito personalmente più volte da Massimo Scaligero, e dopo la sua dipartita da Hella Wiesberger del “Lascito” di Rudolf Steiner, la quale mi dette anche le probanti testimonianze scritte della cosa. Furono le preghiere e le accorate richieste di Marie Steiner e di Ita Wegman a farlo desistere e a compiere quello che lui stesso definì un “azzardo” – “ein Wagnis”, dicono i testi tedeschi – di unire attraverso la sua persona movimento antroposofico e Società Antroposofica. Ma avvertì che da quel momento in poi “egli sarebbe stato responsabile di fronte al Mondo Spirituale per tutto quel che sarebbe accaduto, e che per gli errori e tradimenti della Società Antroposofica egli avrebbe pagato di persona”. Furono le inadeguatezze, le facilonerie, le superficialità, gli errori, le viltà, e in taluni casi il tradimento – sono le sue stesse parole – che lo condussero alla tomba, più che non il veleno che la parte avversa gli propinò al “Rout” del 1° gennaio 1924.

Egli affermò che se la “Fondazione di Natale” non fosse stata accolta entro sei mesi dalla Società Antroposofica, essa sarebbe stata ritirata dal Mondo Spirituale. Ed io ho la testimonianza scritta del fatto che nel giugno 1924, prima di entrare nella sala delle conferenze, egli disse a Ina Schuurman – persona vicina a Marie Steiner e al “Lascito” – che “la Fondazione di Natale è stata ritirata dal Mondo Spirituale”.

La grandezza spirituale di Massimo Scaligero è anche nell’aver donato al mondo in forma novella e rigenerata la Scienza dello Spirito di Rudolf Steiner, mettendo al centro – come filone aureo di essa – la Via del Pensiero Vivente, e la concreta realizzazione ascetica attraverso gli esercizi: soprattutto la Concentrazione, da lui definita più volte “l’esercizio a sé sufficiente”.

A tale indicazione di Massimo Scaligero – che viene vilmente attaccata da coloro che meno dovrebbero – alcuni amici hanno deciso di rimanere risolutamente, ostinatamente, cocciutamente fedeli.

Niente è impossibile ad una volontà realmente consacrata.

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LA FEDELTÀ – cap. 3 (di F. Caruso)

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 L’ATTITUDINE ALL’IDEALITÀ É IN REALTÀ L’ATTITUDINE A DONARE LA PROPRIA ANIMA AD UN’IDEA.

DONARLA FACENDOSI RICETTACOLO VIVENTE DI TALE IDEA.

DONARE LA PROPRIA ANIMA ALL’AMORE PER TALE IDEA.

TALE É L’IDEALISMO SPONTANEO CHE OGNI ANIMA GIOVANILE POSSIEDE.

OGNI ANIMA APPENA SORTA ALLA VITA.

 

L’AZIONE DA COMPIERE SAREBBE RICONOSCERE COME IDEALE DA AMARE (IDEALE CUI DONARE LA PROPRIA ANIMA) PROPRIO TALE CAPACITA’ DI AMORE IDEALISTICO.

L’ANIMA DOVREBBE AMARE QUANTO DI DEVOTO LE SORGE NEL PROPRIO INTIMO.

DOVREBBE AMARE QUANTO DI ALTO LE SI AFFACCIA COME IMPULSO IDEALISTICO.

DOVREBBE VENERARE CIO’.

DOVREBBE ESSERE FEDELE A CIO’.

AL MISTERO DEL PROPRIO ILLUMINARSI DI VOLONTA’ DI ANDARE OLTRE SE STESSA.

IN ALTO.

VERSO IL SOLE SPIRITUALE.

OGNI ANIMA NELLA SUA PARTE ETERNA ESSENDO COSI’ STRUTTURATA.

 

TUTTE LE ANIME SENTONO LA NOSTALGIA DEL DIVINO SOLE SPIRITUALE DA CUI PROVENGONO. TALE E’ L’ESSENZA DI OGNI IDEALITA’.

SOLE DIVINO DI CUI QUELLO FISICO E’ LA DIRETTA EMANAZIONE.

SOLE DIVINO DI CUI QUELLO FISICO E’ LA VESTE, IL PRODOTTO, L’EFFETTO.

SOLE DIVINO: SOLE LOGOS.

SOLE DEL REDENTORE.

 

FEDELTA’ QUINDI VERSO CIO’ CHE L’ANIMA SUGGERISCE COME AMORE E DEVOZIONE.

SI TRATTA DI ESSERE FEDELI AD UN’ATTITUDINE CHE L’ANIMA HA CONNATURATA IN SE’.

SI TRATTA DI ESSERE FEDELI A DELLE FORZE PURE, COLME DI RISPETTO E DEVOZIONE.

FEDELI ALLA PIU’ ALTA ATTITUDINE DELLE ANIME. L’ATTITUDINE A DONARE LA PROPRIA VITA AD UN VALORE CHE LA PERVADA E CHE ESSA POSSA FAR VIVERE IN SE’.

 

FEDELTA’ AL PROPRIO POTERE DI DEVOZIONE VERSO L’ALTO.

FORZE PURE QUINDI.

FORZE NASCENTI.

FORZE SPONTANEE CHE L’ANIMA GIA’ POSSIEDE.

E CHE OCCORRE UNICAMENTE SCORGERE.

ALLE QUALI OCCORRE UNICAMENTE PRESTARE ATTENZIONE.

NELL’INTENTO DI ESSERE FEDELI.

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Collana Helios Fuoco Solare – F. Caruso: “La Fedeltà” – cap. 3

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LA TRADIZIONE SOLARE (di G. Burrini)

Α†Ω

Da tempo l’uomo ha smarrito il senso della Tradizione, il legame di continuità con il passato, con il sacro, con le consuetudini consolidate dalla storia e pervase dalla fragranza dell’eternità. L’uomo d’oggi non si sente più cittadino di una “comunità di valori”, non ha più una patria dello spirito cui appellarsi nei momenti felici o bui dell’esistenza. Se per traditio intendiamo il trasmettere, quindi il ricevere e l’accogliere, la nostra civiltà ha ben poco da tramandare ai posteri che non sia la pura difesa di valori contingenti alle sue sorti politiche e civili: l’umano, troppo umano, per dirla con Nietzsche. Eppure mai come oggi l’uomo anela a ripercorrere le vie della Tradizione: sgombrandoli dalla polvere dei secoli, riporta alla luce, riesuma e indaga antichi testi religiosi, arcaiche costumanze, lontani rituali utilizzati per sacralizzare il divenire del tempo, affinché essi parlino ancora una volta all’anima umana. Esplora i più reconditi ambiti del pianeta per confrontarsi con incontaminati modelli di società, con diversi stili di vita, alla luce dei quali correggere o colmare il vuoto del presente.

Questa rinnovata voglia di Tradizione, che dilaga nel mondo attuale, è il frutto dell̓“epoca di Michele”, della reggenza dell’Arcangelo, che dal 1879 – secondo la Scienza dello spirito – presiede alle sorti dell̓umanità, non per risparmiarle l’esperienza del male, ma per far sì che l’uomo intraveda da sé, nella dimensione autocosciente del pensare, la via del ritorno, del nostos allo Spirito, cui ogni essere come ramingo Odisseo disperatamente aspira. L’impulso dell’arcangelo Michele rompe le barriere, espande i confini, dilata gli orizzonti: pone popoli a contatto con altri popoli, lingue con lingue, tradizioni con tradizioni, affinché l’uomo edifichi quel villaggio globale nel quale a ognuno sia offerto concretamente di poter perseguire il cammino dell’evoluzione interiore.

La grande barca che veleggia sulla via del nostos è il pensare vivente, lo strumento per governarla – ci insegna Massimo Scaligero – è la concentrazione. È d’obbligo però sottolineare la differenza fra la tecnica antica della concentrazione, insegnata per esempio dallo yoga, e quella moderna ampiamente delucidata da Scaligero. Nel contesto hindu la concentrazione su un solo punto (ekāgratā) è un esercizio statico di attenzione della mente che si fissa su un punto del corpo, per lo più la zona sopracciliare, rifuggendo da ogni altra osservazione dei moti del pensare, che anzi lo yoga ravvisa come devianti e illusori. Secondo l’indiano Patañjali (Yogasūtra, 1, 2) «lo yoga è la soppressione dei movimenti del pensare», in quanto essi sono dovuti a ignoranza, passione o avversione e pertanto sono fonte di dolore. Al contrario, la concentrazione additata da Scaligero è un processo dinamico, in quanto, promovendo l’attività eidetica del pensare, si prefigge di contemplare infine il suo potenziale e di far tesoro della sua forza impersonale.

Senza il timone fornito dalla tecnica della concentrazione l’anelito al nostos si infrangerebbe sugli scogli della Tradizione lunare, ovvero di quelle tante antiche vie di liberazione che l’intelletto umano oggi riscopre dialetticamente, illudendosi di riviverle spiritualmente. In realtà le riesuma dal passato non con l’ausilio del pensiero cosciente – il solo che possa ricreare lo spirito – ma del pensare riflesso o lunare: semplice riflesso dei fatti e dei fenomeni che ogni giorno viviamo. Sennonché il pensiero non fu dato all’uomo perché egli lo spendesse esclusivamente nell’arido mondo dei fatti o perché se ne servisse utilitaristicamente come uno specchio in cui osservare il quotidiano: fu dato invece perché egli ne sperimentasse la vivente incorporeità.

Al timone della concentrazione, l’uomo evita gli scogli della Tradizione lunare e si immette nelle acque limpide della Tradizione solare. Questa Tradizione albeggiò nell’epoca assiale dell’umanità, quando Socrate in Grecia e il Buddha in India educarono per primi l’umanità a coltivare la forza del concetto. Non a caso Scaligero – che possedeva una solida preparazione orientalistica – parla di natura originaria del pensiero, riecheggiando la tradizione buddhista che ravvisa in ogni essere umano una originaria natura buddhica (Mahāparinirvāṇasūtra, 12). E neppure a caso egli qualifica come estinzione buddhica il grado di totale annientamento del pensare riflesso e il conseguimento dell̓impersonalità dell̓autocoscienza.

Dopo questi precedenti storici la Tradizione solare trovò il suo rigoglio nel cuore dell’Europa cristiana, attraverso la corrente del Graal, dando vita a una letteratura che cela nei suoi simboli le tappe del cammino di trasformazione iniziatica più consono ai nostri tempi. Dal Medioevo la sua vitalità non si è tuttavia spenta, anzi è rinverdita nel XX secolo grazie al contributo della Scienza dello spirito fondata da Rudolf Steiner. All’interno di questa via spirituale del nostro tempo – che a buon diritto rivendica per sé il nome di «scienza del Graal» (1) – Massimo Scaligero conserva un ruolo precipuo: additarne le strutture portanti, ovvero la dimensione superiore del pensiero puro e l’apertura graalica del sentire, connesso al culto interiore della Vergine Sophia. Che sono poi l’alfa e l’omega, il principio e il coronamento della Tradizione solare.

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Prefazione di Gabriele Burrini a “La Tradizione Solare” di Scaligero

(1) R. Steiner, La scienza occulta nelle sue linee generali

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FREUD E LA CREAZIONE DELLA PSICOANALISI (di F. De Pascale)

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Sigmund Freud e la creazione della psicanalisi: sono oltremodo interessanti se affrontati da un punto di vista occulto. Lo sono però solo se affrontati con la volontà radicale di giungere a completa chiarezza. Pochi davvero, oggi, si rendono conto di cosa si muova ed agisca nel processo sedicente “terapeutico”  nel quale i pazienti – stando alle parole stesse di Freud – “non guariscono mai”, cioè non DEVONO MAI guarire. Vedremo che, al contrario, essi devono, metodicamente, esser fatti ammalare vieppiù profondamente: sino a superare il punto di non ritorno. Si può dire che lo psicanalista sia un vero e proprio antiterapeuta, ovvero manzonianamente un “untore”, intenzionato a spargere alacremente e cinicamente – sempre parole di Freud – la “peste”, e quel che è peggio, una “peste” di tipo spirituale. William Shakespeare direbbe che “in tale follia vi è molto – anzi troppo – metodo!”.

Nel processo della coscienza ordinaria – ovverosia legata all’esclusiva percezione sensibile data dagli organi di senso e ad un pensare meramente riflesso legato al cervello e al sistema nervoso centrale – si crea una massa di “detriti”, una massa di prodotti di decomposizione psichica, che il processo sano dell’anima rimuove, relegandoli in una zona subconscia nella quale dovrebbero permanere sino a gradualmente dissolversi col rientrare nel caos indifferenziato. In tale zona subconscia agiscono altresì le forze della razza, dell’eredità familiare, della natura psichica colludente con l’animalità. Oltre a queste, vi si trovano pure, coagulate, concrezioni psichiche di abitudini, di reazioni obbligate di paure e istintività ancestrali, di quei vortici psichici autonomi e sottraentisi come “complessi” alla normale coscienza sveglia, che nello Yoga e nel Buddhismo vengono chiamati “vasana” e “samskara”.

Nel processo dell’Iniziazione si cura un progressivo e illimitato rafforzamento della coscienza autonoma dell’Io, che deve farsi sempre più concretamente e fattivamente indipendente da quel mondo guasto di forze semicoscienti e subcoscienti, che nel loro insieme sono il “luogo” e il supporto nell’uomo di un vero e proprio “doppio” arimanico. Ossia sono la presenza e la sfera d’azione nell’uomo di una entità antispirituale, ostile e avversaria di tutto ciò che per l’uomo stesso è autocoscienza e libertà: la sua autentica essenza. Questa entità ostile, invadente e normalmente condizionante l’interiorità dell’uomo, non è l’inesistente “inconscio”, del quale secondo una metafisica inversa affabula la moderna psicanalisi, bensì è un essere molto più cosciente e intelligente dell’uomo, il quale se non si libera del suo abietto servaggio nei suoi confronti è, illudendosi di essere libero, solo un pupazzo nelle sue invisibili mani.

L’ illimitato rafforzamento dell’autonoma coscienza dell’Io e della libera volontà porta inevitabilmente ad affrontare un drammatico combattimento con questo “doppio” arimanico che si pasce dei guasti detriti dell’anima, si nutre vampiricamente della sua vitalità, dominandola radicalmente. Ora – è bene non farsi illusione veruna in proposito – questo “doppio”, questa entità ostile e cinica, lotterà selvaggiamente per non perdere il proprio vitale dominio sull’uomo. E’ questo essere ostile e avverso che ha tutto l’interesse a mantenere l’essere umano in uno stato di “ignoranza”, di stordimento, di oblio e di sonno spirituale – di “avidya” direbbero in India – e ad ispirare in lui brama, paura e avversione. Egli si serve indifferentemente di ideologie materialistiche e pseudoscientiste, così come di una religiosità sentimentale, e se necessario persino del misticismo emotivo, di un esoterismo corrotto e trasgressivo, delle morbide e fiacche “vie dell’anima”: tutto gli è utile per incatenare l’uomo alla natura corporea, animale e psichica. Tutto eccetto la Via del Pensiero, la Via che porta all’esperienza cosciente del momento originario del conoscere, alla liberazione dell’atto pensante dalla mediazione del sistema nervoso e dei sensi – anzi liberazione da OGNI mediazione che non sia il suo stesso movimento cosciente – mediante la pratica della Concentrazione: la Via più audace ed eroica.

L’Ostile non ama essere visto: può dominare l’uomo unicamente se l’uomo non vede chi lo asserve. Il termine sanscrito per la Sapienza è “Vidya”, che in effetti alla lettera significherebbe “visione”. Infatti ha la stessa radice del latino “video”, “io vedo”. E’ questa “visione”, ossia la “Sapienza” che è liberatrice. L’ignoranza, “a-vidya”, è l’oscuramento della visione spirituale, lo stordimento, l’accecamento: l’oblio. Così come in greco Verità è “A-letheia”, ossia il non oblio, il non bere, secondo il dettame orfico e pitagorico, le acque del fiume Lethe, le quali dànno un oblio “letale”.

Ma per vedere questo astuto e letale Avversario, è necessario diventare molto forti, e illimitatamente coraggiosi, perché l’iniziato deve operare – come il mio amato Dante – una “katabasis”, una “discesa agl’Inferi”, e affrontare, conoscere, vincere, dissolvere, trasmutare con la Conoscenza – con la “visione” liberatrice – le potenze avverse. Ma la psicanalisi non fa questo, bensì esattamente il contrario. Essa esige che il paziente si indebolisca come coscienza, si “armonizzi” col subconscio, si faccia dominare dall’inconscio. Il processo di analisi verbale della psicanalisi, il suo rimestare nel torbido dei sogni, della sensualità e della sessualità più guasta e di quant’altro, è occultamente un vero e proprio processo di “evocazione” delle forze infere, per attuare uno spregiudicato aprirsi della diminuita e stordita coscienza del paziente all’invasione dal basso dei guasti liquami dei prodotti di decomposizione psichica emergenti dalla zona subcosciente: è la via ad una progressiva “ossessione”. Sotto veste “scientifica”, e corredata del necessario travestimento verbale dialettico e logico, questa è “stregoneria” allo stato puro: è un efficace rituale di evocazione del “doppio” arimanico del paziente, tramite il “doppio” dello psicoterapeuta, il quale ha dovuto passare lui stesso lunghi anni in “analisi didattica”: ha dovuto subire radicalmente l’infezione lui stesso per poter poi trasmettere in maniera veramente efficace l’infezione al paziente. Il quale, come afferma lo stesso Freud, non dovrà mai guarire.

Freud e Jung – si può discutere “filosoficamente” quale dei due sia peggiore – riscuotono notevole successo persino in ambienti esoterici e pseudoesoterici. Vi sono “Maestri” che praticano e insegnano un esoterismo che è una “sapienza del doppio arimanico”, che dànno riti, esercizi e pratiche per il rafforzamento di tale “doppio”, il che porta ad una cosciente o incosciente “magia di patto” nei confronti di tale entità: alla catastrofe dell’intera vita dell’anima. E stupisce assai che simpatie per Freud e Jung si riscontrino in ambiti antroposofici – l’ho constatato personalmente – e persino tra le file “scaligeropolitane”, per usare l’espressione del mio amico C. Uno di questi junghianissimi seguaci della psicologia analitica, 36 anni fa si propose dopo la dipartita del Maestro come il vero erede dell’insegnamento di Massimo Scaligero. Addirittura si propose a Massimo per sostituirlo da vivo, ma malissimo gliene incolse: questo lo so dal racconto divertito di Massimo Scaligero stesso. Il connubio tra psicanalisi ed esoterismo è – a mio personale parere – quanto di più esiziale e “letale” vi possa essere.

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RESPONSABILITA’ DELL’ESOTERISMO (di M. Scaligero)

Woodcut illustration from an edition of Pliny the Elder‘s Naturalis Historia (1582)

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Facilmente può essere mostrato come il superamento del limite meccanicistico al quale si è arrestata la Cultura umana, non si debba attendere dalla Cultura medesima o dalla Scienza, bensì dalle Scienze Spirituali. Alla mancata funzione di queste è possibile far risalire la difficoltà della Cultura a prender coscienza del proprio attuale declino.

La Scienza si è arrestata nella sfera della quantità, non a causa dei propri procedimenti, bensì perché il sistema di questi è stato privato della necessaria controparte interiore: che sarebbe dovuta venire come contenuto intuitivo da coloro che assumono la funzione di orientatori secondo i Principi della perennità. Questi orientatori si sono limitati all’analisi del mondo moderno: non hanno ritrovato dietro l’analisi il retroscena spirituale: proprio dell’Esoterismo ad essi richiesto, non sono stati capaci.

In effetto, gli scienziati e i tecnologi svolgono coscienziosamente la loro opera: riguardo al loro còmpito essi sono in regola, realizzando in ogni campo ciò che è loro pertinente. Lo stesso non può dirsi delle comunità spirituali, il cui ruolo è la connessione dell’umano con i Principi edificatori.

La funzione delle comunità spirituali invero non è riecheggiare le conoscenze del passato, bensì penetrare il conoscere presente, ossia il conoscere da cui muove la stessa ricerca dei valori della perennità. Il loro còmpito dovrebbe essere lo sviluppo della conoscenza richiesta dallo Spirito in rapporto alla “presente” situazione della civiltà: identificare che cosa lo Spirito vuole attraverso l’esperienza della quantità: quale connessione esiga ora con l’umano, oltre la connessione che ebbe nel passato, quando non esisteva dominio della quantità.

Giustamente riconoscendo nel dominio della quantità il livello della caduta, le confraternite spirituali cercano la riconnessione fuori di tale dominio: lo cercano in ciò che era prima, come se il processo dello Spirito nel tempo non fosse intemporale. Lo cercano con il conoscere presente, il cui limite dialettico non viene superato per il fatto che si rivolge a dottrine cui tale limite era ignoto. E tuttavia questo conoscere ha il potere di interpretare la Tradizione e i suoi testi, secondo un’“attuale” capacità di astrazione e di correlazione concettuale, che agli Autori di quei testi era sconosciuta.

Il “passato” viene ripristinato mediante una “connessione interiore” presente, che occorrerebbe scorgere. Non scorgerla significa privare l’attuale condizione umana della connessione richiesta dal suo presente processo interiore: nel quale soltanto può presentarsi la Forza. Non riconoscere la connessione richiesta dalla situazione presente, significa vietarsi di incontrare la Forza dove realmente· continua secondo la sua perennità. Tale perennità è la vera Tradizione, alla cui attuazione presente involontariamente si sottraggono gli assertori nominali di essa: gli Esoteristi, loro malgrado, dialettici.

Coloro che identificano la perennità con il passato temporale opposto al presente attuale, ricercano la connessione antica mediante il mentale moderno. Che non può essere superato grazie al semplice riferimento intellettuale, mistico e filologico, alla connessione antica, in quanto il mentale moderno è il prodotto della perdita di tale connessione.

L’indicazione della connessione antica crede di muovere al di sopra del grado di coscienza che le consente il muovere: edifica su questo il sistema di valori mediante cui lo rifiuta: ritiene di possedere un grado superiore a quello su cui fonda la edificazione e che sostanzialmente ignora. Rende impossibile in tal modo la conoscenza di sé, fuori della forma riflessa o dialettica: dalla quale non riesce a distinguersi.

Malgrado il nobile intento, lo slancio interiore e il regolare apparato filologico, tali confraternite rinunciano alla coscienza del conoscere che attuano e mediante il quale propongono un conoscere che dovrebbe trascenderlo: edificano perciò sull’inconscio.

Additando una connessione metafisica fuori del conoscere da cui muovono, essi distolgono la ricerca spirituale dal punto d’incontro del mondo con la sua originaria Forza: dall’unico punto dal quale è possibile la ripresa del cammino interrotto. Di conseguenza, il dominio meccanicistico della quantità prosegue inarrestabile, continuando ovunque a eliminare la personalità, la qualità, il valore, il reale umano. Perciò lo Spirito, che comunque ha in sé il potere del superamento, deve seguire altre vie.

Alle accennate confraternite sfugge l’elemento originario della coscienza chiamato a rispondere alla richiesta cognitiva del sensibile: e quando talune di esse propongono un superamento del livello “materialistico”, in base all’analisi del processo della Scienza, tale superamento è da temere più del Materialismo medesimo, perché ignora lo Spirituale impegnato nei processi sensibili con la sua forza più elevata, rispondente al momento noetico dell’autocoscienza. Questo momento, in cui si esprime l’elemento originario della coscienza, sia pure nella forma più bassa, è l’impulso che, reso cosciente, ha in sé il potere di superare il limite della quantità. Proprio questo elemento originario viene ignorato dalle accennate confraternite, quando vogliono indicare soluzioni o integrazioni spirituali per la Scienza: sfugge ad esse l’affiorare dell’Io nel processo cognitivo che intendono trascendere.

A tale livello, l’equivoco è contrapporre all’elemento individuale affiorante, l’universale misticamente evocato. Il Soggetto escluso dal dominio della quantità e dalla sua logica, viene sostituito, ad opera dei moderni Gnostici, da uno Spirituale trascendente, in effetto irreale.

Il Materialismo nasce dalla separazione delle strutture logiche dal reale operatore che è il Soggetto umano. La logica formale, o riflessa, diviene logica della Materia, quando l’indagatore non scorge la connessione del pensiero logico con l’Io: l’oggettività esteriore acquisisce un potere di là dalla coscienza dell’Io, dalla quale in realtà esso muove. II rovesciamento del rapporto Spirito-Materia, tuttavia, viene oggi inconsapevolmente perpetrato anche dagli Esoteristi che non scorgono lo Spirituale dove sta sorgendo: nel moto iniziale dell’autocoscienza, là dove l’intuizione logica discende dal Logos. In realtà, la logica formale viene sottratta al Logos non soltanto dai cultori della quantità, ma soprattutto dai suoi presunti superatori, che non riescono a scorgere la scaturigine della determinazione logica là dové il Logos si fa strada nella coscienza mediante il puro elemento individuale.

Essi tendono a sovrapporre al processo della quantità l’Universale metafisica che non riescono a scorgere nel processo dell’autocoscienza: intimo all’Io, non certo riflesso dell’Io. Per essi, l’Io è l’Io contingente, o riflesso, da eliminare· come sorgente dell’individualismo, in nome di un Io elevato, al di sopra dell’umano: l’universale con cui tendono a integrare la matematica del mondo fisico, la Scienza e la Tecnologia, secondo l’eco di una connessione trascorsa dell’umano con i suoi principi.

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Quando l’esoterista tradizionale parla di un Assoluto che è uno e tutto, infinito ed eterno, immanifesto eppur sorreggente i gradi della manifestazione, non si può non essere concordi con lui, ma al tempo stesso non si può non constatare che egli questo Assoluto si limita a rappresentarselo, ossia a proiettarlo fuori di sé: egli ricorre a pensieri, ai quali però non riconosce la categoria dell’infinito e dell’universale: non lo può, perché quei pensieri sono privi di vita: esigono la loro specifica ascesi, un’ascesi di questo tempo, che la Tradizione non contempla.

Il tradizionalista non attua la verità o la forza originaria di quei pensieri, non conoscendo la via predialettica: si riferisce bensì a un contenuto di là da essi, ma in quanto lo pensa e simultaneamente lo nega come pensiero. Onde prospetta il presupposto Universale, riducendo l’unico universale di cui dispone ad un concetto indeterminato, ma affermato con l’esclusiva autorità della determinazione non consapevole di sé: affermato perciò dogmaticamente. In definitiva, la dinamica di una simile affermazione del pensiero è il sentimento: la posizione del Misticismo ingenuo.

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UN MAESTRO: EIHEI DOGEN ZENJI (di F. De Pascale)

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Al fine di insistere – con inumana compassione, direbbero i terribilissimi Maestri della Scuola della Meditazione, o dello Zen – sull’assoluta necessità della pratica interiore, è forse buona cosa riportare l’episodio decisivo della vita interiore di un Maestro così eccezionale come Eihei Dogen Zenji.

Al Tempio di Tien-tong-szu, diretto da Jou-tsing, i monaci meditavano letteralmente giorno e notte. Ed il Maestro rampognava aspramente coloro che battevano un po’ – solo un po’ – la fiacca, o in preda alla stanchezza talvolta si addormentavano.

Una volta, i monaci che erano a lui più vicini gli fecero osservare: “Quando i monaci sono riuniti nella Sala di Meditazione e si addormentano perché sono affaticati o perché cominciano ad ammalarsi, la loro mente non è minacciata da una regressione nella Via del Risveglio? Ciò non è dovuto alla lunghezza della meditazione seduta, lo Zazen, e non sarebbe bene accorciarne la durata?”.

Il Maestro li rimproverò molto aspramente e disse: “No, non si tratta affatto di questo. Se dei praticanti che non hanno lo spirito della Via vengono a fare presenza nella Sala di Meditazione, essi si addormenterebbero persino se la seduta di pratica venisse accorciata della metà e persino di più. Coloro che, invece, hanno lo spirito della Via e sono animati dalla volontà di praticare, si rallegreranno tanto più quanto più la meditazione sarà lunga. Quando ero ancora giovane, fui Superiore successivamente in diversi monasteri situati in varie regioni e colpivo così fortemente i monaci che si addormentavano, che quasi mi rompevo il pugno. Ora che è giunta la vecchiaia, le mie forze si sono indebolite e non picchio più così forte. Allora i buoni monaci non vengono più da me. E se il Buddhismo declina, è perché i Maestri si mostrano troppo teneri quando dirigono gli esercizi della meditazione Zazen. Dunque, bisogna picchiare più forte”.

Ora – era un mattino dell’estate del 1225 – al momento dell’aurora Dogen meditava nella Sala di Meditazione con gli altri monaci. Jou-tsing andava in su e in giù per sorvegliarli, quando si accorse di un monaco che si era addormentato seduto. Si levò una scarpa e cominciò a colpirlo rimproverandolo così: “La ricerca dello Zen deve essere l’abbandono del corpo e della mente. Dove pensi di arrivare dormendo così tutto il tempo?”.

Dogen, che si trovava seduto accanto al povero confratello sonnolento, era immerso nella meditazione più profonda. Al sentire le parole di Jou-tsing che ingiungevano di “abbandonare il corpo e la mente”, Dogen fu come percosso da un fulmine e sperimentò quell’Illuminazione folgorante, che è la ragion d’essere della Via che il Buddha Shakyamuni ha prima conquistato e realizzato, e poi donato al mondo. Si dona solo ciò che si è realmente conquistato e realizzato, non le chiacchiere verbose, che gli umani spendono con troppa facilità!

Un vecchio Maestro fiorentino, da molto tempo defunto, iniziato nelle Vie dell’Antica Sapienza e amico di Massimo Scaligero, osserverebbe argutamente che “Maestri come Jou-tsing e Dogen sono di difficile contentatura”, ed avrebbe ragione. Ma non per questo, egli avrebbe praticato e consigliato una Via meno austera.

Massimo Scaligero avrebbe fatto osservare, con sottile sagacia, che il “sonno” al quale oggi voluttuosamente si dànno i sedicenti seguaci della Scienza dello Spirito è quello della comodità borghese, del perbenismo convenzionale, quello che si inchina temente e reverente di fronte alla “immane potenza del convenzionale”, alla pubblica opinione accertata, alle varie “ortodossie” (o contortodossie) antroposofazziche o confessionali o politiche o culturali.

Un tale voluttuoso “sonno” dell’anima – avida di tamasica inerzia, direbbe Massimo Scaligero – spegne la “memoria” spirituale, soffoca il “fuoco” che arde nella volontà, ottunde il cuore, raffredda l’entusiasmo e rende opaca l’anima, uccide lo slancio interiore. Questa è la peggiore sciagura che ad un praticante interiore possa capitare, e spiega poi come si cerchino dei surrogati nella politica, nella cultura, nelle manifestazioni pubbliche, negli intrallazzi paraesoterici.

Spiega pure come, inoltre, quasi a giustificare e celare il fallimento della propria impresa interiore, ci si volga talvolta – spinti da una sorta di “invidia metafisica” (“ciò che io non oso realizzare, gli altri non devono realizzare”) – a calunniare il Maestro, e diffamare coloro che, magari in maniera animosa e imperfetta, con generosità si dànno ad una intensa pratica interiore, ed invitano gli altri a fare altrettanto.

Aveva ragione un Maestro terribile come Jou-tsing: bisogna picchiare più forte!
Per fedeltà e compassione.

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FUNZIONE CREATIVA DEL DOLORE (di M. Scaligero)

Ophelia– John Everett Millais (1851-1852)

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Si può dire che, ancora una volta, all’uomo, in questo periodo decisivo per l’avvento di un suo nuovo ciclo sociale, si prospetta il problema del dolore in tutta la sua potenza, che dal piano fisico postula il metafisico. Perché il carattere dominante dell’attuale vicenda umana è dato dalla lotta e dalla sofferenza? Qual è il significato di queste prove di sacrificio e di dolore che quasi tutta l’umanità sperimenta?

Noi siamo certi che se essa fosse veramente capace di comprendere il significato ultimo di questa grande sofferenza, già avrebbe la chiave della soluzione del suo problema.

Esistono nell’uomo energie profonde che, per il loro carattere primordiale, possono considerarsi dormenti nel suo sangue e nella sua natura meno cosciente; esse sono le energie della volontà e dell’azione, quelle che misteriosamente agiscono, sollecitate da comandi o da impulsi, creando qualcosa di nuovo e di definito anche nel mondo della realtà sensibile. Ma tali energie rimangono inconscia potenzialità, se uno stimolo potente non le risvegli e non le riconduca alla coscienza centrale che l’individuo ha del proprio essere. E noi, seguendo la storia della umanità, possiamo effettivamente riconoscere le sue grandi creazioni sociali come conseguenza di una azione decisiva di queste energie primordiali deste nell’anima e nel corpo di essa: azione che costringe ogni individuo ad esprimere le sue migliori capacità.

Il problema consiste essenzialmente nel prendere contatto con tali energie e indirizzarle verso una consapevole creazione. Ora, quando il risveglio non sia possibile attraverso una educazione superiore della psiche, ossia attraverso una severa ed illuminante ascesi, la congiunzione della coscienza con queste energie può avvenire per via di un superamento violento della barriera che separa i due piani. Ma tale superamento crea nell’uomo una situazione particolare: la resistenza dell’abitudine organica, che tende meccanicamente a ripetere sempre gli stessi movimenti, l’urto di due tipi di coscienza e la scossa che ne riceve l’intero essere, generano infatti quella sensazione intollerabile, che è la sofferenza, sia che derivi dal mondo fisico sia che derivi da una causa morale.

Il dolore è una sensazione apparentemente negativa, in quanto l’organismo umano tende irresistibilmente a liberarsene per riacquistare lo stato in cui non esiste o non si avverte. Ma proprio in questa tendenza a liberarsi dal dolore, si può riconoscere l’azione velata della nostra facoltà cosciente verso una ristabilizzazione dell’equilibrio che le è peculiare, ma che, dopo il superamento del dolore, si attua talora in un piano piú profondo della personalità.

In ordine al concetto nietzschiano “Ciò che non ci spezza ci rende piú forti”, si può dire che l’umanità ha attinto taluni modelli di perfezione, grazie alla sua esperienza del dolore. Il tipo biologico si può elevare e affinare attraverso la reazione continua opposta da un’intima energia psichica all’azione delle forze esteriori: cosí, attraverso le sofferenze causate dagli stimoli del mondo esterno, l’uomo ha imparato a “conoscere” le diverse parti del proprio corpo, a sentirle come sue e a trasmettere ad esse il senso della propria coscienza.

L’uomo, dunque, raggiunge la gioia di essere cosciente nello spazio e nel tempo, attraverso quella vittoria sulla necessità esterna che gli viene propiziata dall’avvertimento e dallo stimolo della sofferenza. Se si tien conto come, in riferimento alla costituzione puramente morfofisiologica, siano state riconosciute dalla scienza medica talune parti insensibili del corpo chiamate “zone di ottusità del dolore”, e che questa sorta di insensibilità rende difficilissima la percezione di eventuali processi patologici formantisi in tali zone, è riconoscibile sotto un aspetto, per cosí dire, pratico, la funzione rivelatrice del dolore in riferimento alla coscienza dell’individuo.

Se l’ideale umano consiste nel conseguimento di uno stato sempre piú alto e piú profondo della coscienza, occorre riconoscere che il dolore è una via di affermazione della nostra natura gerarchicamente superiore, ossia di uno stato superiore della nostra psiche, in cui l’ideale di elevazione e di integrazione del piano inferiore rimane immutevolmente desta. Tale affermazione si esprime attraverso una trasformazione, o una creazione, la cui dinamicità è data dalla cooperazione delle energie fattive della natura umana piú profonda; cosí la piú alta virtú dello spirito si può ricongiungere con la piú concreta forza creativa dell’essere, a mezzo del superamento del diaframma che normalmente le separa.

Il dolore non è che una deformazione di ananda (beatitudine cosciente, gioia trascendente); questa forza, che è una manifestazione “dinamica” del Divino, fluendo nell’uomo e incontrando una resistenza nella sua immaturità, deve necessariamente presentarsi sotto forma di dolore, e insiste in questa forma fino al momento in cui potrà presentarsi nella sua vera essenza di gioia creativa: il che sarà possibile attraverso l’affinamento della natura umana per virtú del dolore.

Ecco perché, se l’insegnamento del dolore dura anche quando questo è cessato, esso può costituire per l’uomo l’avviamento verso un ethos superiore. Se l’insegnamento si oblia, il dolore ritorna e ritornerà finché l’uomo non avrà compreso il segreto della vittoria. Allora si comprenderà che il dolore era una “irrealtà” necessaria: esso esisteva in quanto l’Io non era capace di “essere” compiutamente nel suo proprio dominio: la realtà del dolore aveva un valore semplicemente strumentale e perciò temporale. Cosí il dolore soltanto può condurre al superamento del dolore.

Tale concezione occorre sia compresa per evitare la confusione dovuta all’idea dell’originaria “oscurità” della vita e della fatalità del dolore. Questo, invero, è una forma di resistenza della natura inferiore dell’uomo all’azione della natura piú alta: ma la resistenza ha il senso simultaneo di ostacolo e di stimolo per il superamento dell’ostacolo: cosí il dolore non è cieca e irremovibile fatalità, ma via di conoscenza superiore, di realizzazione della vera e intima finalità dell’essere umano. Sotto questo riguardo, esso insegna a discriminare lo stato di presenza spirituale dallo stato di assenza e di sprofondamento nella propria natura animale, in quanto, come si è accennato, la sofferenza deriva proprio dall’incontro e dal contrasto di forze di coscienza con forze dell’incoscienza: dove l’inconscio resiste, il dolore, come un preciso termometro, registra l’intensità della sofferenza.

Qui si delinea il senso della vita eroica, sia nel dolore animico che in quello fisico: nel sopportare con fermezza la crisi del dolore, l’Io umano si schiera, per cosí dire, con le forze della coscienza; inoltre, nella esasperazione della lotta, la volontà dell’Io si potenzia cosí da chiedere l’intervento delle forze ancora piú forti e sopracoscienti.

È l’“eterno” che urge nell’umano per fluire in quella vita individuale e collettiva che aveva creduto di poter esistere entro i suoi limiti, nella sfera della sua contingenza, nella sua arida materialità. Là dove questa vita depotenziata resiste, la forza spirituale, appoggiandosi alla coscienza dell’uomo, fa violenza alla vita, la costringe a una rettificazione, a un’obbedienza purificatrice. Il principio è dunque l’Eterno, il dolore è il mezzo, la conquista di un nuovo bene è il risultato. Ecco perché esigenza mistica, spirito eroico e senso del sacrificio confluiscono in un’unica vicenda, ove l’uomo abbia saputo intendere l’appello della sua autentica interiorità, che è l’appello stesso del Divino.

Due vie sono state offerte all’uomo per la vittoria sulla morte: il dolore e la morte eroica. In ambedue il principio del sacrificio implica il risveglio di una coscienza di vita superiore alla vita stessa: dove nasce la sofferenza, lí l’uomo è costretto a essere sveglio e ad acquistare coscienza della sua regalità.

Se la vita normale e pacifica è, nella sua monotonia, qualcosa che narcotizza la personalità e attutisce il senso dell’Io, riconducendolo ad una coscienza talora inferiore alla coscienza di veglia, ossia ad uno stato di torpore stagnante ed imbelle, la vita di dolore desta la psiche dell’uomo, la costringe ad essere piú-che-sveglia e la dischiude ad uno stato di purezza trascendente.

In questo stato di eroica euforia dell’essere, il dolore non ha piú senso: esso, svanendo, ha lasciato in noi soltanto ciò di cui era una forma difforme: l’essenza di una libera e cosciente gioia. Di là dalla irrealtà del dolore, questa attende di essere conosciuta, perché essa soltanto può esprimere la natura segretamente divina dell’uomo, attraverso l’azione di un senso “solare” e creativo della vita.

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Selezione da «Augustea» n. 1, XVIII, 1943

Per gentile concessione de L’Archetipo

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L’ARCHETIPO-GIUGNO 2025

Anno XXX n. 6

Giugno 2025

In questo numero:

CREDO. L’INDIVIDUO E L’UNIVERSO (di R. Steiner)

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Il mondo delle idee è la fonte originaria e il principio di tutto l’essere. In esso ci sono un’armonia infinita e una beata quiete.

L’essere non illuminato dalla luce di questo mondo sarebbe morto, inesistente, non prenderebbe parte alla vita dell’universo. Solo ciò che deriva la propria esistenza dall’idea ha significato nell’albero della creazione dell’universo.

L’idea è lo spirito chiaro in sé, equilibrato e che basta a se stesso. Il singolo deve avere dentro di sé lo spirito, altrimenti cade, come una foglia secca dal proprio albero, e la sua esistenza è stata inutile.

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Ma l’uomo si sente e si riconosce come singolo quando si desta alla sua piena coscienza.

  ..Ma così facendo ha istillato la nostalgia dell’idea. Questa nostalgia lo spinge a superare la particolarità e a far rivivere dentro di sé lo spirito, ad uniformarsi allo spirito.

  ..L’uomo deve sbarazzarsi, liberarsi di tutto ciò che è egoistico, di tutto ciò che fa di lui questo particolare essere singolo, poiché è questo ad oscurare la luce dello spirito. Questo individuo egoista vuole solo ciò che deriva dalla sensualità, dall’istinto, dalla concupiscenza, dalla passione.

  ..Per questo l’uomo deve far morire in sé questa volontà egoistica e invece di volere ciò che vuole in quanto singolo individuo, deve volere ciò che lo spirito, l’idea, vuole dentro di lui.

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«Lascia andare l’individualità e segui la voce dell’idea dentro di te, poiché essa sola è il divino.»

  .Rispetto all’universo, ciò che il singolo vuole non è che un punto inutile, destinato a svanire nel flusso del tempo; ciò che si vuole “nello spirito” è al centro, poiché in noi si riaccende la luce centrale dell’universo; una simile azione non è soggetta al tempo.

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Quando si agisce da singoli ci si esclude dalla catena chiusa del creare universale, ci si separa da essa. Quando si agisce “nello spirito”, si vive nell’operare universale.

  ..Il fondamento della vita superiore è l’uccisione dell’egoismo, poiché chi uccide l’egoismo vive di un modo di essere eterno.

  .Siamo immortali nella misura in cui facciamo morire l’egoismo dentro di noi. L’egoità è la nostra parte mortale.

 –Questo è il vero significato del detto: «Chi non muore prima di morire va in rovina quando muore.» Vuol dire che chi non mette a tacere dentro di sé l’egoismo quando è in vita, non potrà aver parte alla vita universale, che è immortale, non è mai esistito, non ha mai avuto una vera esistenza.

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Ci sono quattro sfere di attività umana in cui l’uomo si dedica completamente allo spirito, uccidendo tutta la sua vita individuale: la conoscenza, l’arte, la religione e l’amorevole dedizione ad una persona in spirito.

.Chi non vive almeno in una di queste quattro sfere non vive affatto:

. – la conoscenza è la dedizione all’universo nei pensieri,

. – l ’arte nella contemplazione,

. – la religione nell’animo,

. – l ’amore con tutte le forze spirituali a qualcosa che ci appare come una pregevole ..essenza dell’universo.

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La conoscenza è la forma più spirituale della dedizione disinteressata, l’amore è la più bella.

L’amore infatti è una vera luce celeste nella vita quotidiana. L’amore devoto, veramente spirituale, nobilita il nostro essere fin nella sua più intima fibra, elevando tutto ciò che vive in noi. Questo puro amore riverente trasforma tutta la vita animica in un’altra affine allo spirito universale.

Amare in questo senso supremo, significa portare il soffio della vita divina laddove perlopiù si trovano solo l’egoismo più esecrabile e la passione più irriverente. Bisogna prima capire qualcosa della sacralità dell’amore per poter parlare di devozione.

Se l’uomo si è tolto dall’individualità passando attraverso una delle quattro sfere ed è entrato nell vita divina dell’idea, allora ha raggiunto quello a cui ha sempre anelato: l’unione con lo spirito; e questo è il suo vero destino.

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..Ma chi vive nello spirito vive da libero, poiché si è liberato di tutto ciò che è subordinato. Non c’è nulla che lo assoggetti se non ciò a cui si sottomette volentieri poiché l’ha riconosciuto come il bene supremo.

«Fa’ che la verità diventi vita; perdi te stesso per ritrovarti nello spirito universale.»

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Ich Glaube, 1888, Das Goetheanum n 52 del 24 dic. 1944, traduzione di M. Fiorillo,

Credo. Poesie cosmiche. Tempi e feste dell’anno, in Opera Omnia, vol. XL, Editrice Antroposofica

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LA COSCIENZA RESTITUITA (di M. Scaligero)

(The Vision of the Holy Grail, 1891 1934-John Henry Dearle)

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Per uscire dall’attuale prigionia contratta e trovare l’infinito in un punto senza dimensione, a partire dall’essere che siamo, occorre estinguere in sé l’individuo antico: estinguere l’essere, lasciar svanire le velleità, morire, non essere, finire, scendere nel nulla, conoscere l’annientamento, l’atarassia, la neutralità nuda, lo sprofondare sino all’assenza pura, sino all’assenza assoluta del soggetto dell’annientamento: non essere, cessare di essere, togliere tutto, non volere.
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Questo compito non è facile, ma è l’alto cammino per un risostanziarsi della Luce prima nell’essere che si è nel profondo, un ricominciare il proprio essere dall’origine, un annientarsi per essere: nel ritrovarsi, dopo l’annientamento, si ritrova la vera vita, la reale essenza, il pensiero puro, il gioiello splendente della liberazione, un ricamo trascendente di luce, di vita della luce: essenza che è nel mistero della obiettività senza limite e tuttavia è l’essenza della forza profonda. Il segreto è appunto questo: che l’essenza indipendente da noi sia veduta da noi: ché questo vederla è la via al riconoscere come nasca in verità in noi. Ciò che è veduto come pura obiettività è la nascita dell’Io, che può sperimentare l’identità con il mondo (obiettivo) in quanto comincia col separarlo da sé. E questo è il segreto dell’Io, ossia dell’anima, della Iside-Sophia.
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Occorre tornare alla purità, per essere puri: ritrovare il pensiero della inalienabile luce, il fluire immateriale, la vena di lampo che si scinde da ogni scoria terrestre, la luce gemmante, il ricamo sorgivo intoccabile, il puro fiore di luce, il primo essere del pensiero, il piú interno sorgere della luce: il lampo che si scioglie dall’oscurità, perché i pensieri preparino l’imminente vita, perché il pensiero sia misura dell’eterno nell’anima e strumento della purificazione.
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Quest’opera è lunga, profonda, eroica. L’Io, per ritrovarsi, deve ritrovare il Cristo, ma per ritrovare il Cristo deve ritrovare la Iside-Sophia.
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Questa è la verità piú oggettiva: non soggiacere a una necessità esteriore allo Spirito, non essere presi da una brama ideale, essere mossi da una “privazione” o da un bisogno piú forte di sé: lasciar manifestarsi la forza che si è riconosciuta identica alla propria vocazione di reintegrazione dello Spirito, lasciar sorgere in sé la virtú d’Amore che riconduce nella sfera originaria della Luce: questa virtú è la Via al Graal.
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Dono ineffabile del Graal è il potere di redenzione che dalla originaria luce giunge sino alla radice dei sensi. È la coscienza restituita come luce di pensiero all’Io.

 

Massimo Scaligero

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da una lettera dell’agosto 1970 a un discepolo

grazie a L’Archetipo

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COSCIENZA E AUTOCOSCIENZA (di F. De Pascale)

Il sonno di Gesù -Fontana Lavinia-(Bologna 1552 – Roma 1614)

Anzitutto è necessario intendersi bene sui termini. O meglio su come certi termini si usano nella Scienza dello Spirito. Secondo la “teoria della conoscenza”, che sta alla base della Scienza dello Spirito, viene fatta una notevole differenza tra coscienza e autocoscienza, e, francamente, non è sempre agevole spiegare in poche parole semplici in cosa consista una tale differenza.

L’uomo comune, nell’ordinaria vita di veglia ha coscienza, ma raramente possiede anche autentica autocoscienza. E questo per l’immediatezza con la quale egli si identifica con la serie di esperienze sensorie, emotive, e istintive, dalle quali difficilmente distingue la propria attività pensante. Questa attività pensante è spesso un mero riflesso sia della sua esperienza sensoria, sia delle emergenze emotive e istintive, le quali emergono da zone ripettivamente sognanti e dormienti della sua poco consapevole anima.

Egli comincia ad avere “autocoscienza”, allorché con una energica azione volitiva nel pensare, si distacca sia dalla passiva esperienza sensoria, che da quella, altrettanto passiva, esperienza emotivo-istintiva. Diviene autocosciente nella misura in cui egli giunge a sperimentare sempre più nel pensare il momento dinamico del pensare e del percepire medesimo. Ma come ho avuto modo di dire in altro articolo, la cosa non è un immediato “dato” di natura – immediatamente “dato”, per la spontaneità con la quale la natura invera in lui l’ordinario percepire e pensare, gli ordinari sentire e volere. L’autocoscienza che si realizzi nel pensare e nel percepire, è il risultato di un volitisvo sforzo, di quell’addestramento interiore che gli antichi Greci avrebbero chiamato “àskesis”, e i Romani “exercitium”. Dunque, l’autocoscienza è il frutto – in un forma o nell’altra, di una certa Ascesi. Va da sé, come essa sia cosa ardua e tutt’altro che facile da conquistare.

Nel sogno – rigorosamente parlando – l’essere umano ha senz’altro “coscienza”, ma non ha “autocoscienza”, almeno non nel significato che la Scienza dello Spirito dà, secondo la propria teoria della conoscenza, a questo termine. Rudolf Steiner fa degli esempi calzanti nella sua Scienza Occulta di come nel sogno l’essere umano abbia coscienza ma non autocoscienza. Addirittura, si può avere nell’esperienza del sogno uno sdoppiamento della personalità, come per esempio quando nel sogno un insegnante pone una domanda alla quale l’allievo interroganto non sa rispondere, e alla quale risponde poi, invece, l’insegnante stesso. E’ ovvio che allievo e insegnante sono due diversi “alter ego” del sognante medesimo, il quale ha bensì coscienza delle immagini del sogno, ma non ha coscienza alcuna di come, da fonte ignota, tali immagini scaturiscano. Naturalmente per l’Iniziato, come per l’occultista avanzato, la cosa si pone diversamente. Ma stiamo parlando dell’uomo ordinario.

Nel sonno profondo non vi è, ovviamente, nessuna forma di autocoscienza, tuttavia vi è una forma ottusissima, estremamente attenuata di coscienza, tant’è che l’essere animico continua a svolgere funzioni vegetative e animali nelle profondità dell’organismo corporeo. Anche in questo caso, diversa è l’esperienza dell’Iniziato, e quella dell’occultista avanzato. Confermo la concretezza del senso di “beatitudine”, di “felicità”, che il sonno procura. Ne parla moltissimo un grande asceta dell’India – l’unico che abbia indicato l’esperienza dell’Io – Shri Ramana Maharshi, e lo fa in tutte le sue opere, e in moltissimi colloqui che di lui sono trascritti: è l’esperienza dell’ànanda, della beatitudine, cosciente nell’Iniziato e nell’Illuminato, incosciente nell’uomo comune, il quale però ne riceve come una sorta di risonanza nella vita di veglia, allorché questi si dèsta dal sonno.

Quanto all’esperienza scientifica autentica, essa – se condotta sino alle sue ultime istanze – conduce molto lontano dalle conclusioni del materialismo. Personalmente, vengo da una formazione scientifica. Mi si creda, quanto più si approfondisce rigorosamente la scienza, tanto più il materialismo appare quell’ingenuo, sciocco, dilettantismo che è.

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