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“Tutti gli esseri, non solo i ragionevoli, ma anche gli animali irragionevoli e la natura che è nelle piante e la terra che li produce aspirano alla contemplazione e tendono a questo fine: tutti lo raggiungono entro le possibilità offerte dalla loro natura.
Ogni azione tende alla contemplazione, tanto l’azione necessaria che fortemente attira la contemplazione verso le cose esterne, quanto quella detta ‘volontaria’ che l’attira meno ma che si compie egualmente per desiderio di contemplazione…
La natura, che alcuni dicono priva di rappresentazioni e di ragione, ha in sé contemplazione e produce quelle cose che produce mediante la contemplazione che, a quanto dicono, essa non ha.
Poiché la natura opera rimanendo immobile e, rimanendo immobile, è una ragione, essa è anche contemplazione.
Difatti le azioni pratiche, pur essendo conformi alla ragione, sono evidentemente diverse da essa: ché la ragione, in quanto è presente all’azione e vi presiede, non è l’azione.
Se dunque non è azione ma ragione, essa è contemplazione; e per ogni ragione v’è una ragione ultima che deriva dalla contemplazione ed è contemplazione nel senso di oggetto contemplato.
La ragione superiore varia col variar degli esseri ed è come l’anima, non come la natura, ma quella che è nella natura è la natura stessa.
Anche questa deriva da una contemplazione? Certamente, da una contemplazione; poiché anch’essa è simile a un essere che si contempla: è infatti il risultato di una contemplazione ed è in quanto un essere contempla.
Ma come essa contempla?
Essa non possiede la contemplazione che deriva da un pensiero discorsivo, da quel pensiero cioè che esamina ciò che contiene in sé.
E se essa è vita, perché non è anche ragione e potenza operante?
Forse perché ricercare vuol dire non possedere ancora?
Ora, poiché la natura possiede, essa, in quanto possiede, anche agisce.
Per lei, essere ciò che è, è lo stesso che agire; essa è contemplazione, e oggetto di contemplazione, poiché è ragione.
Ed in quanto è contemplazione, oggetto di contemplazione e ragione, e soltanto per questo, essa produce.
Così dimostriamo che la produzione è contemplazione; essa infatti è il risultato di una contemplazione che rimane pura contemplazione senza fare null’altro, ma produce perché è contemplazione.”
(Enneadi III, 8, 1-3)
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Quel che il mio Plotino dice sulla contemplazione! Sullo stato interiore di ‘panica’ contemplazione che pervade l’intera Natura, ossia dell’afflato che avvolge, permea, pervade quella Natura, che è il sacro peplo di Iside, l’Unica Dea! Invero, tutta la Natura, tutti gli esseri della Natura, sono in stato di stupefatta contemplazione del Divino, dell’Uno, del Fondamento e, malgrado le tempeste e i furori che possono agitare l’apparire, essi riposano in tale stupefatta e mirabile contemplazione.
Massimo Scaligero, parlando una volta a noi giovani, ci disse che Giovanni Colazza, suo Maestro, chiamava questo stato di contemplante abbandono al Divino, immobile pur nel furore di apparenti scatenamenti di lotte cosmiche, il “riposo divino”!
Come in un immenso ossimoro cosmico, in tale mirabile stato si manifestano al contempo l’immobile riposare nell’identità con il Divino nella contemplazione e il più audace, dinamico e impetuoso donarsi all’azione più trasportante: la contemplazione come immobile principio dell’azione, e l’azione che della contemplazione segretamente si alimenta, manifestandola nell’impeto dell’agire più travolgente e temerario!
Ma come realizzare una tale contemplazione? I vecchi esoteristi ed occultisti d’anteguerra affermavano che ogni insegnamento è un errore finché non si traduce in una pratica corrispondente, ogni conoscenza è illusoria, ossia è mero sapere, se non si incarna in un agire, se – come insegnava Cagliostro – colui che conosce non diviene la cosa conosciuta.
E questo ‘divenire’ è un atto che sempre ‘è’, e non un fatto, una cosa che già c’è, ossia che passivamente, inattivamente, meramente esiste. Questo spiega il fallimento, il tradimento, l’insufficienza, la latitanza, l’inadeguatezza delle Comunità spirituali.
In un momento tragico – di concreto e di estremo pericolo per l’umanità – esse (o i componenti delle medesime se si vuole) si dànno allo spasso, al diporto, al divertissement come lo chiamava Blaise Pascal, ossia – nel senso più etimologico del termine – al di-vertimento, alla dis-trazione. Ma come ammonisce Massimo Scaligero, “il bene è l’idea che si realizza, e il male è l’idea che non si realizza“: in questo sta tutta la nostra responsabilità!
Ammoniva in Ur un amico di Massimo, Abraxa, che “o la vita è un rito o non è nulla“, ossia l’intera vita deve trasformarsi in un esercizio spirituale, in un Rito, e la pratica interiore – e più di tutto la concentrazione – deve essere il centro dell’esistere, la spinta all’esistere, il fine dell’esistere. Perché non è possibile – come fanno taluni, troppi, quando poi lo fanno – vivere 23 ore e 50 minuti della propria giornata nella totale dispersione esteriore e poi pretendere di attuare in 10 minuti uno stato di concentrazione interiore.
Se la pratica interiore, se la concentrazione in primis sono qualcosa di ‘periferico’, di ‘contingente’, di ‘occasionale’ nella propria vita e nella propria giornata, non potranno essere qualcosa di ‘centrale’, di ‘assoluto’, di ‘incondizionato’, la cui forza abbia la capacità di trasformare veramente l’anima, il cui impeto sia così potente da travolgere la mediocrità e la labilità umana.
Come ho avuto già modo di dire ci si alza alle 03.00 la notte per partire a fare una gita o un viaggio qualsiasi, ma non si è capaci di alzarsi mezzora o un quarto d’ora prima per fare una concentrazione in più! Mi diceva Massimo che le Intelligenze Celesti e i Maestri darebbero tutto all’uomo, ma che vengono disgustate e delusi dalla fiacchezza dell’uomo, del sedicente “spiritualista”, dalla banalità del suo stato interiore, dalla tiepidezza del suo cuore, dalla sua approssimazione, dalla sua sfilacciata volontà!
Per molti la Via spirituale è un piacevole passatempo, che porta un po’ di brio e di diversità nella noiosa routine della vita borghese: questi avrebbero bisogno o di passare qualche anno della loro vita a lavorare in una fonderia come quella di Porto Marghera, oppure di molta disperazione. Allora comincerebbero a ‘sfrondarsi’ del troppo inessenziale che ammala il loro spento esistere, e comincerebbero nella fatica e nel dolore a veramente ‘vivere’.
Altri decidono di vivere vivi e non morti, e per questo scelgono – liberamente scelgono – la Via diretta, la più difficile e la più semplice, la più dura e la più faticosa, la più temeraria e la più saggia: l’incessante pratica interiore! La pratica della concentrazione portata al suo estremo: l’estremismo interiore come continua mobilitazione della volontà contro il sonno della coscienza, l’ardore da rinnovare ogni volta nella concentrazione, e poi ancora nella concentrazione, e infine nella concentrazione senza fine.
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