LA RICERCA DEL SANTO GRAAL. DECIMA PARTE.

Mi scuso doverosamente col benevolo lettore per la mia lunga latitanza da questo temerario blog, latitanza determinata da serie di ragioni indipendenti dalla mia volontà. Tuttavia, come potrà vedere il lettore, questo periodo non è stato infecondo, anzi il lavoro svolto potrà dare interessanti futuri risultati, che non mi sembrano trascurabili. Riprendo quindi la trattazione del tema, che mi sta a cuore.  

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Da tutto quanto abbiamo visto sinora, possiamo constatare come, alla luce della Scienza dello Spirito, vi sia una radicale contrapposizione tra la visione spirituale del mondo propria della ‘stirpe jahvetico-abelita’ e quella propria, invece, della ‘stirpe dei Figli del Fuoco’, ossia della ‘stirpe cainita’. Questa contrapposizione, che – dal punto di vista della Scienza dello Spirito – potremmo goethianamente definire ‘polare’, naturalmente, nell’evoluzione dell’uomo e del cosmo ha avuta la sua ragion d’essere. Il che, tuttavia, non la rende, ancor oggi, meno aspra, pur nella sua giustificata necessità.

Al fin di rendere meno impervia la comprensione di una tale ‘polare contrapposizione’, e, di conseguenza, aiutare l’intuizione del libero ricercatore che, sola, può far penetrare, in totale autonomia, il ‘mistero’ dal quale tale aspra contrapposizione scaturisce, giova forse richiamare – una volta di più – le immagini del ‘mito’ del ‘Concilio degli Dèi’. Ora, secondo tale ‘mito’ – ‘mito’ vero, pur nella poeticità delle sue immagini – l’Assoluto Divino pose, all’origine dei tempi – dei ‘nostri tempi’, naturalmente, ché nell’Assoluto tempo non v’è – alle Celesti Gerarchie un còmpito da esse difficilmente attuabile e realizzabile: portare ad esistenza nell’Universo la libertà. Còmpito invero arduo per esse, giacché esse stesse libere non erano affatto, essendovi in esse solo ‘necessità’, sia pure ‘metafisica’, e non libertà.

Più volte Massimo Scaligero, rievocando in incontri e riunioni tale primordiale ‘Concilio degli Dèi’, mise in evidenza come le Gerarchie divino-spirituali, e le Entità ad esse appartenenti, fossero, a vari gradi, ‘manifestazione’, immediata e necessitante, dell’Assoluto Divino, del quale esse erano e sono emanazione ed espressione. In quanto tali, esse, di per sé, non hanno autonomia rispetto all’Assoluto del quale sono, appunto, la manifestazione: sono legate all’essere, come ad una ‘funzione’ alla quale non possono – per ora – sottrarsi. Ad esempio gli Spiriti della Sapienza o della Saggezza non si può dire che abbiano ‘Sapienza’, bensì che essi sono ‘Sapienza’, e non possono, per ora, sottrarsi a tale loro immediato essere, per essere diversamente da come attualmente sono. E così gli Spiriti del Coraggio, dell’Armonia, e persino gli Spiriti dell’Amore. Le Entità divino-spirituali, in special modo quelle più elevate, hanno sì ‘coscienza sovrasensibile’‘onnipotenza’, assoluta ‘bontà’ e ‘moralità’, ma non conoscono, e non hanno ‘Autocoscienza’‘Libertà’, e ‘Amore’.

Così come tali elevate Gerarchie divino-spirituali, anche le Entità Avverse – gli Ostacolatori – non sono affatto libere. Le Entità Ostacolatrici svolgono, esse pure, un ‘còmpito’, una ‘funzione’ alla quale – per così dire – sono ‘assegnate’‘costrette’, senza potersi a tale cogente condizione minimamente sottrarre. Gli Spiriti dell’Ostacolo svolgono la loro assegnata ‘funzione’ in maniera inesorabile, con l’impersonale ‘necessità’ delle forze della Natura.

L’unica possibilità, in quell’esiodeo ‘Concilio degli Dèi’, che le celesti Gerarchie ebbero di attuare il còmpito loro assegnato dall’Assoluto, e di portare quindi ad esistenza la libertà, era di ‘creare’, ossia da se medesime ‘generare’‘emanare’, non ‘creare dal nulla’, un primordiale ‘Uomo Cosmico’, al quale tutte le suddette Gerarchie donassero, come effettivamente avvenne, parte della loro ‘essenza’, e che, quindi, di esse tutte egli fosse  una mirabile ‘sintesi’. L’Uomo Primordiale – l’Adàm Kadmòn della Kabbalàh israelitica e cristiana – possedeva in sé ‘sapienza’‘potenza’, e ‘moralità’ esattamente come le Celesti Gerarchie – gli ‘Eoni’ di quell’antica Gnosi, tanto calunniata, soprattutto quella abbagliante culminazione ch’essa ebbe in Mani, Gnosi caricaturalmente sfigurata e violentemente avversata dai Padri delle poco ‘cristiche’, ortodosse, Chiese cristiane – delle quali l’Uomo Primordiale era ‘emanazione’, ma come esse, appunto, egli non era, né poteva essere – perlomeno, non sùbito, non immediatamente, o non ancora – autocosciente e libero. Una conoscenza sovrasensibile, un atto morale, sorgevano in lui con la necessità immediata propria dei processi della Natura: così come nell’uomo oggi sorgono fame, sete, sonno, e tutta la serie immediata delle emozioni e degli istinti. L’Uomo primordiale era, in certo qual modo, un ‘automa spirituale’, e tale sarebbe eternamente rimasto – come un pupazzo, o una marionetta, appeso a fili a lui ignoti, e meccanicamente, seppur sottilmente, mosso da agenti a lui esterni – finché fosse rimasto nel seno di quelle Celesti Gerarchie che, emanandolo, lo avevano generato. Ma, come scrive Massimo Scaligero in Guarire con il pensiero, Edizioni Mediterranee, Roma, 1975, p. 61, parlando dell’ineludibile còmpito che l’uomo ha di realizzare la più radicale autonomia,  la più incondizionata libertà, così ammonisce:

«L’autonomia profonda di simili forze è ciò che il principio cosciente, mediante il pensiero, dovrebbe realizzare come propria autonomia sul piano della coscienza di veglia. La dipendenza in effetto è, per il pensiero, la contraddizione con le Forze originarie. Giustamente, un tempo veniva insegnato che «Delude gli Dèi, colui che vuole dipendere dagli Dèi».

Perché l’Uomo è la mèta delle Gerarchie – come avverte Rudolf Steiner nelle Massime Antroposofiche – e non viceversa.  In questo senso, la posizione dell’Uomo è ‘suprema’, e ‘suprema’ è la sua dignità.

Per cui, l’Uomo Primordiale, l’Adàm Kadmòn, dovette venire ‘isolato’‘escluso’, e per così dire ‘espulso’ da quella ‘comunione’ con le Gerarchie, e con l’Assoluto, che costituisce – come ricorda Massimo Scaligero ne La Via della Volontà Solare, Fenomenologia dell’Uomo Interiore, Edizioni Tilopa, Libreria Rocco, Roma, 1962, pp. 275-296 – quella ‘Quiete delle Gerarchie’ di cui parlava, nel Medioevo, la platonica Scuola di Chartres, e che Giovanni Colazza chiamava, con un’espressione di sapore estremo-orientale, taoista o chán, il ‘Riposo Divino’. Naturalmente, ‘fuori’ dell’Assoluto‘fuori’ dello Spirito, ossia ‘fuori’ dell’Uno, dell’Essere, a rigor di termini, niente è. Perché – come ammonisce Parmenide di Èlea nel suo Περί ΦύσεωςPerí Phýseos, nel suo De Rerum Natura – l’Essere 

ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, 

è, e non è possibile che non sia,

mentre 

il non-essere ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι,

non è, ed è necessario che non sia.

Quindi, a rigor di termini, solo apparentementeillusoriamente, l’Uomo Primordiale poteva essere ‘escluso’ dalla comunione con l’Infinito, con l’Assoluto. L’Uno, essendo ‘unico’, non può avere ‘fuori’ di sé né ‘altro’, né ‘altri’. Per cui la ‘unicità’ dell’Uno Unissimo – come veniva concepito nella Accademia Platonica d’Atene, perlomeno sino a che essa non venne soppressa nel 529 dall’infamissimo, intollerante, sacrilego e assassino, imperatore Giustiniano, violento persecutore dell’Ellenismo, del culto di Iside a Philae in Egitto, dei Manichei – non viene distrutta dal sorgere delle ‘apparenze’, le quali sono soltanto un illusorio ex-sistere, un mero ‘esistere’, non un autentico ‘essere’. Tale illusorio apparire incontestabilmente ‘esiste’, ma non ‘è’Est et non est, avrebbe detto, nel XIII secolo, in Occitania, il sapientissimo Maestro cataro Bartolomeo di Carcassona, o Giovanni di Lugio, anche lui cataro, autore del Liber de duobus principis, fortunosamente sfuggito alla furia distruttiva della Santa Inquisizione dell’eretica pravità, e ritrovato nel 1939 alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, per una sorta di ironia del destino, dal R.P. Antoine Dondaine, domenicano, e la stessa cosa, nell’VIII secolo della nostra èra, avrebbe affermato Śaṅkarâcârya, Maestro dell’Advaita Vedânta, il quale affermava che la Mahâ Mâyâ, la ‘grande illusione’‘è, e non è’.

Il còmpito di ‘espellere’ l’Uomo Primordiale dalla comunione immediata con l’Assoluto, il farlo ‘cadere’ nella dionisiaca frantumazione dell’apparente molteplicità, sino ad ‘isolarlo’ – gradualmente nel corso di molti millenni – completamente nell’unidimensionale visione sensibile, fu ‘affidato’ a ‘Spiriti dell’Ostacolo’, i quali vennero – essi pure – ‘esclusi’ dalla ‘Quiete delle Gerarchie’, dal ‘Riposo Divino’. Giunto al totale ed esclusivo isolamento nell’apparente sfera sensibile, l’essere umano non avrebbe più ricevuto ‘ispirazioni’‘oracoli’‘comandamenti’ dagli Dèi, ed avrebbe dovuto ‘scegliere’ da se stesso, in totale autonomia con le sole proprie forze, a proprio rischio e pericolo, attraverso il doloroso e faticoso, oltremodo accidentato, sentiero dell’errore e dell’esperienza, la propria ‘via’.

Ma, pur isolato in tale mondo di illusorie apparenze, e imprigionato, a causa della offuscante ‘ignoranza’ in lui generata dagli ‘Spiriti dell’Ostacolo’, sempre più negli astringenti vincoli corporei di una inferiore natura, un tale uomo è pur sempre fondato sull’Assoluto – e non potrebbe essere diversamente – e ad un tale Assoluto, al Divino, comunque base del suo essere, egli può sempre fare liberamente appello. Ed è questo ciò che gli Dèi si attendono da lui: ch’egli esca da una sorta minorità spirituale, da una ‘irresponsabile infanzia divina’, e finalmente ‘voglia’, liberamente – ossia non obbligato, non sollecitato, bensì in totale autonomia – ‘voglia’ il proprio stesso volere e il fine, l’oggetto, di tale suo autonomo volere. Vi è un momento in cui cessano le ‘rivelazioni’, che dal mondo divino hanno accompagnato l’uomo nel suo progressivo discendere verso il fondo dell’abisso, nel quale lo attendeva la suprema prova dell’abbandono, del silenzio, della solitudine, del gelo, e della morte. A tale proposito, Massimo Scaligero ha parole di assoluta, inattenuata, radicalità, parole che non lasciano spazio alcuno a dubbi, o ad accomodanti ‘adattamenti’. Infatti, in Graal. Saggio sul Mistero del Sacro Amore, Perseo, Roma, 1969, nel primo capitolo, La Via adamantina d’Occidente, pp. 10-11, così scrive:

«Nei testi tantrici sembra posseduta quella conoscenza che in Occidente sta alla base della moderna filosofia, circa l’esaurita funzione delle antiche metafisiche: non si dà più ausilio dagli Dèi, dalle rivelazioni, dalle ispirazioni: gli Dèi hanno lasciato l’uomo perché si sorregga da sé, realizzi in sé con la sua forza l’originaria natura. Chi vuol tornare indietro, segue la «via dei morti», in quanto non fa che disseppellire in sé antichi stati di coscienza, oltre i quali ormai l’uomo dovrebbe portarsi, per essere. Che egli percorra sino in fondo la via della liberazione, è in effetto ciò che gli Dèi attendono da lui: non il suo ritorno a uno stato di dipendenza che solo in antico era giustificato, quando ancora egli traeva le sue forze dal grembo della Madre. Lungo il tempo, accompagnata dalla correlativa rivelazione, l’individualità dell’uomo si fa sempre più indipendente dall’antica matrice cosmica, ma questa indipendenza essa paga con la perdita degli stati trascendenti. La sua esperienza si fa sempre più terrestre: è il kaliyuga, l’oscura notte che precede l’alba. La Madre lascia l’uomo nella solitudine dell’esperienza sensibile, perché egli affronti l’impresa della libertà: ma appunto per questo, qui nella materia, nel sensibile, nel corpo fisico, ormai il potere della Madre va ritrovato. La decisione di ritrovarlo non può essere un dono della Madre, bensì autonoma iniziativa dell’uomo: ciò che egli può volere, ma anche non volere. La via della libertà è anche la via del ritrovamento del Divino, secondo una comunione incomprensibile a chi sia immerso in quel tradizionalismo in cui la Tradizione ha cessato di fluire. Ritrovare la Madre, come virtù originaria, o come coscienza cosmica rispetto a cui l’odierna coscienza è immersa nel sonno profondo, è un còmpito di cui si possono ravvisare aspetti similari nella mistica d’Occidente».

Ma la discesa dell’Adàm Kadmòn, dell’Uomo Primordiale, sin giù nel baratro dell’individuazione e della frantumazione, sin giù nell’abisso della più tenebrosa solitudine, è qualcosa che è avvenuto con una certa gradualità. Nel suo discendere in tale tenebroso e divorante baratro, che potremmo con Virgilio, – in Aeneis, I, 118, 

«Adparent rari nantes in gurgite vasto»,

«Appaiono pochi naufraghi nuotanti nel vasto gorgo»,

e in Aeneis VI, 295-297,

«Hinc via Tartarei quae fert Acherontis ad undas. Turbidus hic caeno vastaque voragine gurges / aestuat atque omnem Cocyto eructat harenam.»,

«Di qui la via che porta alle onde del tartareo Acheronte. Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia» 

chiamare “gurge”, o “voragine”, l’essere umano è stato accompagnato da Deità “regolari”, contrastanti l’opera oscuratrice e disgregatrice delle Entità “ostacolatrici”. Questa azione viene esemplarmente descritta – con parole che sarebbe savio meditare profondamente e a lungo – da Massimo Scaligero in Kundalini d’Occidente. Il centro umano della potenza, Edizioni Mediterranee, Roma, 1980, pp. 21-22:

«Secondo il mito, Jehova, accogliendo l’uomo nel Paradiso terrestre, sostanzialmente tende ad impedire che egli acquisisca la conoscenza. Jehova tende a dominare, o a guidare l’uomo, in modo che senza traumi, o senza libertà, egli giunga a realizzare lo Spirito. Lucifero invece ha interesse a donare all’uomo la conoscenza come esperienza senziente, perciò lo spinge verso la libertà, ancor prima che egli disponga di forze morali per usarla giustamente. Come entità celeste caduta, Lucifero tende a riconquistare il rango perduto, servendosi dell’uomo. Agisce come intermediario tra l’uomo e il Divino: aiuta l’uomo, ma al tempo stesso ha bisogno, come Jehova, di dominarlo. Perciò l’uomo, mentre necessita dell’aiuto di Lucifero, ha bisogno altresì di sottrarsi al suo assoluto dominio, proprio mediante l’uso cosciente della forza da Lui inoculatagli. Attraverso l’uomo, Lucifero in definitiva tende a ritrovare il Cristo, per redimersi. Ma l’uomo che si liberi, può diventare lui l’intermediario verace tra Lucifero ed il Cristo: mediante libertà superando Jehova, ma superando anche Lucifero. Questo è il segreto. Christus Lucifer verus. Senza la redenzione dell’uomo, non può esservi redenzione di Lucifero. Infatti, ove sulla Terra l’uomo riconosca il Cristo, troverà, dopo la morte, quale divinità superiore orientatrice, Lucifero, riemergente alla sua funzione celeste».

Questa condizione dell’essere umano esiliato dalla patria spirituale, apparentemente ‘abbandonato’ da quegli Dèi, che pur lo hanno generato, viene anch’essa descritta in maniera radicale, tale da non dar luogo ad equivoci di sorta  da Massimo Scaligero in un’opera fondamentale come L’Uomo Interiore, Edizioni Mediterranee, Roma, 1976 – alla quale purtroppo, nella ristampa del 2012, è stato ‘tagliato’, secondo una ben discutibile, totalmente arbitraria, scelta, il sottotitolo, Lineamenti dell’esperienza sovrasensibile, e parte della sintesi descrittiva del contenuto del volume, scritta direttamente dall’Autore, ossia dallo stesso Massimo Scaligero, nella quarta di copertina – ove alle pp. 204-207, possiamo leggere parole di un realismo assoluto, tali da togliere ogni residua illusione circa la possibilità di indugiare nel ‘sogno’ di una Tradizione oramai irrimediabilmente perduta, e quella di una mistica ‘via dell’anima’, che permetta di evitare lo sforzo e l’impegno nella lotta spirituale per l’essere o il non essere dell’uomo:  

«L’epoca di tale comunione spontanea con lo Spirituale si conclude con il periodo che nel mondo risponde alla protostoria mediterranea: è il periodo in cui la « conoscenza » non è più comunione diretta, ma « visione imaginativa », che più tardi si rifletterà nel mito: questo a sua volta avrà la sua sensibilizzazione nella poesia cosmogonica e nell’epos, mentre si verifica il compimento di un processo millenario: una sorta di distacco (il termine ha valore puramente allusivo, ossia relativo a un modo di essere dello Spirituale) del mondo animico o psichico, dal dominio sovrasensibile: una perdita di rapporto dell’« umano » riguardo al « divino », che non può non essere – per l’umano – regresso, o caduta, in uno stato inferiore. In séguito a tale evento, che si verifica attraverso lunghi decorsi di tempo, o epoche, l’uomo è costretto a elaborare il suo conoscere entro i limiti della individualità psichica, la cui massima possibilità comincia con essere la capacità razionale.

Lo Spirituale con cui prima la personalità dell’uomo costituiva un tutto e dal quale traeva motivo di elevazione, limitandosi ad essere impersonalmente conforme alla sua legge, diviene ora – dal punto di vista della « caduta » dell’uomo – mondo esteriore. Vedendolo ormai separato da sé e non più essendone posseduto ed ispirato, l’uomo in sostanza non lo vede: lo riduce alla sua attuale limitata visione, è costretto a rivolgersi ad esso come ad oggetto – d’indagine, così che di esso via via non rimarranno se non il nome ed il concetto: sul piano religioso, la vuota forma rituale, e, nell’anima umana, l’inconscio impulso a riferirsi a un potere fatale o provvidenziale, che continui ad agire invece dell’Io personale nascente. […]

Si è veduto, però, come la necessità di trarre la coscienza dell’Io da un livello inferiore, in quanto condizionato dalla esteriorità sensibile, pur apparendo una caduta, in definitiva abbia come obiettivo il compimento dello « stato umano ». L’uomo tende a ricostruire la vita spirituale all’interno della individualità, con i mezzi che la coscienza, costretta a trarre il senso di sé dal mondo finito, va via via creandosi, per recare luce là dove l’antica spiritualità si è fatta natura. È l’esperienza della libertà: che non può essere al principio essendovi al principio solo necessità, sia pure metafisica. Ma tra lo stato d’illuminazione originaria e la possibilità d’illuminazione cosciente, v’è una fase di oscuramento: lunga, per i suoi trapassi, per le sue crisi e per le mutazioni che si verificano nella costituzione interiore dell’uomo. La coscienza si strappa alla trascendenza per darsi la dimensione individuale e per resuscitare la trascendenza entro se stessa. Sarà inevitabile che la ricerca patisca i limiti dell’astrattezza e da questa si faccia in varie forme deviare. Ma, a un dato momento, essa può scoprire di poter evocare al livello della individuazione e come superamento del finito la « forza interiore originaria »: può riconoscere quel principio Logos che in un determinato punto del tempo ha operato nel terrestre la rettifìcazione invisibile: non conosciuta, che potrà essere conosciuta: che sorge come possibilità di libertà.

L’uomo può ridestare in sé la luce originaria – quella che « risplende nelle tenebre » – e rendere il pensiero cosciente (acquisito attraverso l’apparente discesa in una sfera anti-metafìsica) organo di percezione dello Spirituale, nel mondo che per ora in lui è dominato dall’incosciente e dalla natura animale: potrà riconoscere come questa sia in effetto l’impresa per cui si può realizzare nella realtà umana l’evento adombrato nel mito del Graal. Diviene atto ciò che è stato posto come germe invisibile per virtù di un culto perenne, ai confini del sensibile, simbolicamente riflesso nella imagine del San Graal: il cui mistero, appena alluso nella leggenda, riguarda la possibilità dell’uomo di ritrovare, mediante spirito eroico e conoscenza, l’Io originario perduto.

Il processo di distacco, come si è accennato, implica da prima un oscuramento e una perdita: con le sole forze della individualità, da quel momento, l’uomo deve cominciare a guardare il tema dell’essere. Chiuso nei limiti egoici, egli tenderà a evocare in sé il Divino: tenderà a questo anche attraverso fasi di inconsapevolezza; ma il Divino agirà sempre in lui sotto forma di questo impulso all’auto-superamento, mentre echi e reviviscenze dell’antica comunione con il Sopra-mondo lo assisteranno lungo il cammino, operando attraverso la funzione mediatrice di Santi e di Mistici e grazie ad una residua apertura del « sentire » umano: sino al momento – l’attuale – in cui cessa del tutto la risonanza, sia pure emotiva, del Sovrasensibile nell’anima umana: ché ogni « sentire » è ormai contessuto con la natura fisico-sensibile.

La solitudine del mondo sensibile è ora il limite dell’uomo, ma anche l’àmbito della possibilità del suo risorgere: condizione che, pertanto, riguarda l’uomo in generale, ma in particolare l’« individuo » più recente, che, nel suo agnosticismo, essendo più indipendente dall’antica esperienza sovrasensibile, si può considerare il più evoluto: più prossimo alla possibilità della risalita, o della reintegrazione cosciente, ma perciò stesso, per la sua autonomia rispetto ad ogni tema trascendente, più chiuso ai richiami dell’esperienza liberatrice.

Al tipo di uomo capace di attraversare il processo della individuazione e di percorrerne le tappe, i mezzi che si offrono per portare a compimento l’opera sono da prima il pensiero e i sensi: soltanto con questi egli può muovere alla conoscenza del mondo e organizzare la sua vita. È l’esperienza dell’Occidente, dalla quale nasce la civiltà meccanica e materialistica. In tale civiltà si riflettono obiettivamente i caratteri del pensiero che l’ha prodotta: pensiero matematico, scientifìco, nettamente individuato, ma disanimato: pensiero astratto, ormai chiuso ad ogni forma di fede, ma appunto per questo recante una indipendenza che è già una dimensione spirituale, mai prima conosciuta e che, positivamente assunta, secondo Scienza dello Spirito, può resuscitare nell’anima l’essenza sovrasensibile come forza cosciente». 

Ora, se l’uomo deve uscire da una millenaria infanzia e minorità spirituale, egli ‘deve’ – necessariamente ‘deve’ – affrancarsi dalla ‘tutela’ obbligata e costringente delle Deità ‘regolari’ che lo hanno generato, così come dall’azione stimolatrice, ma anche distruttrice, delle ‘irregolari’ Deità ostacolatrici, le quali, del resto – come abbiamo più sopra rilevato sulla base delle comunicazioni della Scienza dello Spirito – non hanno certo ‘scelto’, ossia assunto ‘liberamente’, di loro ‘autonoma iniziativa’, tale ruolo al contempo distruttivamente stimolante e ostacolante della libera volontà umana. In effetti, tali ‘irregolari’ Spiriti dell’Ostacolo a tale incomodo ruolo sono stati ‘missionati’, ossia ‘comandati’ e ‘costretti’, senza possibilità alcuna di sottrarvisi, da ‘regolari’ Deità superiori, anch’esse non libere, e anch’esse attendenti dall’uomo la sua autonoma conquista della libertà, e il ‘dono’ ch’egli di essa farebbe a Deità ‘regolari’ e ‘irregolari’: realizzando così la missione da esse ricevuta dall’Assoluto.

Questo ritrovare mediante folgorante Conoscenza, mediante ‘Gnosis’, l’Essere Primordiale, l’Assoluto, è ciò che rende liberi dalla ‘Legge’, dal Nòmos, dai condizionanti e costringenti legami di sangue, che fanno dell’individuo un esemplare, come tanti altri, della collettiva ‘anima di gruppo’ , che discende lungo le generazioni. L’antico israelita sentiva di appartenere, mediante il sangue, alla discendenza del padre Abramo, di essere un rappresentante della stirpe più che un Io individuato. Nella comunione con l’ente della stirpe con tutti coloro che erano usciti “dal seno di Abramo”, sentiva di essere pervaso dal Dio della stirpe, da Jahve-Jehova, e sentiva che per essere spiritualmente in regola doveva obbedire alla Torah, al Nòmos, alla Legge di Mosè, il Nomotèta, il Legislatore d’Israele. Non vi era per l’antico israelita problema o necessità di libertà, di autocoscienza individuale su sé fondata, di esperienza dell’Io sono: era richiesta unicamente l’obbedienza alla Legge, la cui trasgressione suscitava l’ira del Dio, di Jahve-Jehova, e quella degli uomini, preposti come giudici, gli shofetîm, alla punizione della trasgressione.

Nel Vangelo di Giovanni assistiamo alla contrapposizione tra la Legge mosaica, cui si sentono ancora legati i discendenti di Abramo, e l’impulso – veramente rivoluzionario – che sollecita alla Conoscenza, alla libertà, al fondarsi con l’autocoscienza individuale sullIo sono. Già alla fine del Prologo, nel testo originario, ai vv. 15-18, nell’originale testo greco, leggiamo:

Ἰωάννης μαρτυρεῖ περὶ αὐτοῦ καὶ κέκραγεν λέγων, Οὗτος ἦν ὃν εἶπον· Ὁ ὀπίσω μου ἐρχόμενοςἔμπροσθέν μου γέγονεν, ὅτι πρῶτός μου ἦν· ὅτι ἐκ τοῦ πληρώματος αὐτοῦ ἡμεῖς πάντες ἐλάβομεν, καὶ χάριν ἀντὶ χάριτος· ὅτι ὁ νόμος διὰ Μωυσέως ἐδόθη, ἡ χάρις καὶ ἡ ἀλήθεια διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ ἐγένετο, θεὸν οὐδεὶς ἑώρακεν πώποτε· μονογενὴς θεὸς ὁ ὢν εἰς τὸν κόλπον τοῦ πατρὸς ἐκεῖνος ἐξηγήσατο.

Che nella traduzione, la Riveduta, condotta sul testo cinque-seicentesco del valdese riformato Giovanni Diodati (1576-1649), del valdese Giovanni Luzzi, così suonano:

Giovanni gli ha resa testimonianza ed ha esclamato, dicendo: Era di questo che io dicevo: Colui che vien dietro a me mi ha preceduto, perché era prima di me. Infatti, è della sua pienezza che noi tutti abbiamo ricevuto, e grazia sopra grazia. Poiché la legge è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità son venute per mezzo di Gesù Cristo. Nessuno ha mai veduto Iddio; l’unigenito Figliuolo, che è nel seno del Padre, è quel che l’ha fatto conoscere.

Ma la contrapposizione più aperta e drammatica tra il mondo mosaico e jahvetico della Legge e quello ‘gnostico’ della Conoscenza e della libertà lo troviamo nell’ottavo capitolo del Vangelo di Giovanni, ove, ai vv. 32-33, leggiamo:

Ἔλεγεν οὖν ὁ Ἰησοῦς πρὸς τοὺς πεπιστευκότας αὐτῷ Ἰουδαίους· Ἐὰν ὑμεῖς μείνητε ἐν τῷ λόγῳ τῷ ἐμῷ, ἀληθῶς μαθηταί μού ἐστε, καὶ γνώσεσθε τὴν ἀλήθειαν, καὶ ἡ ἀλήθεια ἐλευθερώσει ὑμᾶς.

ἀπεκρίθησαν ⸂πρὸς αὐτόν⸃· Σπέρμα Ἀβραάμ ἐσμεν καὶ οὐδενὶ δεδουλεύκαμεν πώποτε· πῶς σὺ λέγεις ὅτι Ἐλεύθεροι γενήσεσθε;

Che nella traduzione dei primi del Novecento del valdese Giovanni Luzzi, diventa:

Gesù allora prese a dire a que’ Giudei che aveano creduto in lui: Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi.

Essi gli risposero: Noi siamo progenie d’Abramo, e non siamo mai stati schiavi di alcuno; come puoi tu dire: Voi diverrete liberi?

E, poco oltre, ai vv. 57-58, è scritto:

εἶπον οὖν οἱ Ἰουδαῖοι πρὸς αὐτόν· Πεντήκοντα ἔτη οὔπω ἔχεις καὶ Ἀβραὰμ ἑώρακας;

εἶπεν ⸀αὐτοῖς Ἰησοῦς· Ἀμὴν ἀμὴν λέγω ὑμῖν, πρὶν Ἀβραὰμ γενέσθαι ἐγὼ εἰμί.

Ossia,

I Giudei gli dissero: Tu non hai ancora cinquant’anni e hai veduto Abramo?

Gesù disse loro: In verità, in verità vi dico: Prima che Abramo fosse nato, Io Sono.

Il sorgere dell’essere umano come individualità autocosciente e libera, implica il definitivo liberarsi dalla obbligante ‘tutela’ esercitata dalle Deità che lo hanno originariamente emanato e generato, il non voler dipendere più da quelle ‘rivelazioni’, e dalle correlative mediazioni rituali, dalle costringenti imposizioni della mosaica e jahvetica ‘Legge’, prescrittagli dall’esterno, con le quali tali Deità generatrici lo hanno accompagnato lungo il graduale processo di progressivo accecamento della sua immediata percezione sovrasensibile – che era, appunto, un gratuito ‘dono’ degli Dèi, e non autonoma conquista dell’uomo, altrimenti egli, se ne fosse stato realmente autore e signore, non l’avrebbe mai smarrita, come ricorda sempre Massimo Scaligero – nonché nella sempre più accelerantesi paurosa discesa nell’oscuro baratro dell’individuazione e della disperante solitudine, che tanto atterriva l’antico uomo delle civiltà tradizionali, ed ancor oggi atterrisce, e al contempo attrae, molti che temono – abyssus abyssum invocat, recita il biblico Salmo 41 di Davide, re d’Israele – l’istanza radicale di doversi reggere unicamente sulla propria essenza originaria, sull’Io, abbandonando l’illusorio appoggio su una precaria e infida ‘natura’, da molti millenni dominio e pastura di Deità ostacolatrici, e vedono cotale discesa nel baratro secondo la dantesca e virgiliana immagine di Giovanni Pascoli, Sotto il velame. Saggio di un’interpretazione generale del poema sacro, seconda edizione, Nicola Zanichelli, Bologna, 1912, pp. 76-77:

«Noi profondiamo nel miro gurge; e sentiamo il freddo e la vertigine dell’abisso. Noi scendiamo nel cupo del pensiero dantesco per la prima volta dopo sei secoli». 

Ma, oggi non è più concesso all’uomo di evitar la prova, ad affrontar la quale oramai si è soli, senza più appoggio, ausilio, e indicazione da parte dei Numi, i quali – come abbiam visto – liberi non sono, e anzi proprio dall’uomo, ‘loro mèta’, essi attendono liberazione. In questa lotta per uscir dalla ‘selva selvaggia aspra e forte’, affrontare ‘l’alto passo’, per affrontare il quale Dante ‘uscì de la volgare schiera’, il cercatore di libertà e salvezza è – come il divino Poeta – solo e come lui, in Inferno, II, 1-6, non può concedersi riposo e scoraggiamento:

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra 
da le fatiche loro; e io sol uno                                          

m’apparecchiava a sostener la guerra 
sì del cammino e sì de la pietate, 
che ritrarrà la mente che non erra.  

Questa, ovviamente, è una impresa estrema, un andare a ‘calcare la soglia della morte’, e non è una mera questione di studio razionale o di cultura intellettuale, come oggi molti son usi a ridurre l’esoterismo e la Via dell’Iniziazione. Perché come sin troppo chiaramente avverte quel paganaccio mio concittadino, Arturo Reghini, in Parole sacre e di passo, Atanòr, Todi, 1922, pp. 161-162, rifacendosi agli Antichi Misteri del Mondo Classico: «Non basta udire queste cose per apprenderle, dice Apuleio, occorre accostarsi al limite della morte, calcare la soglia di Proserpina; e questa, non è impresa da pigliare a gabbo; è un poco più rischiosa che sfogliare volumi ed eseguire degli scavi». E, infatti, per affrontare una cotale suprema impresa, non si può procedere ad uno sperimentalismo selvaggio, provando a casaccio, disordinatamente, quel che capita, o addirittura quel che attrae e piace, perché cliniche psichiatriche, cimiteri, e l’Ade sono pieni di disperati che su un tale periglioso sentiero hanno perso la salute, la ragione e sovente anche la vita. Conciosiacosaché io prenderei sul serio – molto sul serio – l’avvertimento e il savio consiglio del mio polemicissimo concittadino, che, parafrasando il periodare dantesco, a p. 192, così scrive:

«Anche la preliminare purificazione interiore, in pratica, non si effettua senza una esperta guida. Occorre a Dante la sapienza di Virgilio, che di servo lo trae a libertade, e lo conduce sino alla catarsi del paradiso terrestre da cui esce rinnovellato di novella fronda, puro e disposto a salire alle stelle; ed occorre poi altrettanta sapienza per arrivare a dislegare l’anima sua da ogni nube di mortalità. Questa è la funzione dell’Hermes Psicopompo, di Tot Trismegisto. Occorre dunque un maestro e benché la selva sia oggi non meno aspra, selvaggia e forte di quanto fosse al tempo di Dante, pure noi riteniamo che il pellegrino che vi si smarrisca possa e debba ancor oggi rinvenirvi il suo Virgilio».

Quindi grande ventura è per il ricercatore spirituale incontrare la Scienza dello Spirito, un Maestro che, col suo provvido insegnamento, faccia da Virgilio allo smarrito ‘pellegrino d’Amore’. Tale è oggi l’insegnamento di Rudolf Steiner e quello di Massimo Scaligero. Tale fu per me – ancor più grande ventura – l’aver incontrato al termine della mia agitata e affannata adolescenza Massimo Scaligero, e l’avermi egli mostrato l’Aureo Sentiero, inconosciuto o smarrito dai più negli ambienti antroposofici, e persino da molti ‘scaligeropolitani’, ossia quella Via del Pensiero Vivente, quella Via della Concentrazione Assoluta, che è l’autentico ‘manifesto mistero’ dell’Opera del Maestro dei Nuovi Tempi. Per questo, nel mio cuore a lui – e solo a lui – come in Inferno, II, 139-142, io dissi:

«Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro».

Questa la radicale e tragica situazione dell’uomo, oramai giunto al ‘cimento supremo’, allo scontro finale di quella lotta nella quale si deciderà del suo essere o del suo non essere, una lotta per la vita o la morte. E un ritornare indietro, tornare ad una sorta di innocente, incolpevole, irresponsabile ‘infanzia divina’, per lui davvero non v’è, poiché, come abbiamo visto, Massimo Scaligero ammonisce: «Chi vuol tornare indietro, segue la «via dei morti», in quanto non fa che disseppellire in sé antichi stati di coscienza, oltre i quali ormai l’uomo dovrebbe portarsi, per essere». E quella sarebbe una impresa vana perché quei riesumati stati di coscienza non potrebbero essere quel che furono in antico, non sarebbero altrettanto innocenti: sarebbero solo una caricatura deforme e demoniaca dei medesimi.

Ma l’uomo è chiamato al coraggio, alla realizzazione di se stesso, ad esser lui, e non altri, autore e signore del suo stesso destino. A realizzar ciò, non dovranno nutrire l’uomo effimere irrealtà e vane illusioni, «ma sapienza, amore e virtute» (Inf., I,104), realizzando così Autoscienza, Libertà e Amore, e giungere infine a contemplare «la divina podestate, la somma sapienza e ’l primo amore» (Inf., III, 5-6), ossia quell’«L’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII, v. 145), ultimo verso di quella Comoedia”, che Giovanni Boccaccio volle chiamar “Divina”.

Ora, la posizione ‘cainita’ dell’uomo di totale indipendenza, e di assoluta autonomia, di individuale responsabilità del proprio destino, fu espressa con assoluta chiarezza da Rudolf Steiner già nelle prime, giovanili, opere filosofiche, che io amo chiamar ‘filosofali’, in particolare in Einleitungen zu Goethes Naturwissenschaftlichen Schriften, zugleich eine Grundlegung der Geisteswissenschaft (Anthroposophie), GA-1, Rudolf Steiner Verlag, 1987, Dornach, Schweiz. Infatti così possiamo leggere in Introduzione agli Scritti Scientifici di Goethe, Per una Fondazione della Scienza dello Spirito (Antroposofia), Editrice Antroposofica, Milano, 2008, pp. 104-105, ne Le opere scientifiche di Goethe, che preferisco citare nella bella edizione dei Fratelli Bocca, Milano, 1944, p. 84:

«Ogni uomo che pensi rettamente, dovrebbere respingere una felicità che gli venisse pôrta da una qualche potenza esteriore, non potendo sentire come tale una felicità offertagli come dono immeritato. Un creatore che avesse intrapresa la creazione dell’uomo pensando di dargli addirittura in dono la felicità, avrebbe fatto meglio a lasciarlo increato. Se quanto l’uomo compie viene sempre crudelmente distrutto, ciò aumenta la sua dignità; ché, in tal caso, egli deve sempre di nuovo creare e produrre, e la sua felicità sta nell’essere attivo, sta in ciò ch’egli stesso può compiere. La felicità donata, è pari alla verità rivelata. Degno dell’uomo, però, è solo il cercare la verità da sé, senz’esser guidato né dall’esperienza né dalla rivelazione. Quando ciò sarà una volta pienamente riconosciuto, le religioni rivelate avranno esaurito il loro còmpito. Allora l’uomo non potrà più nemmen volere che Dio gli si riveli o gli largisca in dono le sue benedizioni. Vorrà conoscere per virtù del suo proprio pensiero e fondare la sua felicità per forza propria. Se qualche potenza superiore guidi i nostri destini verso il bene o verso il male, non ci riguarda; noi stessi dobbiamo prescriverci la via da percorrere. L’idea più elevata di Dio resta pur sempre quella che considera essersi Egli totalmente ritirato dal mondo, dopo aver creato l’uomo, abbandonando questi interamente a se stesso.

Chi riconosce al pensiero la facoltà di percepire oltre ciò che possono scorgere i sensi, deve necessariamente attribuirgli anche degli oggetti che stiano oltre la realtà puramente sensibile. Ora gli oggetti del pensiero sono le idee. In quanto il pensiero s’impossessa dell’idea, esso si fonde con la base primordiale dell’esistenza cosmica; ciò che agisce fuori, penetra nello spirito dell’uomo; esso diventa uno con la realtà obiettiva alla sua più alta potenza. La percezione dell’idea nella realtà è la vera comunione dell’uomo».

Questa è la posizione al contempo austera, audace, addirittura ‘rivoluzionaria’ della Scienza dello Spirito, tale che esige dal sincero ricercatore spirituale il coraggio di fare a meno di grucce’, ‘stampelle’, ‘appoggi’, di rifugiarsi nel ‘sicuro ovile’ (sicuro, si fa per dire…) delle Chiese, e delle petites chapelles, ossia delle grandi e potenti Chiese istituzionalizzate, sedicenti detentrici di una discutibilissima ‘ortodossia’, e delle varie chiesuole, a pretese ‘esoteriche’, sedicenti detentrici di una ‘Gnosi’, che nel migliore dei casi è solo letteraria. Chi abbia veramente sete d’Incondizionato, di Assoluto, oggi, vede quanto sia profonda – sia detto con tollerante sopportazione – la decadenza irreversibile dei cosiddetti Ordini ‘tradizionali’, un tempo gloriosi, ma la cui funzione – ripeto, oggi – è esaurita e superata. In effetti, sulla Via dell’Aucoscienza e della Libertà, non si può chiedere ad un rituale – sia pure antico e venerando – quel che non si è capaci, o non si vuole, o si teme chiedere al proprio pensare e al proprio volere. Una tale decadenza, anzi una totale degenerazione ha colpito anche le varie Società spiritualistiche, compresa quella antroposofica. Si può affermare – ed è una constatazione molto dolorosa – che proprio l’istituzione creata da Rudolf Steiner ha raggiunto nel tempo livelli che non hanno uguali. La storia del movimento antroposofico – come ebbi a dire nel 1985 a Hella Wiesberger nel nostro primo incontro – è la tragedia spirituale del XX secolo, come lo è altresì del nostro. 

Giova, perciò, ricordare le severe parole di Massimo Scaligero, nel capitolo 20 del suo Trattato del Pensiero Vivente, Tilopa, Roma, 1979, p. 62, ove parlando della forza-folgore del Pensiero Vivente, così scrive

«Nessun determinato pensiero reca quella forza e tutti scaturiscono da essa: onde la verità non può appartenere ad alcun pensato – e di conseguenza a nessuna dottrina, o scuola, o accademia, o corrente spiritualistica – ma al pensiero nel quale viva la forza onde nascono le verità e le dottrine. Che non è più l’ordinario pensiero.

La verità è appunto questa forza, non le dottrine che la dialettificano, onde nessun conoscere la verità è la verità, ma solo il conoscere in quanto espressione di tale forza: non il conoscere che si persegua per il sapere, ma quello a cui si subordini ogni sapere. Il vero sapere è il pensare che sappia essere pensiero: puro conoscere».

3 pensieri su “LA RICERCA DEL SANTO GRAAL. DECIMA PARTE.

  1. E’ vero, drammaticamente vero, che “La storia del movimento antroposofico è la tragedia spirituale del XX secolo, come lo è del nostro”. Ma…..citando Massimo Scaligero:
    “L’essere eterico della terra attende dall’uomo la liberazione dal decrepito involucro fisico: l’attende dal pensiero che si liberi dalle condizioni sensibili”
    Segreti dello Spazio e del Tempo. Ed. Tilopa 1985 – pag. 82

    E questa lotta non può essere fermata né essere tradita.
    E niente sarà invano; neanche il più piccolo sforzo condotto, nel segno del Dottore, con il calore del cuore in una isolata stanzetta in un solitario casolare di campagna,
    Perché come affermava Giovanni Colazza:
    “L’uomo è il centro dell’Universo. Tutte le masse materiali fredde o incandescenti delle miriadi di mondi non pesano nella bilancia dei valori quanto il più semplice mutamento della sua coscienza”
    Grazie Hugo per il tuo ritorno.
    Uther Pendragon

    • Gentile Utherpendragon, grazie per le tue parole!

      Più ho studiato la storia dell’esoterismo in generale, ma soprattutto quella del movimento antroposofico in particolare, e più mi sono convinto del fatto che la storia del movimento fondato da Rudolf Steiner sia – come ho spesso detto – la tragedia spirituale del XX secolo, ed anche nel nostro XXI, oramai entrato nel suo terzo decennio.

      Più volte Massimo Scaligero affermò che l’azione spirituale del Maestro dei Nuovi Tempi – com’egli chiamava Rudolf Steiner – non ha incontrato un pensiero capace di pensarla. Se non in pochissimi, dico io. Alcuni decenni fa, un personaggio di rango spirituale, parlando al mio terribilissimo amico C., valoroso asceta d’altra dottrina – disse che Rudolf Steiner, l’ultimo dei grandi Rosacroce – così egli lo definì – non è stato capito nemmeno per un quarto. Beh, io farei scendere la percentuale ancora più in basso: anche sotto il 5 per cento. Quel che, secondo tale persona di rango spirituale, rende difficilissima a molti, ai più, l’insegnamento di Rudolf Steiner, non è un limite della capacità intellettuale – sappiamo, infatti (come diceva Massimo Scaligero), che oggi sono tutti fastidiosamente intelligentissimi, e nessuno è saggio. O, perlomeno, pochissimi sono saggi. Secondo l’anziano amico parigino del mio amico C., per esempio, la gioventù, oggi, quando va bene è razionalista (quando non si dànno all’alcol, alle “canne”, o ad altre “acque corrosive”), mentre la loro volontà è “smarmellata”: questa l’espressione che usò.

      Come diceva Alessandro, Conte di Cagliostro, si conosce veramente – e non in maniera intellettualmente universitaria – solo divenendo la cosa conosciuta. Per conoscere cosa sia l’Amore, bisogna AMARE: divenire “Amore”! Ma “divenire” qualcosa, è un moto attivo della volontà: quindi implica una ascesi fattiva. Nel migliore dei casi, l’Antroposofia, in vaste cerchie antroposofiche, è divenuta presto un oggetto di erudizione, un raffinato argomento dialettico, pastura per uno scintillante vacuo intellettualismo. E spesso, neppure quello, a giudicare dal dilagante dilettantismo. Nella nobil Terra d’Ausonia, cara agli Dèi, poi, ove in molti campi ci si muove all’insegna dell’improvvisato e dell’approssimativo, le cose scivolano sovente nel sentimentalismo intimista, e talvolta nella pagliaccesca ciarlataneria. Come anche di recente abbiamo avuto modo di constatare.

      La tragedia del movimento antroposofico sta nella mancanza – nella penuria – degli asceti operanti, degli autentici praticanti interiori, degli sperimentatori del moto volitivo del pensiero, dei meditatori, degli intuitori dello Spirito: ossia di coloro che si consacrano – senza riserve né possibilità di ritorno – ad una sempre più intensa pratica interiore: alla Concentrazione. Prima si realizza, e poi si comprende. Darsi ad una erudizione esoterica, ad un mero approfondimento intellettuale della Scienza dello Spirito, è la via per diventare rapidamente dei coltissimi ed intelligentissimi idioti. Nella sua ultima opera, in “Iside Sophia. La Dea ignota”, Massimo Scaligero ammonisce che “l’intellettualismo offende lo spirito del cuore”. Questo perché tale intellettualismo produce una sorta di insensibilità interiore, di sordità del cuore, di opacità dell’anima.

      il motivo di esistenza di questo temerario blog, è nell’indicare insistentemente che venga animosamente percorso il sentiero aureo della realizzazione spirituale, per il quale tanto si adoperò – sino alle ultime ore della sua esistenza sensibile – Massimo Scaligero, affinché non vada perso nulla del dono portato all’umanità da Rudolf Steiner, da Marie Steiner, da Giovanni Colazza, dallo stesso Massimo Scaligero. Quindi l’appello a non disperdere i doni che questi Iniziati ci hanno pòrto, e a darsi risolutamente alla pratica interiore. E finché avremo fiato, con Ecoantroposophia combatteremo instancabilmente, senza risparmiarci: in maniera pugnace!

      Hugo de’ Paganis

  2. Gentilissimo Hugo, nulla da aggiungere; sottoscrivo tutto dall’inizio alla fine!
    E citando Rudolf Steiner nella poesia “Per l’era di Michele” da appunti di Zeylmans van Emichoven:
    “In verità nulla avrà valore
    se ci manca il coraggio”

    Uther Pendragon

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