L’ASCESI DEL RISVEGLIO E L’OTTUPLICE SENTIERO DEL BUDDHA SHAKYAMUNI

buddha shakyamuni

Negli incontri che ritmicamente negli anni settanta del trascorso secolo avevo con Massimo Scaligero – incontri per i quali non ringrazierò mai abbastanza il Cielo e i Numi – talvolta egli affrontava il tema delle ascesi d’Oriente, ricreandone ogni volta con la sua magica parola la viva immagine e l’arcana atmosfera davanti agli occhi della mia anima. Di quelle antiche Vie, egli mi illustrava gli aspetti più luminosi, che avevano valore di perennità, separandoli da quegli aspetti traseunti, oggi non più attuali, dovuti all’inevitabile adattamento del linguaggio dello Spirito alle esigenze delle diverse civiltà e della varietà di tipi umani che in esse si manifestavano. Massimo Scaligero curava di mostrarmi altresì come quei luminosi contenuti di perennità (come amava definirli) potessero ancora parlare all’uomo più moderno, all’uomo attuale, quello più radicalmente immerso nell’esperienza immanente del mondo.

Una particolare importanza, egli dava alla Via del Buddha, che non si era esaurita nelle varie forme storiche ch’essa aveva assunto lungo un millennio in India, e neppure nelle successive manifestazioni estremo-orientali del Buddhismo, in Cina e in Giappone, e nemmeno in quelle tibetane, che maggiormente hanno risentito delle influenze indiane. Egli vedeva nell’operare del Buddha un impulso “cosmico” che, al di là delle forme “storiche” assunte in Oriente, poteva manifestarsi nell’Occidente moderno in forme inaspettate, difficilmente ravvisabili dagli stessi orientalisti e storici delle religioni, i quali difficilmente riescono a scorgere, a causa dell’ipnosi prodotta in loro dall’arido dato filologico e archeologico, l’imprevedibile elemento spirituale vivente, generatore di impensate forme novelle, che difficilmente può scorgere chi si nutra unicamente di sia pure eruditi studi accademici.

Più volte Massimo Scaligero mi dette concrete indicazioni operative, invitandomi espressamente a sperimentarle nella mia pratica ascetica, traendole da insegnamenti del Buddha, che mi mostrava in una luce per me davvero inaspettata. Traeva quelle preziose indicazioni sia dalle opere del Canone pâḷi del Buddhismo più antico, sia da quelle del più recente Buddhismo Mahâyâna. Di un autore, da me molto amato, come Nâgârjuna, arrivò a dirmi che: “egli era stato uno dei primi asceti, un autentico precursore, della Via del Pensiero, come la concepiamo noi”. Mi indicò pure un punto nel quale il Buddha Shakyamuni parla apertamente dell’esperienza del pensiero vivente.  Più di una volta mi espresse il pensiero che se, all’inizio del Novecento, invece che i teosofi, avesse avuto di fronte degli asceti formati nelle Vie dell’Oriente, Rudolf Steiner avrebbe donato contenuti di ben altra radicalità e dirompenza spirituale. 

Nella seconda metà degli anni settanta, Massimo Scaligero volle darmi un suo scritto, un estratto da un numero di East and West, la bella rivista del Is.M.E.O., ch’egli curava come redattore, recensore di testi di orientalistica, e direttore responsabile. L’articolo ivi pubblicato era in inglese, ma avendo smarrito il dattiloscritto originale in italiano, mi pregò – oltre che di studiarlo con attenzione e di meditarlo bene – di tradurlo in italiano: poi lui lo avrebbe rielaborato in una forma tale da poter essere messo a disposizione degli amici impegnati nella Via. A quell’epoca, purtroppo, le mie conoscenze della lingua d’Albione erano meno che modeste (e ben modeste le mie competenze linguistiche lo sono tuttora), per cui non riuscii ad adempiere onorevolmente, prima della sua scomparsa (avvenuta non molto tempo dopo), il compito affidatomi.

Ma non desistei. Ne feci, nel tempo, due successive traduzioni, che invero mi soddisfacevano molto poco. Vi sono ritornato sopra in questi giorni, mettendoci la massima buona volontà. Naturalmente, l’argomento, estremamente delicato, anche per chi ben lo comprenda, non è facile da tradurre. Ma l’impresa più difficile, in quest’opera di retroversione dall’inglese all’italiano, è rendere lo stile e l’efficacia della parola di Massimo Scaligero, parola che, nelle opere da lui pubblicate, manifesta tutta la magia mantrica del suono e l’aurea trama del suo luminoso tessuto ideale. Comunque vi ho messo tutto l’impegno possibile per non tradire il suo pensiero. Per cui sono da imputare solo a me tutti i difetti, che una inabile traduzione non mancherà di mostrare, per i quali chiedo in anticipo la benevola indulgenza del candido lettore.

Non farò l’esegesi delle parole di Massimo Scaligero, ché di ben altre forze e sapienza dovrei essere provvisto per un tale arduo compito. Tuttavia non rinuncio a indicare come il tema della “liberazione della memoria”, della indipendenza dai condizionamenti di una natura inferiore, sia stata trattata anche dal Dott. Giovanni Colazza, che di Massimo Scaligero fu amico e Maestro, nella conferenza da lui tenuta a Milano, l’8 dicembre 1940, recante il titolo “La ricerca dell’Io nel periodo dell’anima cosciente”, trascritta dagli appunti dell’ottima Fanny Podreider. In quella conferenza, come del resto in questo scritto di Massimo Scaligero, viene indicata operativamente una ascesi di liberazione conoscitiva, basata sulla Filosofia della libertà di Rudolf Steiner, secondo la quale l’esperienza spirituale del momento originario del pensiero, dell’esperienza cosciente e vivente dell’idea è l’azione trasfiguratrice, anzi radicalmente trasmutatrice, dell’intera vita dell’anima. Per cui dall’esperienza del “pensiero puro”, del “pensiero vivente”, scaturiscono forze morali, e non viceversa. Come viene mostrato da Massimo Scaligero in questo scritto, che vede qui la luce, per la prima volta in lingua italiana.

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Massimo Scaligero, What the Eightfold Path may still mean to mankind, tratto da East and West, Year VII, N. 4 – January 1957, pp. 365- 372.

 CHE COSA L’OTTUPLICE SENTIERO PUO’ ANCORA SIGNIFICARE PER L’UMANITA’

Il ricordo dell’Ottuplice Sentiero nella nostra mente è collegato ad un gruppo di regole morali semplicissime, che nella nostra epoca, hanno un sapore leggermente antiquato, pur rappresentando esse, come viene riconosciuto, i contenuti fondamentali del Buddhismo. Potremmo sentire che, se paragonato, all’aristocratica esperienza delle Upanishad e alle altezze metafisiche raggiunte dai suoi ascetici autori, l’Ottuplice Sentiero, assieme alle Quattro Nobili Verità e alla Dodecupla Catena della Pratîtya Samutpâda, non sia altro che una versione pratica di verità sovrasensibili, talmente allontanatasi da quelle altezze da dimenticare il nucleo essenziale dell’uomo, l’Ātman-Purusha.

Ci dovrebbe essere consentito pensare che taluni mutamenti i quali, nello scenario spirituale dell’umanità,  si presentano col succedere di ogni epoca di evoluzione alla precedente, debbano avere a che fare con le modificazioni interiori dell’uomo stesso. Riforme religiose  e lotte filosofiche dovrebbero forse essere fatte risalire alle forme mutanti dell’esperienza umana, all’emergere di una nuova relazione organica con la sfera sovrasensibile. Questo può spiegare perché nell’ambito di un dato sistema, pensatori tradizionali si trovino a fianco dei rappresentanti di nuove prospettive e dei precorritori di future concezioni. Per la mancanza di coscienza della novità di talune esperienze, quest’ultimi aderiscono alle antiche espressioni; ciò porta a fraintendimenti e a conflitti. La grande polemica tra Realisti e Nominalisti all’interno della corrente ascetica aristotelica nel Medioevo non potrebbe essere spiegata altrimenti. I due gruppi avevano una diversa esperienza degli Universali e chiamavano con lo stesso nome l’oggetto della loro contrastante esperienza interiore.

In maniera simile potrebbe spiegarsi la divergenza tra il Nyâya-Vaiśeṣika e le dottrine buddhiste.

Chiunque guardi imparzialmente alla vita umana nel corso dei secoli, alla storia dello spirito umano, dovrebbe essere capace di rilevare, là dove ve ne siano, i cambiamenti ch’essa presenta. L’umanità è rimasta sempre la stessa? Come può avvenire allora ch’essa afferri e riconosca se stessa persino sotto condizioni che sono sprofondate e sepolte nella coscienza? Il mondo antico non è certo la proiezione dell’intelletto attuale, che tenta di ricostruire qualcosa di diverso da sé, un qualcosa che mai esistette. Esso si rivela, invece, nella forza del suo proprio essere in quanto obbiettiva realtà alla quale il mondo moderno deve anelare per arrivare ad una comprensione.

Quanto all’Ottuplice Sentiero dovremo vedere se esso sia una formula meramente morale, che dia per scontata una serie di “beatitudini”, che non possono essere postulate, ma che dovrebbero piuttosto essere prima conquistate, o non sia piuttosto la formulazione morale di un’esperienza metafisica, che già contenga in sé, in uno stato di estrema purezza, la sapienza ultima delle Upanishad, circa il tradurla in un metodo di vita, in uno stile umano, e che indaghi ulteriormente in profondità. Una interpretazione strettamente morale potrebbe dunque essere il risultato della comprensione del mero suono esteriore delle parole, e non dei contenuti cui esse semplicemente alludono.

Guardiamo più da vicino alla “retta visione, al retto pensiero, alla retta parola, alla retta azione, al retto metodo di vita, al retto sforzo, alla retta esperienza, alla retta meditazione”, ossia alla formulazione verbale dell’Ottuplice Sentiero. Gli otto punti sono ovviamente attitudini ed esercizi che non possono essere separati l’uno dall’altro. Il segreto del loro reale significato sta nella loro struttura, nel loro accordo, nei sottili legami tra essi. 

Una virtù, una qualsiasi attitudine interiore, per l’uomo moderno è anzitutto e soprattutto  un qualcosa di astratto, quasi uno slogan. L’esperienza razionale è quella che rende l’uomo capace di edificare la scienza e la visione scientifica del mondo. Ma il metro di misura della mera conoscenza non può in alcun modo essere applicato alla visone dell’uomo antico. Studiosi come Eliade, Kerenyi, Dumézil hanno dato un’immagine viva della differenza tra l’esperienza antica e quella moderna della natura e del mondo. I veri organi di conoscenza erano altri. L’uomo antico, un essere prerazionale e prefilosofico, non sperimentava astrattamente il pensiero, in quanto la corrente vivificatrice della volontà scorreva direttamente nel suo pensare. Una virtù non avrebbe potuto essere pensata astrattamente – là dove l’uomo moderno, invece, può essere razionalmente persuaso, con ottime ragioni, a condannare un modo di vivere nei confronti del quale, in effetti, egli non è abbastanza forte da liberarsene – ma una volta introdotta nell’anima come pensiero, quella virtù avrebbe mostrato sin dal principio la sua forza trasformatrice.

L’importanza attribuita a dhâraṇâ e a dhyâna, ossia alla concentrazione e alla meditazione, nei testi tradizionali può essere scorta nell’esperienza attraverso la quale l’uomo realizzava il suo essere: nel pensiero egli viveva, per così dire, come in un organismo sottile non limitato alla testa, bensì pervadente l’intero suo corpo e la sua anima.

Lo Yoga, la dottrina dei chakra, la nozione delle nâdî, e il lato pratico dello shaktismo sono intesi nell’Induismo a “corporificare lo spirito e a spiritualizzare il corpo”, e possono essere giustificatamente messi in relazione con l’idea dell’antica identità tra l’essere e il pensare. Il mistico realizzava se stesso nel pensare e sentiva ch’egli non era, allorché era cosciente unicamente del suo corpo; egli si sentiva disperdere e quasi svanire nel processo sensorio, laddove invece egli sentiva il proprio essere integrale, mentre era impegnato nel pensare meditativo. Per lui l’essere era pensare e il pensare essere. Al di fuori dell’attività interiore suscitata dal pensare egli non era. All’interno di essa, egli percepiva il proprio essere, la propria vita. Nella meditazione l’uomo viveva realmente. In altre parole, le astrazioni erano ignote all’asceta antico, poiché il pensiero era volontà, al tempo stesso che jñâna era autorealizzazione.

Solo dopo la nascita del pensiero riflesso, dialettico e filosofico, l’essere e il pensare si scissero in due funzioni distinte. La vita e le idee vennero tenute separate, finirono in posizioni contrastanti, e sorse il problema della loro relazione, che da allora è stato il secolare problema della filosofia, sino alle sue ultime manifestazioni. L’esistenzialismo solleva nuovamente il problema non con l’intenzione di risolverlo, bensì con quella di soffiare nuovamente sulla mala fiamma della dualità mediante una dialettica trincerata, esasperata.

La disputa, lungamente condotta, sembrò  trovare la sua soluzione in un momento dell’evoluzione del pensiero occidentale, allorché Cartesio pronunciò il suo cogito, ergo sum. Ciò portò a ulteriori discussioni, ma non cambiò nulla, in quanto quel “cogitare” e quel “esse” erano in se stessi espressione della frattura tra “speculare” e “vivere”, ch’egli intendeva risanare. Se un discepolo del Buddha avesse potuto parlare a Cartesio, avrebbe potuto dirgli: “Tu non puoi essere nel tuo pensare, perché  il tuo pensiero non è, poiché esso è un mero riflesso. Perciò, quando pensi, tu non sei, proprio come l’immagine riflessa da uno specchio non è, anche se essa appartiene ad un oggetto reale”. Cogito qui significa “non entia coagito, ergo non sum”. (Michelstaedter).

È una questione vitale, scottante, che sta alla base dei più tormentosi problemi attuali, in quanto noi vediamo ancora l’essere fuori del pensare, cosicché si cade inevitabilmente o in un realismo materialista, o in un realismo metafisico, i quali riconfermano ambedue la dualità, l’astrattezza,  e il limite.

L’Idealismo, e i suoi sviluppi sino a Giovanni Gentile, sembrarono avere bandito l’ “essere” come oggetto di ogni discussione razionale. Esso potrebbe al massimo essere oggetto per il meditare, o la molla per un nuovo tipo di azione, basata sulla forza di alcune intuizioni razionali già acquisite. Ma l’esistenzialismo lo risollevò nuovamente come problema centrale del suo orientamento, e Martin Heidegger poté riscoprirlo e riportarlo alla luce, come se nessuno lo avesse prospettato e dialetticamente risolto prima. La ragione per cui questo problema viene sempre riproposto di nuovo e non viene trovato alcun indizio alla sua soluzione, deve essere scorto nello stato attuale del pensiero umano: pensiero disanimato, privo della dimensione della profondità, anche se può brillantemente dissertare sulla profondità.

Indubbiamente Hegel toccò il soggetto, sebbene non lo portasse alle sue estreme conseguenze. “L’essere”, dice egli nella Scienza della logica, “è una pura intuizione, e tale è anche il nulla in quanto semplicemente identico all’essere”. Ovviamente, pura intuizione qui è intesa a significare un pensiero che si esaurisce completamente nel suo oggetto ideale. Ma questa è precisamente la ragione per la quale esso non si esaurisce, bensì riemerge oltre la contraddizione e nel suo ri-emergere, anche se in un lampo che è breve se misurato in tempo umano, è uno con l’eternità. L’ulteriore manifestazione nella quale l’essere è pensiero che percepisce l’essere, non può essere considerato implicito nella dialettica di Hegel, né nell’autocoscienza di Fichte, né nell’identità di Schelling. Tuttavia, l’intera filosofia dell’idealismo è un anelito sublime verso una sintesi di essere e di pensare, tuttavia soltanto un anelito, senza il costante perseguire il fine della sua realizzazione.

Quella realizzazione, ovviamente, non può essere il frutto di un’ulteriore speculazione. Il sentiero delle ragioni e delle argomentazioni dilegua nell’indefinito della razionalità, mentre tutto annuncia che lo Spirito deve divenire esperienza o vanificare nel regno degli fantasmi. L’idealismo o la filosofia, che è la stessa cosa, in quanto non c’è filosofia che nella sua essenza non sia idealismo, dovrebbe esser capace di concordare postulato che il pensiero non sia una funzione meramente soggettiva, in quanto nel suo esser prima di venire assunto dal soggetto, l’uomo, esso è una forza universale, cosmica, sovraindividuale, una realtà spirituale, essere; essere nel quale l’uomo può essere, senza il quale egli non può essere; e in effetti egli non è, poiché il pensiero è pensiero riflesso, poiché egli è sempre proteso verso fondamenti esteriori, miti, esseri o rivelazioni, senza realizzare che quelli, nella misura in cui sono oggetti del suo pensiero, sono pensiero essi stessi. Pensando, io non sono al di fuori della realtà, in quanto i pensieri appartengono alle cose, anche se essi sorgono dentro di me: l’anima delle cose trova la sua espressione in me attraverso il mio pensiero, certamente non attraverso il pensiero riflesso, bensì attraverso il retto pensiero, che può essere identificato con quello che Shri Aurobindo chiama “Pensiero Paracleto”. Affinché l’anima delle cose possa rivelarsi in me come pensiero, quel pensiero non devo sfuggirlo, bensì devo soffermarmi in esso. Devo fermare il flusso concretamente reale del pensiero, accoglierlo in me come forza, vivere con esso. Questo è ciò che significano concentrazione e meditazione. Saltare da un pensiero all’altro, in un permanente divagare, in una continua incapacità di controllare e contemplare, cosicché solo la superficie delle idee ci attraversi sorvolando come astrazione o l’ombra dello spirito: questo è il pensare volatile, riflesso, divagante, infecondo, irreale, al quale devo necessariamente opporre un essere un “Dasein”, un esistere, una materia, una realtà, che mai estinguerà la mia sete, in quanto non possedendo il tipo di pensiero che loro appartiene, sono per questo tagliato fuori dalle cose, dall’esistere, dalla vita.

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È ovvio che, se quel tipo di pensiero impotente usualmente rivolto ad una vita irreale, si volge ora a considerare l’Ottuplice Sentiero, non può vedere in esso altro che una serie di regole, apprezzabili unicamente dal punto di vista morale, cosa che oggi lascia più che altro freddi. Il pensare non è l’essere, l’essere non è il pensare. Perciò il pensiero, per es. quello della retta azione, può dar via soltanto ad astrazioni circa il giusto modo di fare le cose. Tuttavia se ammettessimo che un discepolo del Buddha potesse mettersi in quella condizione nella quale il pensare era una forza vivente, diverrebbe allora comprensibile come per lui il meditare sulla retta azione significasse cogliere al tempo stesso il principio dinamico necessario a compiere quel tipo d’azione.

Chiunque studi testi come l’Anguttara, il Majjhima Nikâya e l’Abhidharmakośa troverà ovvia questa identità tra l’essere e il pensare. Attraverso di essa, l’asceta poteva avvertire nel suo pensare la corrente della vita, e con ogni pensiero egli accoglieva  un elemento di potenza della volontà. Vasubandhu, per esempio, afferma che l’atto del pensare (vitarka) è l’espressione dell’organo del pensiero. Egli traccia, inoltre, una distinzione tra il pensiero sottile e quello ordinario. Quello è una sorta di pensiero spirituale. Tale distinzione è ancor oggi necessaria per indicare fino a che punto i contenuti sperimentati in una regola ascetica possano accordarsi al livello di coloro che si conformano ad essa.

Se accettiamo la validità di questa osservazione nei confronti di qualsiasi dottrina spirituale, essa può condurci a distinguere chiaramente il valore di un principio morale basato sulla sua realizzazione e sulla sua pratica concreta da qualsiasi altro, prodotto dalla umana capacità di astrazione. Quanto all’Ottuplice Sentiero, non ci deve trarre in inganno la sua semplicità. Nel caso esso venisse esposto da qualcuno che lo avesse realizzato in se stesso, dovrebbe essere valutato secondo il metro dato sopra, ovverossia in quanto espressione di un mondo spirituale, piuttosto che di logica umana. Il retroscena interiore delle otto attitudini dovrebbe essere sperimentato mediante meditazione, onde possa scaturire il senso del loro accordo. Quel accordo, una volta conquistato mediante intuizione, se afferrato e richiamato spesso alla mente nella sua luminosità fulgurea, può improvvisamente fluire nell’anima del ricercatore come forza di determinazione interiore: proprio il tipo di determinazione interiore necessaria a seguire regolarmente ognuno degli otto sentieri.

L’Ottuplice sentiero non scaturisce dalla moralità, bensì forze morali scaturiscono da esso. Grazie al Sentiero l’uomo non è legato ad una regola, bensì deve egli stesso creare la regola in ogni singolo caso. Dunque è soltanto un metodo verso la conseguimento della Sapienza. In questo senso sono da ricordarsi le parole di Aśvaghoṣa: “La Sapienza ha la facoltà di penetrare i dharmâ così come essi sono, e la funzione di disperdere la tenebra dell’illusione che avvolge i dharmâ e cela la loro essenza”. Chiaramente questo riconoscimento dei dharmâ porta alla conoscenza della legge del karma, così come indicheranno in seguito gli Yogacârin trattando dell’âlayavijñâna. D’altronde, le antiche dottrine buddhiste parlano dei “tre segreti”, del pensiero della parola e dell’azione, e li concepiscono come limite alla trama e al tessuto invisibile del karma. Ogni “fatto” o karma viene visto come un “atto” spirituale. Nei “fatti” il karma si mostra e al contempo si cela. Un essere umano, impigliato nella rete della mâyâ, scambia i “fatti” per la verità evidente e perde la possibilità di osservarli dall’altezza di un “atto” interiore. Ma grazie ad un “occhio interiore” dischiuso, l’iniziato può osservarle come lettere di un alfabeto sovrasensibile attraverso il quale il karma trova la sua espressione, rivelando il segreto della sua precedente incarnazione e il suo sentiero futuro. La via che porta alla liberazione può essere vista solo con occhi chiarificati, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι. [hòson t’epì thymòs ikànoi, “sin dove l’animo giunge”] (Parmenide, I).

Appare, dunque, come unicamente una serie di “atti” interiori possa smascherare la catena dei “fatti”, della quale l’esistenza samsarica è intessuta, quest’ultima essendo la catena senza fine di fronte alla quale ogni individuo si ritrova con la stessa avversione e con gli stessi problemi, con tutte le situazioni ricorrenti di sofferenza e di impotenza. L’uomo necessita della pratica paziente, persistente, di atti interiori mediante i quali egli può lottare libero da avijjâ, da memoria samsarica, da tutto ciò che lo vincola al suo apparente strumento corporeo (skandha, vâsanâ, saṃskârâ), e rivivere in se stesso la propria memoria spirituale (l’ἀνάμνησις [anàmnesis] di Platone), cioè il ricordo della sua natura primordiale, conducendo alla liberazione. Questo è il senso dell’Ottuplice Sentiero: che abitudini mentali, complessi, routine, costituiscono una “memoria” che lega l’essere umano ad una natura inferiore, che non è il suo destino, con la quale egli si identifica ciecamente. Persistere per mesi, per anni, in una serie di atti mentali, voluti indipendentemente dalla propria natura, può spezzare la catena di abitudini e rendere il discepolo capace di estirpare la falsa memoria, rivivendo in suo luogo la reale memoria dell’uomo. Così l’Ottuplice Sentiero implica la creazione di nuove “abitudini”, che portano a rivivere lo “stato primordiale” dell’uomo.

Il termine “memoria” non è stato scelto a caso. Da una parte, esso riflette l’idea che un gruppo di abitudini inconsce, che tendono a ripetersi ciecamente – i vâsanâ e i saṃskârâ della dottrina buddhista – dall’altra, esso è spesso usato dalla moderna psicologia nello stesso senso riguardo all’azione di “riflessi condizionati” e alla vita dell’“inconscio”. Delay la chiama “memoria inferiore”, il che equivale affermare la mancanza di una “memoria superiore”, la quale caratterizza, invece, il vero essere umano.

A questo punto, l’uomo moderno può trovare una via per comprendere e, nel caso, praticare l’Ottuplice Sentiero, per quel che di verità vivente esso ancor oggi contiene. Esso conduce ad un risveglio della memoria spirituale, che già è sveglia nella sfera sovrasensibile di ogni essere e dorme nell’incoscienza, sopraffatta da una falsa memoria che impone, da una zona più profonda, tutte le “associazioni” e persino pensieri. Quella dimensione interiore, che manca alla moderna psicologia, l’uomo potrebbe trovarla nell’Ottuplice Sentiero, così come egli potrebbe rivivere nel suo pensiero la relazione reciproca, che le otto attitudini hanno tra di loro, sino a che essa non scaturisca improvvisamente nell’anima come una forza alla quale egli potrebbe attingere per praticarle una per una.

Per raggiungere ciò, l’occidentale dovrebbe, come ho detto sopra, meditare sulle singole otto attitudini, così da averle continuamente presenti nella sua coscienza, sino a che esse possano, ad un determinato momento, muoversi e combinarsi da sé nella sua anima, disvelandogli così la loro reciproca relazione interiore, la loro natura univoca, come fossero raggi irradianti da un unico centro. Naturalmente, un tale esercizio è inteso a superare la scissione tra “essere” e “pensare”, cui ho accennato più sopra, e che non era un problema per i discepoli del passato. Il nostro pensiero disanimato attingerebbe ad una nuova sorgente di vita mediante la meditazione. Così la corrente della  volontà fluisce nel pensare e lo solleva al di sopra dei consueti processi cerebrali. Così vengono poste le condizioni per le rette attitudini.

Per esempio, se l’uomo moderno volesse seguire il sentiero del “retto giudizio” e tentare di rettificare ogni suo giudizio, attraverso lo sforzarsi a quel pensare cosciente cui ho alluso, noterebbe che il giudizio può essere all’altezza della verità del suo oggetto, unicamente allorché può affermare l’elemento eterno che l’oggetto contiene. Un tale giudizio non potrebbe più condannare alcunché, in quanto inevitabilmente sposerebbe l’essenza di bontà e di bellezza presente comunque in ogni cosa oltre la sua apparenza.

Il sentiero del retto giudizio implica, dunque, un’atteggiamento di positività nei confronti di tutti gli esseri e di tutte le cose.  Una tale modo di pensare dovrebbe essere nutrito attraverso una costante percezione del lato buono e luminoso dei fatti, delle cose e delle persone, in particolar modo quando ciò è arduo a trovarsi. Non intendo dire che l’occasionale lato oscuro di una cosa dovrebbe essere trascurato, ma che la critica “spontanea” dovrebbe essere smorzata e l’attenzione deliberatamente diretta  verso gli aspetti positivi. Questa volontà rafforza la nostra facoltà di guardare al lato favorevole, costruttivo, che non può mancare e non deve essere creato dalla nostra immaginazione, bensì osservato e afferrato nella sua concretezza, oltre il lato negativo che generalmente ci colpisce per primo. Questo sarà il principio di un comportamento in armonia con lo spirito, attraverso il quale non possiamo accostare alcunché in maniera svalutativa, in quanto ogni complessità [poliedricità] può essere ricondotta ad un tutto armonioso.  Lamentarsi del lato negativo delle cose è tipico del punto di vista umano e deriva dal nostro atteggiamento generale verso l’esperienza. È una inconscia ed egoistica severità con il mondo, dominata da idee preconcette che nascono dalle esperienze passate. Colui che possa liberarsi di quelle idee, sarà capace di formarsi ed avere un giudizio autonomo, i.e. un retto giudizio: egli non giudicherà secondo la nostra consueta deviazione, che ci esclude da un contatto diretto con la realtà.

Gli stimoli del nostro temperamento, della nostra educazione, le relazioni stabilite nella nostra gioventù e la prospettiva delle cose formatasi a quell’epoca, disgraziatamente ci portano a  a guardare le cose e le persone secondo modelli fissi e ci predispongono a giudizî, che dovrebbero sempre essere rivisti alla luce di una sempre rinnovata ragione. Essi sono così profondamente radicati da attendersi da noi soltanto una sorta di reazioni obbligate, il cui automatismo ha acquisito la forza dell’impersonalità. Attraverso la pratica del retto pensare ci liberiamo di essi e guardiamo alle cose in un modo nuovo, tale da arrivare alla loro intima realtà.

A questo punto può dischiudersi l’ “occhio spirituale” e può essere raggiunta la visione diretta attraverso la quale può delinearsi il segreto del karma degli esseri che contempliamo. Ciò è inevitabile in quanto l’attitudine al giudizio spassionato e all’immergersi nella realtà interiore delle cose oltre il loro apparire ci rende capaci di cogliere la relazione sottile tra la loro essenza e la loro esistenza. Il giudizio positivo getta luce su tutto ciò che un essere umano alberga di bene, e ci conduce a vedere il dharma, che opera nei “livelli inferiori”, saṃskṛta, cioè le forze che trattengono quell’elemento positivo dal venire alla superficie. Ci porta a vedere i retroscena che impediscono ad un uomo di muovere lungo la propriaa direzione creativa, secondo il suo dharma superiore (asaṃskṛta, nirvanico). Così noi progrediamo verso la comprensione degli altri e arriviamo ad una più profonda e più costruttiva pratica della verità, e a rendere concreta la pratica dell’amore verso il prossimo (maitrî).

Il sentiero della “retta visione” è simile. Esso porta ad una disciplina delle nostre rappresentazioni, affinché esse possano riprodurre fedelmente la realtà degli esseri e delle cose. Ciò implica soprattutto di non accettare niente in quanto precedentemente giudicato e sistemato, e di rivedere tutte le nostre rappresentazioni e prospettive attraverso il ritornare in contatto con gli oggetti. Se qualcuno, per es. ascolta un giudizio che ha già sentito altrove, dovrebbe osservarlo come se ora lo udisse per la prima volta, e meravigliarsi se questa volta non gli rivelasse qualcosa di nuovo o non gli apparisse in una nuova luce. Questa pratica dimostrerà se alcunché di nuovo è nato in noi stessi, se possiamo capire meglio e più profondamente che non nel passato.

Seguire questo sentiero significa raggiungere una “purificazione” della memoria, in quanto tratterremo ciò che è vero e vivo,  e ci libereremo di quella memoria ingannevole, che è la stratificazione delle nostre reazioni soggettive. Se a qualcosa ci sta dinanzi in un dato momento, e noi vi opponiamo una nozione già acquisita, ci riferiamo automaticamente ad un contenuto della nostra memoria, rinunciando all’esperienza viva. Se, quando ci viene detto qualcosa di nuovo, attingiamo al deposito di idee che abbiamo raccolto in circostanze simili in passato, ci tagliamo fuori da ogni giudizio realmente attivo. Se, invece, decidiamo di riesaminare l’evento in maniera nuova, il giudizio presente, maggiormente obbiettivo, si paleserà di fronte alla percezione. Questo è il metodo per controllare l’ “area”, dalla quale emergono i contenuti della memoria che usualmente affiorano a rafforzare i nostri giudizi stereotipi. Detergere quest’area dalla quale il passato impone le sue esigenze al presente, significa in certo qual modo liberarsi del determinismo del tempo: “il tempo diventa spazio”, ovverossia vediamo il tempo come se fosse disteso nello spazio e a nostra portata nel presente. Il ricordo cessa di essere una morta eco de passato e lascia cadere ogni configurazione che nel passato possa averlo incrostato. Ciò è d’importanza vitale, in quanto noi possiamo rimuovere dalla nostra coscienza un veleno pericoloso, la catena delle menzogne che tratteniamo come memorie. Ma la memoria spirituale, libera dai ricordi ingannevoli, è la forza stessa mediante la quale l’anima realizza il tempo come spazio in se stessa e muove in esso a volontà come in un continuo presente.

Le altre sei attitudini vengono illuminate dal retto giudizio e dalla retta visione. Grazie a quelle, gli ideali della vita vengono riconosciuti per quello che realmente sono, in quanto essi non possono più coincidere con ciò che è impermanente o non affondi le sue radici nell’eternità, e l’anelito umano trova infine il suo scopo. La retta aspirazione diviene una forza che libera l’uomo da ogni miraggio ingannevole, e dai suoi miti inferiori sui quali vengono disperse tante energie umane.

Da ciò nasce l’impulso a non agire più secondo propensione individuale, ma unicamente accogliendo l’interiore richiesta degli esseri e delle cose, il che significa “volere” allo stato puro, vale a dire non aver bisogno di agire sotto lo stimolo del proprio vantaggio o delle proprie preferenze, ma unicamente per amore dell’oggetto. L’oggetto a sua volta, come ho detto sopra,  può essere compreso nella sua realtà grazie al retto giudizio e alla retta visione. La volontà, allorché liberata dai motivi egoico-sentimentali, che sono i suoi stimoli abituali, diviene forte in se stessa e si collega con la sorgente impersonale del suo potere. Il volere umano, si dovrebbe dire, a questo punto quasi coincide col volere degli Dèi.

Il retto volere si realizza nella retta azione, per così dire, in una ora rigorosamente ricorrente corrispondenza tra “potenza” e “atto”. Diviene al contempo chiaro che viene richiesta una maniera interiore d’agire, che è infine retta meditazione, espressa nel mondo visibile nella retta azione. L’azione, in realtà, è di una sola specie: atto dello spirito che a volte porta come veste la contemplazione – o retta meditazione – e a volte l’azione. La sintesi di tutto è nella retta maniera di vivere, che conduce ad un ininterrotto accordo tra retta meditazione – nella quale confluiscono retto pensare, retta visione e retto volere –  e retta azione.

Ma la catena di queste sette movenze dell’anima può penetrare nelle profondità dell’essere solo mediante il retto sforzo, cioè attraverso una resistenza paziente portata avanti per mesi ed anni, con impeto imperterrito, e attraverso risoluta devozione, sino a che infine essa non operi come la natura stessa.

A questo punto appare evidente come l’Ottuplice Sentiero non agisca in quanto imperativo morale o sociale, ma per il fatto che esso sia intessuto di una serie di atti interiori, condotti sempre mediante un particolare modo di pensare, che è retto pensiero o pensiero puro. La sorgente dell’intuizione è chiamata sempre a scaturire nell’anima sì da generare le varie attitudini indipendentemente dagli antichi vâsanâ, epperò persino oltre il limite della conoscenza o della sapienza acquisita. Per l’uomo moderno, la chiave dell’intero processo è nella riconquista del pensare in quanto uguale all’essere. Fuori di un “pensiero vivente”, gli otto sentieri non possono restare altro che astratte direttive etiche, le forme esteriori di una saggezza, intesa a celare l’egoismo umano sotto la cornice di una qualche dignità.

Qui la moralità in realtà non è il presupposto, bensì una conseguenza, che non viene neppure posta come un fine, e quindi non è neppure voluta, in quanto l’Ottuplice Sentiero ed il pensiero trasparente, non più legato ad alcuno strumento fisico, divengono il sentiero verso la realizzazione di ciò che la filosofia moderna designa intuitivamente come il “fondamento”: quello che non ha altro supporto che se stesso. In questo senso, il suo conseguimento, come afferma il Buddha a proposito della verità nel Saṃyutta Nikâya, è oltre “ciò che è” e “ciò che non è”, oltre la dualità, cioè oltre quello “stato umano” mediante il quale, secondo Eraclito  “ ἄνθρωπος ἐν εὐφρόνῃ φάος ἅπτεται ἑαυτῷ” [ànthropos en euphròne phàos àptetai heautô, “l’uomo nella notte accende a sé una luce”, in Clemente Alessandrino, Stromata, IV,141, 2].

Alcuni secoli più tardi, Nâgârjuna parlò del Madhyamika, come di un sentiero ugualmente distante dall’essere e dal non-essere, che illustra con precisione intuitiva l’ “area spirituale” dell’esperienza interiore, che può liberare veramente l’uomo dai vâsanâ, dall’antica natura, dal saṃsâra, così come da ogni forma di conoscenza, o anche di saggezza ad essi legata.

Nei confronti dell’uomo, l’Ottuplice Sentiero può essere tradotto in una psicologia aristocratica – o piuttosto che in una psicologia – in una vera scienza dell’anima. Ognuno degli otto sentieri porta alla liberazione di un aspetto della memoria, vale a dire, di ciò che, in quanto “passato”, è presente nell’uomo ed esige dispoticamente da lui determinate abitudini ed una particolare visione del mondo. Allorché è libero dalla falsa “memoria”, l’uomo può guardare indietro alla sua vita e risalire obbiettivamente la catena dei suoi ricordi. Può così volgere all’inizio della sua attuale vita terrena, là dove egli non si troverà di fronte al nulla, bensì ad un Essere reale che viveva in lui prima della sua nascita. Lucidamente, egli può raggiungere la soglia di un’esperienza dell’Io Superiore, di un Essere che gli sta di fronte in maniera reale, indipendente da nascita e morte. Proprio questa esperienza può conferire un senso alla sua vita e rivelargli che l’Ottuplice Sentiero ancora non è stato conosciuto dall’uomo, in quanto esso deve ancora essere percorso.

Massimo Scaligero

7 pensieri su “L’ASCESI DEL RISVEGLIO E L’OTTUPLICE SENTIERO DEL BUDDHA SHAKYAMUNI

  1. Una encomiabile iniziativa quella di tradurre questo importante articolo di Massimo Scaligero. Più volte mi ero cimentata anch’io nella stessa traduzione, sentendo però ogni volta il linguaggio lontano dalla costruzione che l’Autore sicuramente aveva dato allo scritto originale, e quindi ho desistito. Bisogna invece “osare”, come ha fatto in maniera più che adeguata Hugo de Paganis, per permettere di leggerlo e apprezzarlo anche a chi non conosce l’inglese, o a chi, pur conoscendolo magari in maniera scolastica, fatica a comprenderlo del tutto, e dopo aver iniziato la lettura desiste a metà della prima pagina…

  2. Cara Marina, grazie delle tue parole, che eliminano in me l’apprensione per l’essermi cimentato con un compito che francamente pensavo superasse le mie poche forze. Che dire, se non grazie per il non meritato encomio e per l’incoraggiamento, del quale c’è sempre bisogno?!

    Ho fatto solo del mio meglio, ed ho accolto nel silenzio della mente e del cuore l’ispirazione che talora mi giungeva come insperato aiuto da una zona più alta. Il pensiero di Massimo Scaligero è non solo la sfida interiore più audace per chi oggi cerca di realizzare lo Spirito, ma anche la terapia più efficace e radicale per i troppi mali che affliggono gli umani in questi tempi agitati e violenti!

    Possano molti giovarsi delle indicazioni operative che il nostro Maestro ha donato con illimitata generosità! E come liberamente abbiamo da lui ricevuto, altrettanto liberamente, per gioioso dovere, cerchiamo di donare a chi ha fame e sete di verità e Conoscenza liberatrice! Ma il merito è tutto di chi ci ha trasmesso quello che il nostro Dante chiama il “pan degli angeli”!

    Hugo de’ Paganis

  3. Caro Hugo,
    quello che Massimo ha scritto credo sia fuori da ogni futile commento. Come le sue Opere ed i suoi tanti scritti brevi, di cui in minima parte pure Eco ha pubblicato, ciò che hai tradotto ha solo bisogno di esser letto, compreso e meditato. Meditato almeno a produrre una sintesi viva, davvero viva se riesce a toccare l’anima, sempre troppo immersa nei propri sterili e angusti sogni.

    Quando mi avvicinai a Scaligero, ciò avvenne con un suo grosso libro (La via della volontà solare). Capii poco di quel che leggevo – una riga sì e una no – ma ciò nonostante furono due le cose che la mia sete di ricerca trovò dopo poche pagine: quella più essenziale fu di aver trovato chi lungamente avevo cercato: una personalità che possedeva ciò che scriveva, e non tanto per una vasta e padroneggiata cultura quanto per il (rarissimo) fatto che stava parlando per esperienza diretta: era ciò che cercavo. Sino a quel momento tutto quello che avevo trovato era, nel migliore dei casi, una sapiente esposizione dei testi della Tradizione e, talvolta, sporadiche intuizioni riguardanti i suoi simboli.
    L’altra cosa che irruppe nella mia anima fu una sorta di “paesaggio interiore”: esso veniva alimentato dal modo di scrivere di Scaligero: le parole scelte, le ardite concatenazioni terse, purissime. Era un panorama che, per analogia, può compararsi con le vette, quelle che scintillano oltre le nubi dove i ghiacciai sono un tutt’uno con l’oro del sole. E scusami se il paragone è povero.

    Proprio quella sorta di paesaggio interiore ho ritrovato in questo articolo, perciò credo proprio che il tuo sforzo abbia portato al risultato ottimo!

    Ecco: quando devozione e fedeltà non sono parole vuote…

    • Isidoro, nella mia adolescenza, alimentata in solitudine spirituale dalla pratica delle Vie dell’Oriente, quel che con tutta l’anima chiedevo ai Numi e al Cielo era di trovare un Maestro. Il destino volle che proprio in questi ultimi giorni di giugno, 45 anni fa, l’amico L. mi portasse in Via Cadolini per la prima volta da Massimo Scaligero. Appena entrato e seduto sulla poltrona verde accanto alla stufa a kerosene, sentii dentro di me: sono tornato a casa!
      Per la prima volta incontrai chi realmente, e non dialetticamente, sperimentava ciò di cui parlava. Di libri ne avevo letto un po’, e mi rendevo conto che molti autori, anche in buona fede, rimasticavano e glossavano le esperienze di altri, riportate in antichi testi. Altri inventavano “creativamente”, o addirittura citavano e commentavano quanto scritto e detto da altri autori, i quali a loro volta nulla sperimentavano di quanto discorrevano.
      Massimo Scaligero, invece parlava e scriveva unicamente di ciò che sperimentava direttamente. Incontrarlo fu per me l’incontro con una forza assoluta: una forza che poteva tutto, perché egli chiedeva veramente tutto alla propria volontà consacrata allo Spirito. Egli esigeva inesorabilmente dalla propria volontà il superamento di ogni limite che la natura pone all’umano. L’incontro con lui fu – lo fu ogni volta, sino a quel 25 gennaio 1980, poche ore prima che ci lasciasse – l’incontro con la certezza incrollabile: Massimo Scaligero, come un pioniere in una landa selvaggia, ha aperto un varco e tracciato un sentiero, e noi possiamo passare quel varco, possiamo percorrere quel sentiero.
      Il suo linguaggio, anche nella parola scritta, era la forma più aderente – con algebrica e musicale precisione – all’esperienza interiore ch’egli viveva e che con generosa audacia donava a noi smarriti cercatori. In lui la lingua italiana si è elevata a potenza mantrica, proprio per il suo “incantare”, onde sia poi risuscitato, nella forma verbale, il risuonare magico e solare dell’autentica esperienza spirituale vissuta. E l’immergersi meditativo nella trama aurea dei suoi pensieri, sino a riviverne in momenti di culminazione il momento genetico, è come volare su immacolate giogaie himalayane, ove la luce del Sole e il rilucere delle stelle incontra la neve e il ghiaccio inviolati da piede mortale umano. Altro non posso né saprei dire.
      Isidoro, chi acanto a Massimo Scaligero ha respirato l’atmosfera del pensiero puro, ed ha visto sorgere nell’anima quello scenario al quale alludi, si richiamerà sempre ad essi, nel Rito della memoria, per ritrovare ogni volta l’impeto e la trasparenza interiore necessari a portare il cercatore spirituale alla mèta!

      Hugo de’ Paganis

  4. Posso dire che Isidoro e Hugo sono i fiori che Eco con la sua dimora fa sbocciare, per la gioia e la sete di sapere che i nostri lettori hanno. Poi noialtri di contorno si fa del nostro meglio per tenere il giardino in ordine, magari anche con qualche contrappunto.
    Hugo carissimo e Isidoro carissimo grazie per la vostra dedizione continua alla esatta indicazione di cio’ che Massimo Scaligero ha offerto, e offre di continuo. Grazie anche alla signora Sagramora per il suo incoraggiamento.

  5. Scusate se ritorno. Proprio ora mi è giunto un messaggio da una persona che considero (interiormente) importante.
    Avrei voluto incollarlo qui, ma io non posso farlo. Pazienza! Ricopio parte del messaggio:

    AL DI LA’ DELLE BATTUTE CHE POCO INCIDONO SUI DESTINI DEL MONDO, VOLEVO SOLO PREGARTI DI RINGRAZIARE DA PARTE MIA HUGO PER L’ARTICOLO DI MASSIMO.
    PER ME E’ STATO UN DONO UNICO CHE MI HA APERTO UN MONDO (E FUTURE RINNOVATE FATICHE). OLTRE OGNI PERSONALISMO QUESTO ARTICOLO MI HA MOSTRATO, ANCORA UNA VOLTA, LA GRANDEZZA DI MASSIMO.
    HO ADDIRITTURA CAMBIATO IL MIO APPROCCIO AI 5 ESERCIZI CHE; ALMENO NEI TEMPI NOSTRI, NON SI POSSONO ATTUARE SENZA LA CONCENTRAZIONE.
    ESSI SONO LA SUA PRASSI, LA SECONDA PARTE DELLA FILOSOFIA DELLA LIBERTA’.
    QUESTO COLLEGAMENTO SEMBRA OVVIO MA LO E’ QUALORA DIVENTI ATTO E NON SOLO “COMPRENSIONE”.

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