Quanto scritto da Isidoro e da me su questo blog in vari commenti all’articolo MASSIMO SCALIGERO: APPUNTI E PENSIERI DA R. STEINER, e poi da me nell’articolo MASSIMO SCALIGERO SU P.M. VIRIO, ha suscitato in alcuni lettori il desiderio di poter conoscere quanto scritto da Massimo Scaligero su Paolo M. Marchetti, «Virio», divenuto in seguito cognato di Massimo Scaligero, avendone sposato la sorella Adelina, «Luciana», nonché sulla torbida figura del conte Umberto Alberti, «Erim di Catenaia». Tale legittimo desiderio da parte di ricercatori spirituali di quel Verbum dimissum del quale parlava nel XV secolo quell’autentico Maestro dell’Ars Regia, che era Bernardo Trevisano, è giusto che venga soddisfatto.
La Parola perduta, che Rudolf Steiner ci aveva riportato, è stata dopo di lui troppe volte di nuovo smarrita, per la superficialità, l’approssimazione, l’ignava accidia, il sentimentalismo, il vacuo intellettualismo di molti che dicono di richiamarsi al suo nome. Tale Parola perduta – il filo aureo della Via del Pensiero Vivente, che percorre l’intera Opera del Maestro dei Nuovi Tempi – è stata ricercata e novellamente ritrovata da un Iniziato dell’Arte Regia come Massimo Scaligero, che ce l’ha ridonata, indicando in ogni rigo dei suoi scritti l’urgenza dell’Ascesi liberatrice del pensiero, la pratica della Concentrazione e della Meditazione, come sola Via per la resurrezione del Pensiero Vivente dal cadavere del morto pensiero riflesso. Oggi non vi è altra Via che conduca all’autentica esperienza sovrasensibile e all’Iniziazione.
Affinché il lettore possa farsi a questo proposito, in piena libertà, un personale giudizio autonomo, ecco la trascrizione dei tre scritti di Massimo Scaligero su P.M. Virio, dei quali parlavo nel suddetto articolo. Il primo è la Prefazione al romanzo esoterico Il Segreto del Graal, pubblicato nel febbraio del 1955. Il secondo è l’opuscolo commemorativo, scritto su richiesta di sua sorella Adelina da Massimo Scaligero subito la morte di Virio, surrettiziamente introdotto nell’attuale edizione di Dallo Yoga alla Rosacroce e spacciato per un capitolo originariamente previsto per il libro e poi non pubblicato, il che – a quanto mi risulta – è il contrario della verità. Il terzo è la trascrizione del dattiloscritto, datomi personalmente da Massimo Scaligero, e da lui commentatomi, che rappresenta il vero capitolo che doveva essere pubblicato nel suddetto libro, e che per la sua causticità alcuni suoi familiari chiesero che non venisse pubblicato. Ma oggi – in difesa della Verità e per gratitudine verso il Maestro – è giunto il momento che questo scritto, nonché gli eventi ai quali allude, sia conosciuto.
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Prefazione
[dal libro di Paolo M. Virio Il Segreto del Graal, Casa Editrice Rocco, Napoli 1955]
Nel mondo delle dottrine esoteriche non si può fare a meno di rilevare un equivoco generalmente invalso: ci si volge al Mondo Spirituale, o alla Tradizione, o allo Yoga, con un’attitudine conoscitiva che ignora la mutata costituzione interiore dell’uomo moderno rispetto a quella dell’uomo antico, al quale la Tradizione, ove talune condizioni fossero presenti, parlava senza mediazione alcuna. Si coltiva la conoscenza di certe dottrine con lo stesso modo di conoscere che si è formato nella esperienza del mondo transeunte e finito: per tal motivo il ricercatore si comporta con lo Spirituale non diversamente da come il positivista moderno si rivolge al mondo dei fenomeni: cambia soltanto la forma del limite, ossia l’oggetto, rimane l’alterità.
Si prendono le mosse da un “oggetto spirituale”, ben descritto, messo a fuoco secondo un sottile criticismo esoteristico, e si crede, in quanto sia così ben fissato, di poterlo in un secondo tempo afferrare, senza avvertire che per una effettiva comunione col sovrasensibile non conta l’oggetto della meditazione bensì l’atto interiore così suscitato. L’oggetto non è che mezzo, pretesto: può essere albero, sole, Tradizione, concetto, cosa tra le cose.
Non v’è da cercare il Mondo Spirituale fuori dall’attività meditativa che lo sollecita, perché in tale attività il Mondo Spirituale già si esprime: considerarlo come un “oggetto”, che stia lì in attesa di essere conosciuto, per cui possa o non venir conosciuto, è atteggiamento non dissimile a quello del realista ingenuo che crede di avere dinanzi come realtà in sé una materia, una “natura”, e si vieta così l’atto della conoscenza.
Simile chiarimento va applicato al tema della Tradizione. Non può esistere Tradizione fuori dall’atto dello Spirito che la fa risorgere in sé: qui soltanto vive la Tradizione. Si tratta di accorgersene: credere che esista una Tradizione che stia innanzi a noi come una “cosa”, con un suo aspetto misterioso che può anche essere identificato, per cui ci si possa accostare ad essa oppur no, si possa essere fuori o secondo la sua “ortodossia”, significa ingenuamente scambiare un oggetto o un pretesto dell’attività spirituale per lo Spirituale medesimo: il che è qualcosa come un naturalismo metafisico. Molta confusione e debilitazione sono state recate nel mondo degli studiosi di scienze tradizionali da certo criticismo esoteristico, tecnicamente perfetto, ma privo della coscienza critica stessa del proprio processo conoscitivo.
È evidente che l’Autore di questo “Il Segreto del Graal” ha saggiamente evitato di fissare in forma dottrinaria, e perciò in un dialettismo critico, gli aspetti di una esperienza interiore che non potrebbe essere delimitata in concetti senza venir snaturata.
La forma della narrazione è stata intenzionalmente lasciata nella fase intuitiva e, diremmo, impressionistica, senza elaborazioni che non riguardassero il contenuto esoterico. Ma una simile immediatezza, passando da visione a visione, di sequenza in sequenza, giunge talora al limite ove alita l’inesprimibile.
Massimo Scaligero
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P. M. VIRIO
(1910-1969)
Tra me e Paolo Marco Virio – al secolo Paolo Marchetti, romano – ci fu una di quelle rare amicizie spirituali che, mentre si svolgono sul piano umano cosciente attraverso consonanze e contrasti, in realtà hanno il compito supercosciente di preparare la funzione della comunità umana per i tempi, il cui senso può essere compreso alla luce dell’Apocalisse di Giovanni. Del resto, oltre colei che è stata la compagna interiore epperò l’anima complementare della sua esperienza “binomiale”, io so di essere stato l’amico più vicino che egli avesse, malgrado le nostre diverse scelte di “metodo” e di tipo di “visione” metafisica. Una concordia superiore ci univa, la più vera, perché non era un dato della natura, bensì un atto interiore consapevole, ogni volta rinnovato.
Virio veniva dagli studi classici, compiuti presso i Domenicani. Quando lo conobbi, nel 1932, egli aveva già dovuto impiegarsi perché, rimasto orfano, gli era stato necessario ben presto assumere responsabilità familiari. Continuava a studiare, frequentando assiduamente la Biblioteca Nazionale, non tanto per estendere il proprio sapere, quanto per sviluppare un piano di conoscenza già in lui maturante in ordine alla ricerca sovrasensibile.
Sin dai primi nostri contatti si accese tra noi una simpatia profonda, alla quale si aggiungeva il fatto che egli mi considerava suo maestro: atteggiamento dal quale facilmente venne affrancato anzitutto da me e in seguito grazie ai contatti che insieme avemmo con il Conte Umberto Alberti di Catenaia (Erim), patrizio fiorentino, e con la sua consorte Ersilia, i quali insieme perseguivano una via esoterica cristiana mirante a restaurare l’accordo originario della coppia umana. In tal senso l’Alberti era detentore di un riservato insegnamento tradizionale, che non ebbe difficoltà a comunicarci. L’insegnamento aveva il fascino di una fusione della Tradizione ermetico-alchemica con la vivente attualità dello Spirito cristiano, che io trovai illuminante, ma al tempo stesso necessitante di un compimento “tecnico” di tipo moderno nel senso di una noesis operativa, mentre per Virio fu il veicolo immediato di una connessione più profonda con l’Alberti, che divenne in tal modo il suo reale guru.
A quei tempi, dal 1933 in poi, attorno agli Alberti si formò un cenacolo, cui prendevano parte, oltre noi tre, altri due personaggi, Emilio Angelini e Giulio Daneri, il primo non molto persuaso delle dottrine dell’Alberti, tanto che ben presto si dileguò, il secondo invece aperto ed entusiasta. Giulio Daneri era libraio, rivenditore di libri, un’anima candida e fervida, che per anni prese parte alle nostre riunioni in casa di Virio, a Via Sant’Anna a Roma, e costituì per noi anche un punto di riferimento per un tipo più spicciolo di riunioni, presso la sua “bancarella” a Campo de’ Fiori, o presso il negozio – un autentico “buco” – nella stessa zona della vecchia Roma.
Quando conobbi Virio, egli era già autore di un volumetto di poesia mistica, dal singolare titolo La bestia intersessuale, e continuava a dedicarsi alla poesia come a un mezzo di espressione dello stato interiore. Questo stato era la sua forza, l’immediato assoluto da cui moveva la sua ricerca. La capacità di raccoglimento diveniva in lui il veicolo della preghiera e della contemplazione. Durante tutta la vita, ciò costituì per lui una continuità, una missione che ispirò la sua ricerca sovrasensibile e l’esperienza iniziatica con la sua compagna. Visse con fedeltà tale Ispirazione: era la ragione per cui io potevo essergli fraternamente vicino, pur seguendo una via diversa. Conoscevo la validità della sua via.
La scelta di Virio fu indubbiamente la Tradizione, la Via regale dello Spirito, che affiora attraverso forme varianti in rapporto allo spazio e al tempo, sempre tuttavia permanendo in sé indeterminabile. Ma per Virio v’è un momento in cui l’indeterminabile della Tradizione e il mondo della determinazione coincidono, il Mistero si veste di realtà umana e la storia dello Spirito eccezionalmente appare in tutta la sua potenza sulla scena umana: questo momento è l’incarnazione del Cristo, la sua Nascita e la sua specifica azione dal Battesimo del Giordano al sacrificio del Golgotha.
L’unità e la continuità della Tradizione trovano in Guénon l’esegeta e il metodologo della distinzione tra l’autentico tradizionale e le sue contraffazioni, specialmente riguardo all’epoca moderna. Virio non può non consentire a una tale distinzione, che investe tutta l’opera del Guénon, né può non riconoscere in J.Evola la presenza di un’analoga identificazione del Tradizionale. Ma per lui v’è qualcosa che manca in Guénon come in Evola, sia pure in misura diversa e con senso diverso: il riconoscimento della sintesi della Tradizione, allorché essa si presenta come Evento-simbolo visibile nella comparsa del Cristo, nella Morte e nella Resurrezione: un’Iniziazione umano-cosmica, dalla quale la Tradizione assume una funzione determinante, reintegratrice dell’umano, perciò volta alla radice individuale dell’umano.
Nel decorso “tradizionale”, prima del Cristo, l’elemento individuale-umano doveva essere eliminato, perché si verificasse l’estasi, o il samadhi, l’Iniziazione fosse possibile: con il Cristianesimo, l’elemento essenziale dell’individualità, liberandosi, diviene il fulcro del procedimento iniziatico. Per Virio questo procedimento fa del Cristianesimo la corrente novella della Tradizione: certo non il Cristianesimo che, per necessario processo storico, diviene una particolare religione, ma quello che assume la trasmissione del contenuto misterico: perciò la Gnosi cristiana, la Cabala, l’Alchimia, l’Ermetismo, cristiani. Questi, però, sono veduti da Virio come espressioni del Principio della Tradizione, o del Logos, non come ciò che può realizzare l’identità. L’identità è realizzabile solo nel segreto dell’anima dell’operatore spirituale, in quanto egli non si limiti a cercare il Logos in un sistema, o in una corrente, o in un corpo rituale, ma anzitutto trovi in sé ciò che come essenza dell’anima è già presenza del Logos. “Il Regno dei Cieli è dentro di Voi”.
Perciò, a un determinato momento della sua esperienza interiore, Virio si scinde dalla linea di Guénon e di Evola e segue una via autonoma, personale: anzitutto di venerante identificazione del Cristo umano-cosmico e del suo giustificare al livello dell’umana ricerca del Divino, l’universalità in sé compiuta della Tradizione. È questa scelta che da tale momento ci unisce essenzialmente, oltre ogni permanente divergenza di ordine dottrinario.
La divergenza ravvivava di continuo il nostro colloquio umano, ogni volta dileguando dinanzi alla visione metafisica che sostanzialmente ci univa. Dileguava soprattutto allorché la meditazione, per anni praticata insieme, diveniva tra noi un veicolo di confidenza, mediante il quale la mia esperienza interiore a lui appariva chiara e in sé giustificata: così come a me appariva chiara e in sé giustificata la sua necessità di permanere fedele osservante dei Sacramenti della Chiesa. Cattolico perciò nel senso originario del termine, cioè capace di riconoscere tutte le forme della presenza dello Spirito, in Oriente e in Occidente, come aspetti della identica presenza, che centralmente si manifesta come Evento della storia umana, anzi come cuore stesso della Storia, impulso visibile della Tradizione, nella comparsa fisica, nel rito e nel sacrificio del Redentore.
Il senso ultimo dell’opera di Virio è la resurrezione attuale della Gnosi, secondo una continuità, che è la perennità stessa della Tradizione. La virtù di questa perennità, però, accessibile un tempo in forza di una trasmissione trascendente oggi è afferrabile direttamente dal discepolo che consegua in sé la connessione con il mistero del Golgotha. Per Virio, perciò, come risulta dai suoi scritti e dalle sue meditazioni, la Gnosi esprime la perennità della Tradizione, in quanto è Gnosi cristiana. Egli scrisse le sue pagine in funzione di una simile persuasione: il Logos come essenza della tradizione. Logos precristiano che si incarna nel cristo. In tal senso, la Gnosi è cristiana, il contenuto del Graal non è un mito pagano, come tenta con molto ingegno di dimostrare Evola, ma un mito essenziale del Cristianesimo. Così l’Alchimia occidentale è integralmente cristiana.
È decisivo per Virio evitare la scissione della Gnosi dal Mistero cristiano: una simile scissione, che vorrebbe, mediante Evola e Guénon, porre una Gnosi sovrastante come un’astratta universalità tutte le espressioni misteriche d’Oriente e d’Occidente e tutti gli Annunciatori sullo stesso livello, compreso il Cristo, è un errore grave. In verità, solo l’individuale può realizzare l’Universale: certo l’individuale che venga redento dall’”Io sono”. Virio sentiva che il Materialismo della presente epoca trae la sua forza soprattutto dalla scissione tra Universale e Individuale. La Tradizione che ignori la centralità cosmica e storica del principio Logos e del suo rapporto con l’anima individuale, manca di virtù gnostica: non è più la Tradizione, ma l’apparato formale dei riti e dei simboli: il nutrimento dialettico di Spiritualisti a cui interessa, piuttosto che lo Spirito, il sapere spirituale. A tali Spiritualisti mancherà inevitabilmente l’intuizione del segreto della egoità, che in basso è il “malo individualismo”, in alto invece è il fulcro di tutta l’opera, ove realizzi la propria Essenza-Logos.
Certo, una volta riconosciuto come essenza della Gnosi il Mistero Cristiano, il problema del cercatore moderno è ricongiungere la Gnosi con il Logos: operazione esigente anzitutto svolgersi nell’anima individuale, prima che come rito di una comunità. Se la visione della Tradizione, come Impulso che si incarna nel Cristo, ci univa, la divergenza tra me e Virio cominciava là dove è richiesto un metodo, o se si vuole, una tecnica, ai fini del correlativo objectum operativo: ma tale divergenza, come accennavo, non aveva molta importanza. Se ne aveva, era il porre in luce, per contrasto, quel che ci univa.
Io ero persuaso che il metodo per attuare il Tradizionale, o il “metafisico puro”, nei tempi moderni, non poteva essere contenuto nelle forme trascorse della Tradizione, ma doveva “rivelarsi” nella interiorità dell’operatore, grazie a un atto di conoscenza, rinnovante in sé il puro elemento di perennità della Tradizione, ma necessariamente facente leva su quel processo originario del pensiero, che, nei tempi moderni, ai fini della scienza, ha realizzato in basso il massimo del suo potere di determinazione: tale processo, realizzato in alto, cioè svincolato dalle mediazioni sensibili, diviene il veicolo della identità con il metafisico. Per Virio invece permanevano valide le forme tradizionali: era egli però che in sostanza le rinnovava, grazie al suo valore, realizzando una sintesi gnostica comprendente la Cabala, così come l’Alchimia, l’Ermetismo, l’Esichasmo, eccetera. Io ero convinto che una simile via funzionava per lui, in quanto era lui: egli vi portava un impeto di moralità e di dedizione sacrificale che la rendeva giusta comunque. In questo, Virio era meravigliosamente assistito da quell’essere luminoso, in continuo stato di preghiera e di donazione di sé, che era la sua compagna di visione e di vita, “Luciana”, cioè Adelina Scabelloni.
Nell’accennata sintesi era presente anche l’idea della Reincarnazione e del karma, stranamente confutata invece dai due autorevoli interpreti delle dottrine tradizionali, citati: idea inseparabile dalla visione esoterica della vicenda umana e del suo senso ultimo: idea che, sola, oggi può spiegare le differenze esistenziali che hanno la loro ragion d’essere, le diversità dei destini, delle vocazioni, dei livelli mentali, e operare come forza sanatrice dei conflitti umani, reale smobilitatrice degli odi sociali.
Come l’idea della reincarnazione ci univa, così parimenti quella della esigenza di istituire un Ordine iniziatico “attuale”. Un simile tentativo fu effettivamente compiuto: venne anche concepito un rituale, uno statuto, e il movimento – che in realtà non ebbe se non un abbozzo di realizzazione – fu da noi chiamato Ordine Templario Occidentale (OTO). Del resto, in seguito Virio tentò lui personalmente la resurrezione di un movimento essenico, “Centro Esoterico Esseno Cristiano”: iniziativa che per la inadeguata rispondenza trovata esternamente, ebbe a procurargli qualche amarezza. Negli ultimi anni, si accentuò la sua solitudine: i nostri stessi incontri continuavano, ma, a causa dei miei impegni e mio malgrado, meno frequenti: salvo l’estate, quando ero suo ospite nella “Torretta” di Isola Farnese: allora era una felice ripresa del colloquio e della meditazione in comune, cui partecipava regolarmente “Luciana”. Del resto, ogni volta che Virio aveva la possibilità di una villeggiatura estiva, che era in sostanza la scelta di un luogo rispondente alle esigenze della disciplina del silenzio e del raccoglimento, io ero normalmente l’indivisibile ospite. Ricordo un’estate, tre settimane trascorse insieme nell’Eremo carmelitano di Monte Virginio: una reale operazione metafisica compiuta insieme, secondo un accordo che ancora una volta annientava le diversità. Una forza essenziale al disopra di ogni dialettica ci faceva incontrare, ed ambedue sapevamo che il nome di una tale Forza era quello dato nel Vangelo di Giovanni a Colui che era “al principio”.
Rispetto ai “segni dei tempi”, Virio sentiva l’urgenza di ricongiungere l’umano con il Superumano, la natura e la storia, con il Logos: il compito di liberarsi, per liberare. Compito sacro, nel momento più grave della vicenda umana, in cui lo Spirito della menzogna su tutta la terra assume vesti culturali e persino spirituali. Nell’ultimo nostro colloquio questo era il tema: la via era anzitutto ravvisare nell’intimo della coscienza la presenza dell’Essenza di Vita che, pur immanendo nell’uomo, sconfina nell’illimitato mondo delle Forze. A questo punto io affermavo che il compito dell’operatore spirituale consiste nel non illudersi di poter muovere direttamente dalla propria persuasione spirituale, bensì nell’operare con le forze formatrici di tale persuasione: afferrare non tanto lo stato interiore, quanto l’idea da cui questo muove. Per Virio, lo stato interiore nella sua immediatezza era il punto di partenza: la purità di tale stato interiore, per lui, era garantito dalla realtà del suo contenuto, dalla adesione profonda al Mistero Cristiano, cioè alla vera Tradizione, dalla fedeltà alla essenza metafisica di questa e alla sua vivente forma rituale. Egli invero visse e operò, consacrato a un tale ideale.
Massimo Scaligero
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P. M. VIRIO
Tra gli esseri a me cari e dai quali di continuo sarei stato affettuosamente accusato di trascurare la compagnia, c’era Paolo Marchetti, che doveva assumere lo pseudonimo di P.M.Virio in un suo romanzo spiritualistico e in taluni opuscoletti postumi. Egli “esordì” come mio discepolo e debbo dire che era tra i più devoti: poi, nella comunanza con me, frequentando casa mia, conobbe mia sorella Adelina e divenne dopo qualche anno mio cognato. Non è che con questo cessasse di essere mio discepolo, ma si verificava un lieve mutamento del rapporto: doveva subentrare un elemento “umano” che avrebbe in qualche modo condizionato l’esoterico.
Frattanto io mediante un amico, Emilio Angelini, allora costruttore, che incontravo con un gruppo di giornalisti comuni amici alla trattoria romana Mare nostrum in via dei Pastini, avevo conosciuto un anziano occultista, il conte Umberto Alberti, che amava usare lo pseudonimo Erim di Catenaia, per quanto non avesse pubblicato altro che tredici puntate sull’Occultismo su un settimanale non molto diffuso, di cui ricordo soltanto che era diretto dal giornalista mondano, Nino Bolla. Si era nel 1934.
L’Alberti, esoterista cristiano, cabbalista, martinista, coltivava le scienze esoteriche insieme con la moglie Ersilia: una coppia simpatica, ma stranamente collegata con l’Occultismo, perché al livello pratico finiva sempre sul piano delle sedute spiritiche. Peraltro egli, cultore della spagiria “a due vasi”, ossia della via dell’eros verso il sovrasensibile, a causa del fallimento di talune pratiche operative, era afflitto da una sorta di ossessione erotica, per cui tra l’altro la moglie doveva scegliere delle cameriere orbe, sciancate e senza denti, perché egli non subisse eccitazioni nell’ambito familiare: del resto di questa sua ossessione l’Alberti non faceva un mistero e la spiegava non senza un senso di umorismo, da noi condiviso, soprattutto riguardo alle “veneri” domestiche.
Era indubbiamente un uomo di valore, ma non poteva non condizionare il mio apprezzamento circa il suo Esoterismo il fatto che egli trascorresse diverse ore alla finestra del suo appartamento al mezzanino a sbirciare i seni e le anche delle bellocce che passavano. Tuttavia aveva una carica di simpatia e di fascinoso dialettismo esoterico. Come era mio uso, che di un’acquisita amicizia facessi partecipi coloro che erano con me collegati, così presentai Paolo Marchetti, o Virio, al conte Alberti.
La coppia Umberto ed Ersilia Alberti era invero una coppia anziana, in stato di malinconica solitudine e avida di compagnia: perciò si attaccò sentimentalmente a noi. Lui in particolare sentiva di poter riguadagnare un certo livello, comunicando il suo sapere a dei discepoli: ma era evidente che io non potessi diventare un tale discepolo, dati i limiti che scorgevo in quel “maestro”: tuttavia ascoltai con deferenza il suo insegnamento, invero degno di attenzione, e del cui valore dovevo assai più tardi dare un cenno nel capitolo “Eros e spagiria” del mio libro “Yoga, Meditazione, Magia”. Il discepolato invece funzionò con il Marchetti, che si vide sollecitato e lusingato e sottilmente indotto a rendersi indipendente da me: il che io trovai naturale. Cominciai a cogliere nel Virio una certa opposizione, ma non feci nulla per contraddirla: in realtà non ho mai contrastato un discepolo che si invaghisse di altre esperienze, anzi la incoraggiavo, perché sapevo che egli seguendo il suo karma, ma perciò parimenti il suo dharma, in sostanza realizzava ciò per cui si era incontrato con me.
Dopo la morte del conte Alberti, questa opposizione con il tempo doveva talora diventare da parte del Virio qualcosa di più polemico. Già prima, man mano che il conte Alberti gli trasmetteva il suo sapere, io sentivo che questa opposizione ascendeva in lui da una zona profonda della coscienza, più che dal suo mentale consapevole, onde volentieri lo assolvevo: ma in effetto essa veniva corretta e talora temporaneamente eliminata dal Virio stesso grazie a un riaffiorante senso di gratitudine nei miei riguardi e alla fraternità che, fondamentalmente permanendo tra noi, si riaccendeva allorché io trovavo il tempo per incontrarlo. Probabilmente se io avessi avuto la possibilità di vederlo più frequentemente, egli sarebbe stato più buon discepolo nei miei riguardi. Io facevo del tutto per trovare questo tempo, perché sentivo che nei nostri incontri egli riprendeva respiro, ma non sempre ci riuscivo, onde nelle lunghe pause di silenzio si riattizzava in lui la polemica: non riuscivo a farmi perdonare da lui la mia indipendenza. Poiché era un solitario, non molto ricco di relazioni umane, collegavo con lui tutti gli amici che potevo, ma avveniva che a tutti egli tentasse trasmettere la sua opposizione nei miei confronti e con talune personalità più affini a lui che a me, dovesse riuscire. Comunque, la fedeltà del suo discepolato al conte Alberti gli valse l’eredità, alla morte di costui, della sua ricca biblioteca gnostico-martinistica ed ermetico-alchimica, dotata di opere invero rare. Ritengo che questo fosse il colpo di grazia inferto allo sviluppo spirituale del Marchetti, che già trascorreva la sua giornata nel leggere e appuntare: del resto, non v’era novità libraria, di argomento esoterico, che egli sfuggisse, essendo egli altresì abbonato a diverse riviste di studi tradizionali.
P.M.Virio era pervaso dall’aspirazione a essere profondamente cristiano, ma era proprio questo che non poteva non riuscirgli problematico, essendo egli chiuso non solo nel cliché tradizionalista, ma soprattutto nella problematica della morfologia comparata delle mistiche di cui era valente studioso. Egli era avverso a Evola e a Guénon, ma specialmente di quest’ultimo subiva lo schema morfologico-metafisico, per una carenza di vita del pensiero. Si credeva indipendente dal cliché di Evola e di Guénon, ma in realtà ne era improntato in profondità: non riusciva a vedere nel cristo qualcosa di più di ciò che è imposto dallo schema gnostico e dalla mistica tradizionale: ossia vedeva ciò che il Cristo non è più o non è mai stato e che va superato come una medianità di cui il cristiano tradizionale aveva bisogno, non avendo egli altro modo per accogliere forze che trascendevano la sua coscienza. Per me era chiaro che quel rapporto antico non ha più nulla da dare all’uomo: il revivificarlo nei tempi attuali non può che dare luogo a introversione sensuale-mistica, se non a mania fanatica, mentre nuove forze si affacciano nell’uomo, che hanno il còmpito di incontrare viventemente il Cristo: un vero esoterista sa che le nuove forze della volontà e dell’autocoscienza dell’uomo moderno non hanno altro senso, e che tali forze, prive del loro vero soggetto, ossia prive di Io, diventano distruttrici.
L’autentico male dell’uomo di questo tempo è la corruzione delle forze del volere che i vecchi esoterismi, lo Yoga tradizionale, gli schemi della Gnosi, non riescono ad afferrare e perciò neppure a orientare. Il fallimento dell’Esoterismo è un appuntamento mancato con il Logos, ossia con il fulcro trascendente di tutto ciò che si presenta come dynamis spirituale dell’uomo moderno. All’egoismo mistico e alla mancanza del coraggio di uscire dal guscio della propria natura conservatrice spirituale, si deve questa incapacità di riconoscere il Logos vivente. Al Virio interessava trovare il Logos nelle meditazioni oranti, nelle giaculatorie e nelle letture tradizionali: rigorosamente seguiva l’osservanza cattolica, la Comunione, la Messa eccetera.
Tutto ciò, per quanto religiosamente nobile, non è realmente vivo nello Spirito, non è più sufficiente ad afferrare il Cristo: il cercatore del Logos oggi deve superare i vecchi limiti, anzi i temporanei limiti che sembrano ma non sono la Tradizione perenne.
Nelle forze sovrasensibili del Sole che splende, dei ritmi dell’Universo, della natura che crea, del pensiero che pensa, del sentire che sente, del volere che vuole, va incontrata la presenza del Logos, perché tale presenza possa divenire comunione dell’anima con il proprio Principio e perché l’anima, conseguendo la sua reale luce, divenga forza operante nel mondo. Altrimenti essa si sottrae alla sua corrente di vita e nella funzione che le viene imposta dall’umano attuale coopera alla corruzione di tale vita. Così lo gnostico fa l’asceta tradizionale e aspira a una vita dai modi santi, accusando il mondo moderno – secondo la moda esoterista del tempo – della cui degradazione egli senza saperlo è uno dei più solerti artefici.
Quello che invero permane indubbio come valore della personalità di P.M.Virio è la coerenza morale della sua vita: la fedeltà ininterrotta alla propria ascesi, come al proprio dharma, ma perciò stesso al limite che gli vietò di riconoscere la Scienza del Logos dei nuovi tempi: forse perché questa lo incalzava troppo da presso attraverso la mia persona: una mediazione a lui difficilmente accettabile.
Massimo Scaligero
Confermo ciò che Hugo ha scritto, sobbarcandosi la fatica di ricopiare i tre scritti. Confermo soprattutto il fatto che il terzo scritto fosse il capitolo o la bozza del capitolo che Scaligero avrebbe, per sua diretta ammissione, inserito in Dallo Yoga alla Rosacroce. Me ne diede una copia dicendo: “Almeno voi dovete sapere queste cose”.
Di certo lo diede a Hugo, Giotto, a me e a tanti altri. Mi meraviglio che nessuno (così pare, almeno), non abbia chiarito con l’Editore cosa avrebbe potuto essere giusto o sbagliato.
Di questo passo finirà che saremo costretti ad indicare ai lettori i Testi vecchi o di seconda mano e ciò vale anche per le traduzioni dei libri del Dottore. Purtroppo.
Caro isidoro grazie della tua conferma, insieme a quella di Hugo la considero autorevole e utilissima.
E torno a ribadire che oltre a questo errore sui vari scritti in merito a Virio, circolanti, della edizione attuale in oggetto, cio’ che lascia interdetti e’ il cambiamento che e’ stato fatto all’ opera dopo 42 anni! Opera che lo stesso Massimo Scaligero volle pubblicata in un determinato modo nel 72 e cioe’ senza nessuno dei tre scritti su Virio contesi.
Grazie Hugo, la Tua “prefazione” vale già il prezzo del biglietto! 🙂 Chissà che prima di passare la soglia non ci si possa incontrare!
Grazie, Salibus, per le tue incoraggianti parole! Certamente, sarà possibile incontrarsi prima di passare la Soglia! Cosa mai può impedirlo?! Coloro che amano la Sapienza sono uniti da una unica Forza-Pensiero, che fa incontrare la loro libera volontà individuale con la corrente di destino del karma. L’Idea vivente anima le singole volontà, plasma e tesse i destini dei singoli, onde l’incontro di coloro che sono fedeli al “fiammeggiante Principe del pensiero”, a Michael, all’Io Sono, sia reso possibile e si attui.
Hugo, che senza suonare la tromba,
col puro pensier dissolve ogni ombra.
Molto apprezzato! Grazie Hugo