IL VUOTO

asceta zen 4

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Negli anni ’60 del secolo scorso , con le traduzioni di alcune Opere di Teitaro Suzuki, il racconto affascinante di Eugen Herrigel sull’esperienza del tiro con l’arco, la stimolante raccolta di Nyogen Senzaki e Reps di “101 storie zen” e, in fondo scala gli scritti superficiali di C. Humphreys e altri, l’Occidente scoprì un filone nuovo (per la nostra cultura) della corrente buddhista. Col solito schiamazzo confuso: già l’austero professor Suzuki, pasticciando da entusiasta ma con intellettuale astrattezza (T. Suzuki fu professore di filosofia) tra oriente e occidente, credette di trovare identità tra l’illuminazione zen (satori) e l’inconscio junghiano (ancora oggi diverse pseudo-tradizioni vedono nella psicologia junghiana e nel suo promotore un esempio scientifico di spiritualità a passo coi tempi. C’è da rabbrividire! Indubbiamente Carl Jung flirtò anche troppo con la magia –  la sua discepola Marie Luise von Franz affermò che il suo Maestro era capace di predire il futuro – tale da renderlo una  sorta di apprendista stregone mancato, ma in sostanza temette lo Spirito, come certifica la sua vergognosa ritirata a pochi chilometri e a poche ore dall’incontro con Ramana).

Così lo zen divenne talmente attuale da diventare una via che porterebbe all’ “identificazione di sé con la sfera dell’inconscio che circonda la nostra consapevolezza quotidiana”. E’ davvero curioso, ed i tradizionalisti a ragione parlerebbero dei “segni dei tempi”, che anche in sede astratta, cioè senza alcuna esperienza concreta, seri pensatori e frichettoni dell’occulto si alleino a corteggiare “l’inconscio” quasi fosse un dato di fatto inequivocabile, mentre non riescono proprio a partorire una minima, possibile ipotesi di un superconscio. I predatori, chiamati anche psicoterapeuti, dato il loro condizionamento, hanno felicemente risucchiato lo zen immaginario nei loro sistemi ed ecco che frasi come “Uccidere il Buddha”, allusiva al superamento incondizionato dell’alterità , anche quella che si presenta come simbolo/valore più alto, diventa per essi “superamento dell’autorità paterna , processo di individuazione, ecc.” (vi sono delle eccezioni di cui, ad esempio, fa parte R. Assagioli che però conobbe Decio Calvari, Evola, Zanfrognini, Jasink, ecc.  e, per così dire, si fece le ossa nel Gruppo Teosofico di via Gregoriana a Roma).

Cos’è lo zen? Storicamente è una scuola buddhista nipponica, portata dalla Cina dove fiorì con il nome di ch’an e trasmessa al Giappone nel 1215 da Eisai e nel 1227 da Dogen. In sostanza si ispira al mahayana e se ne distingue perché abbandona quel grandioso edificio culturale e metafisico mantenendo l’essenziale: la prassi etica e la contemplazione vuota di oggetti (dhyāna). Non si tratta di “egoistico isolamento”, ciò è un nonsenso perché il fine precipuo dell’ascesi (satori) è il superamento della dualità cosmo – coscienza umana. Dunque il discepolo dello zen guarda con profonda intensità (simpatia) la natura che lo circonda: la goccia di rugiada o il volo della farfalla sono, per la coscienza vuotata dall’io fenomenico e imperdurante, la porta al superamento di ciò che esse appaiono dapprima come manifestazioni di alterità. Alterità che la coscienza vuota non nega nel rifiuto ma risolve nell’esperienza dell’identità metafisica.

La scuola soto raccomanda la pratica zazen, ossia stando seduti (in occidente pure Maestro Eckart scrive: “Ho conosciuto Dio stando seduto”) nella classica asana del loto, disciplinare il soffio, sciogliere il mentale della testa e rintracciare il punto vuoto nell’addome. Individuato il quale, compito essenziale dell’asceta è non impedirgli di crescere, come il feto nel grembo materno e ben oltre affinché la potenza del vuoto, che è il “pieno” dello Spirito, trasmuti sino al sensibile l’operatore che permane come proiezione o lieve simbolo percettibile della completa realizzazione.

Per un approfondimento conoscitivo di base di questa via mi permetto di consigliare il libro di K. G. Durckeim: Hara. Il centro vitale dell’uomo secondo lo zen. In questo libro l’Autore sottolinea con plausibile evidenza critica il ruolo debole ed anti spirituale della coscienza legata alla testa, non avvedendosi però di quanto raffinatamente egli stesso, da occidentale qual è, usi tale coscienza e la razionalità ad essa indissolubilmente legata: chiaramente non avvertendo che il problema, il nodo da sciogliere è interno al sistema di forze che simultaneamente usa e rifiuta (con superiore maestria, Massimo Scaligero approfondisce e supera i limiti della descritta contraddizione nel VI capitolo di Kundalini d’Occidente).

Nella scuola rinzai è invece importante la pratica del koan che moltissimi, anche in occidente, conoscono almeno per sentito dire. Il koan appare come un enigma o un problema insolubile o un paradosso logico o persino un’improponibile bestemmia.

Secondo la volgarizzazione di Masumi Shibata, “il koan è un problema che il maestro dà da risolvere ai discepoli: esso significa documento pubblico” poiché serve a provare l’autenticità dell’illuminazione del discepolo. Da cui poco s’intende; proviamo piuttosto dare al lettore una dettagliata testimonianza diretta dell’esperienza:

Presi il koan “Tutte le cose sono riconducibili all’Uno, dove ritorna l’Uno?” e lo tenni diligentemente. Dapprima la mente s’affollava di pensieri, ma a poco a poco ebbe luogo un cambiamento, finché non fui in grado di sgombrare la mente di tutto tranne il koan. A questo punto non riuscivo ad andare oltre. Tutto sembrava perduto. Mi sentivo inutile, smarrito. Ma ero deciso e mi ritirai in solitudine, in montagna, dove lavoravo e camminavo fino a sentirmi fisicamente spossato, tenendo tutto il tempo in mente il mio koan.

Un giorno mi fermai sulla sponda di un fiume e sedetti spossato. All’improvviso udii, a quanto pareva non con le mie orecchie, il sibilo del vento fra gli alberi. Immediatamente passai dal mio stato di spossatezza a quello che in cui ero talmente rilassato da sentirmi aperto al flusso totale, sopra, intorno e attraverso il mio corpo che era assai più che il mio corpo. Tutto era pervaso di luce bianco – calda ed era come se vedessi l’intero cosmo via via liquefarsi. Come ci può essere tanta luce? Strati di luce su strati di luce, all’infinito. Tutto è illuminazione.

L’impressione dominante era di entrare nell’essenza stessa dell’esistenza – nessuna forma, nessuna personalità, nessuna deità, solo beatitudine. Non so per quanto tempo rimasi in quello stato. Ma, quando ridivenni conscio delle cose che mi circondavano, esse mi apparvero differenti – più vive, non oggetti ma piuttosto processi, costantemente divenenti. Fui preso da un travolgente desiderio di ballare, correre e cantare e gridare, ma riuscii a controllarmi e fui nuovamente colpito da quella intensa illuminazione e beatitudine, più capace, per così dire, d’osservarne il processo in cui ora posso entrare a volontà. Quando tornai nella mia baracca, questi versi sgorgarono da me spontaneamente:

Il sibilo del vento nell’albero

Contiene un altro vento

Che è il sibilo del vento nell’albero.

Nell’albero il sibilo del vento

Contiene un altro albero

Che è il sibilo del vento nell’albero.

Questa è la testimonianza della pratica di un koan e del conseguimento di un “satori di metà percorso” piuttosto notevole poiché vissuta ai nostri giorni, da un occidentale, persino con il canto (gāthā) conclusivo , del tutto conforme alle più antiche tradizioni!

Il koan, in sintesi, è una frase meditativa priva della possibilità di svolgimento razionale e di soluzione logica. La possibilità di venir pensata s’arresta al limite di sé stessa. La fiumana del pensiero dialettico, appena manifestato trova subito un totale sbarramento e la sua enorme pressione naturale è costretta a risalire immediatamente il suo corso. Spesso l’operatore sperimenta la sgradevole impressione che la testa gli stia letteralmente scoppiando! Ed è proprio ciò che avviene spiritualmente. Il discepolo abbandona la testa e scende in un centro diverso, oppure (è solo il punto di vista che cambia) si espande  compenetrandosi con l’immensità lucente del cosmo eterico. Poiché siamo di poche righe sotto la descrizione di un’esperienza che non avete, spero, già dimenticata, vorrei sottolineare che quando si parla di vento o di luce o di esperienze consimili, si parla proprio di vento, di luce, ecc. Certo, non sono quelli di tutti i giorni, ma anzi, una loro caratteristica è quella d’essere più reali. Mi piace ricordare a tal proposito la frase finale di un breve racconto di Fabio Tombari: “Via via ch’egli veniva a coscienza, entrava in , in una luce sonora fra cattedrali di musica: in una dimensione unica; ma tanto solida, che le montagne di  pietra sono materia di sogno”.

Vale anche fare attenzione al fatto che dopo l’esperienza illuminativa, il narratore vede il mondo circostante con maggior vividezza unita ad un’impressione di fluidità e divenire: anche il discepolo della Scienza dello Spirito sperimenta momenti in cui le “cose” assumono una sorta di realtà più intensa dell’ordinario, come affioranti da un substrato scintillante e se il pensare liberato le sgrava dalla densità simultaneamente dona loro una superiore trasparenza e chiarezza. Insomma il mondo noto non sparisce ma si apparenta alla forza del pensiero. Tutto ciò che ci attornia diventa, seppure mutato qualitativamente, persino più reale e concreto di prima. Tanto da concludere che chi pare immerso in profondi pensieri ma trova difficile aprire e chiudere una porta è assai difficilmente ciò che suppone di essere.  Al contrario svaniscono nel nulla tutte le astrazioni e le immagini di comune fantasia; quello che prima ci attirava come stimolo alla ricerca spirituale, ossia i comparativismi, i filologismi, i simbolismi e, non per ultimi, i deduzionismi spiritualistici che allietano i lettori e li erudiscono sui veri segreti dell’esoterismo di piacevole fine giornata, vengono avvertiti come ombre prive di essere, provocanti, al massimo, un certo disgusto o malessere animico Potrei concludere dicendo che, paradossalmente, l’esoterico diventa talmente concreto da superare (in concretezza)  il più tetragono materialista!. Egli segue “naturalmente” una diversa direzione: si esercita a pensare ciò che vede e sente (insomma, quello che c’è), secondo la disciplina del pensare oggettivo, spesso indicata da Rudolf Steiner.

Ma lo zen (perché di quello trattavamo) si lega in una certa misura alla Scienza dello Spirito? Le sue tecniche possono aiutare in qualche modo il discepolo della Via Solare? Se le domande sono di questo tipo, la risposta è una sola, semplicissima: no!

In pratica lo zen, con i suoi zazen e koan è ancora valido per alcune strutture estremo – orientali poggianti la coscienza su un insieme di forze espresse dal ventre (vi ricordate le statuine di panciuti buddha sorridenti?) e non dalla testa, e non basta, ancora capaci di intuire il reale metafisico all’interno di tale insieme. Ricordiamoci che, se l’uomo si sente come un enigma, la chiave per risolverlo si trova sempre dove si situa la coscienza che è anche la coscienza di essere un enigma e mai nelle estrovertite rappresentazioni, anche se nobili e sacre, di mantra, chakra, deva, tanden, prāna, ecc. e tanto meno nella sfera delle sensazioni inusuali.

Eppure lo zen può nondimeno insegnare qualcosa anche a chi si dice discepolo occidentale della Scienza Sacra.

Anzitutto ci insegna l’ essenzialità. “In un piccolo granello di sabbia trovi l’intero universo” Come? Modificando la coscienza che contempla il granello di sabbia  e farla universale.

La coscienza può essere rovesciata come un guanto (l’immagine è analogica ma indica un’operazione del tutto letterale). Però se il guanto è pieno l’impresa è impossibile. Allora lo zen ci insegna il vuoto. Moltissimi desidererebbero vedere la luce spirituale, ma, amici, non c’è spazio: siamo pieni, stracolmi. Vi sono degli esseri (interiormente) grassissimi che non smettono di divorare libri, conferenze, nozioni, indiscrezioni. Mi chiedo se sappiano distinguere la brama bulimica dalla conoscenza. E, visto e considerato che alla fine alcuni di essi (indefessi studiosi!) non distinguono nemmeno la naturale capacità di formarsi immagini da quello stato del tutto diverso di coscienza, chiamato dalla Scienza dello Spirito “coscienza immaginativa” e le sensazioni date dal sistema nervoso turbato, dall’esperienza spirituale del “corpo di vita” o “corpo eterico”; vi sembra forse troppo offensivo se dalla contemplazione di  siffatte tipologie osservo anche qualcosa che è  di parecchio sotto l’umano comune? Casi limite a parte, sono davvero pochi coloro che si avvedono quanto urga vuotare l’anima, sgombrare la coscienza. Non c’è esercizio indicato dallo Steiner: l’osservazione animica del crescere e del deperire, il confronto tra la pietra e l’animale, la contemplazione del seme e della pianta, ecc…, che non riconduca alla capacità di “eliminare dall’anima tutto il resto”.

All’ingrosso: se non siete impostori nati, qualche esercizio lo dovreste fare, magari il primo e il secondo degli ausiliari (controllo del pensiero e atto puro) e, quando il vento è favorevole, una meditazione o qualcosa di simile. Allora vi sedete ed eliminate la percezione del movimento, poi chiudete gli occhi per cancellare gli oggetti che vi circondano, probabilmente avete precedentemente chiuso porta e finestre per ridurre al massimo suoni e rumori. Se a questo punto vi abbandonate al rilassamento di tipo “training autogeno”, siete pronti a tre soluzioni: a) vi addormentate; b) vi fate trascinare nel sogno; c) restate svegli e incapaci come sotto anestesia. Se avvertite che queste forme scientifiche di auto–cretinismo non hanno nulla da spartire con il sano lavoro interiore ciò che vi resta è solo pensiero da attivare e attenzione da concentrare, in cui non trova (non dovrebbe trovare) albergo nulla, assolutamente nulla (nome, indirizzo, sesso, età, carattere, ricordi, umori, funzioni e cariche sociali, desideri, angosce, brame, ecc.) di quanto forma una specie di corpo biografico con cui ci si identifica nella vita comune. Pure l’io “che dite di essere” va fuori questione poiché non potete ripetere a voi stessi “io,io,io” e dedicarvi totalmente all’Immaginazione di Michele o alla descrizione di un portacenere. Insomma dovete energicamente dimenticarvi di voi stessi. Ed è la più elementare condizione di vuoto. Che non è un vuoto fatto di niente perché nasconde (protegge) l’avvento di forze animiche diverse. Già in questo modesto “meno” ci si accorge, chi prima e chi poi , che v’è un “di più”: iniziando gli esercizi l’ego si rafforza e più si rafforza più diviene capace di donare ad altro da sé la propria forza fino a comprendere, in questo dare, anche sé stesso. Gli istanti del suo annullamento sono attimi di una libertà nuova. Perché il “vuoto” si colma di Essere: ciò che all’uomo dolorosamente sfugge durante la vita. Estinguere l’ego per essere, attualizzando il limite del vuoto pensiero astratto; per non rimanere incatenati a quell’insopportabile dualismo personale che Tagore descrive col suo canto d’offerta:                 

Esco solo per andare al mio convegno.

Ma chi è che mi segue nell’oscurità silenziosa?

Mi tiro da parte per lasciarlo passare,

ma non riesco a fuggirlo.

Con la sua superbia solleva la polvere,

ad ogni parola che dico

fa eco la sua voce sonora.

O mio Signore, egli è quel misero me stesso,

senza pudore, ed io mi vergogno

di venire al tuo uscio in sua compagnia.”

Lo zen insegna il silenzio e la sobrietà. Se tali virtù fossero familiari dalle nostre parti, riuscite ad immaginare quante conferenze, seminari, adunate, ecc. verrebbero fatte? E quanti libri sull’occulto verrebbero stampati? Nella globalizzazione del pensiero ottuso (che è peggio del pensiero profano), uno dei tanti slogan criminosi che hanno ostruito le coscienze  è il seguente: “Più è meglio”. Naturalmente basterebbe l’osservazione dei processi della realtà per comprendere che tale affermazione, nella prassi, dovrebbe essere mobile, cioè coerente solo acerti processi e in momenti determinati. Un bravo allenatore di atletica questo lo sa benissimo. Molti ricercatori spirituali invece non lo sanno e non l’imparano mai perché hanno la testa piena di simili sciocchezze e rifiutano la correzione della realtà. Sapete quante opere di Rudolf Steiner occhieggiavano dagli scaffali delle italiche librerie il 27 febbraio 1924, quando Arturo Onofri terminò la sua bella prefazione alla prima edizione italiana della Scienza Occulta? Otto! E posso testimoniare, per conoscenza diretta delle personalità superstiti di quei giorni, quanto intensamente fossero state accolte in quelle anime le vene auree, essenziali, della comunicazione scientifico – spirituale del Dottore. Ora si discute troppo, si legge troppo e tutto è diluito in nozioni che non sono comprensioni. La scena è così ampia e la visione così frantumata che si ignora quale sia il nocciolo dell’Insegnamento: che, inafferrato, porta il ricercatore a svilire tutte le comunicazioni, parificate indistintamente in una sorta di stravagante enciclopedismo da cui attingere “dati” e “curiosità spirituali”. Ho letto persino che un noto scrittore contemporaneo di cose spirituali è esperto in “dottrina delle Gerarchie”, ossia (Gerarchie a parte) nella parente più gradevole del dogmatismo e del catechismo; sintomo significativo di un’antroposofia espulsa dal pensiero e costretta a presentarsi come un concluso assemblaggio di nozioni. Occorre davvero il continuo esercizio di virtù forti come il silenzio e la sobrietà individuale per fronteggiare una simile caduta e seguire ciò   che insegna l’adamantina Via spirituale del Maestro dei Nuovi Tempi con saldo ottimismo, quello che viene dal mondo dello Spirito, quello che permetteva all’antico maestro zen di cantare:

Il tetto della mia capanna

Ha preso fuoco e s’è bruciato.

Nulla è rimasto;

Finalmente posso sedermi nella mia capanna

E vedere le Stelle.

                                                                                                                  

                                                                                                                

11 pensieri su “IL VUOTO

  1. L’immagine riprodotta in testa è quella di Dôgen Zenji, luminosissima figura di Maestro Zen, fondatore nel XIII secolo in Giappone della Scuola Sôtô-Shû, che portò nel Paese del Sol Levante una Via di radicale dedizione alla meditazione. Una Via di Illuminazione estremamente radicale ed esigente. Una figura a me molto cara sin dalla mia adolescenza.

  2. 道元禅師 Dôgen Zenji
    永平道元 Eihei Dôgen
    Questi erano i nomi del grande Maestro della Via della meditazione zen più radicale e fervidamente dedita!

  3. 永平 Eihei significa Eterna Pace
    道元 Dôgen significa Origine del Tao
    禅師 Zenji Maestro del Dhyana-Chan-Zen
    e il suo monastero si chiamò 永平寺 Eihei-ji: Tempio dell’Eterna Pace.

  4. Hugo, l’immagine di cui parli è davvero affascinante. Traspare la potenza di questa individualità.
    Per caso avresti voglia di spendere due parole di più? Oppure se chiedo troppo, potresti consigliarmi un articolo/libro da leggere e studiare?
    Grazie!

  5. Dogen Zenji visse dal 1200 al 1253. Era di famiglia aristocratica, perse i genitori nell’infanzia, e la contemplazione dell’impermanenza e della transeitorietà dei fenomeni dell’esistenza mondana lo spinse alla ricerca di una Via per realizzare l’Illuminazione. Andò sino nella Cina dei Sung, ove contemplò la parziale decadenza del Sangha, l’Ordine Monastico buddhista. Ma a Tientung-sih, incontrò un maestro austero e severo: Ju-Ching, che aveva posto al centro di tutta l’ascesi buddhista la pratica della meditazione intensa e prolungata. Dogen portò in Giappone la tradizione della Scuola Tsao-Tung, che nel Paese del Sol Levante divenne il Soto-Zen Shu. Non accettò mai i favori imperiali e superò stoicamente le persecuzioni alle quali fu sottoposto. Fondò a Fukui, in una lontana provincia di montagna battuta dai venti e dalla neve, il monastero di Eihei-ji, che divenne famoso per l’intensità e il rigore che vi regnava. La pratica meditativa indicata da Dogen porta all’annientamento del mentale dialettico, alla disssoluzione del fantasma dello spazio, dello spettro del tempo, alla realizzazione – attraverso una mirabile forma di Alchìmia spirituale – della essenza buddhica primordialmente presente in ogni essere, e solo velata dalla maya dell’umana ignoranza!
    Hugo con e senza sugo

      • Grazie mille Hugo. Ovviamente, da buon polemico, invito tutti ad aprezzare i commenti scritti qui ed a diffidare invece dalla recente riproposta della disciplina in chiave new age fatta da una nota casa editrice italica 😉

        P.S.

        Avrete notato che mi ritrovo praticamente “obbligato” ad agganciare i miei commenti a quelli degli altri utenti anche quando sono generici (scusa Savitri 🙂 ). Un piccolo bug della versione moblie di WordPress che spero risolveranno presto. Portate pazienza. 🙂

  6. ” Trenta raggi convergono sul mozzo ma è il foro centrale che rende utile la ruota.
    Plasmiamo la creta per formare un recipiente, ma è il vuoto centrale che rende utile un recipiente.
    Ritagliamo porte e finestre nella pareti di una stanza: sono queste aperture che rendono utile una stanza.
    Perciò il pieno ha una sua funzione, ma l’utilità essenziale appartiene al vuoto. ”
    Lao Tse

    • Questa è una corrente un po’ più occidentale 🙂 se ne vuoi parlare nell’ottica dei commenti sei il benvenuto ma eviterei le citazioni nude e crude. Non c’è nulla di male ma è una forma di cortesia molto gradita l’esprimere il proprio pensiero. Siamo tra amici ed è bello parlare e discutere.

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