SCALIGERO, IL MAESTRO DIMENTICATO (di A. Marcigliano)

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È passato pressoché sotto silenzio il centenario di Massimo Scaligero, uno dei pensatori piú originali, intensi, complessi del nostro ’900. Nessuna celebrazione ufficiale, nessuna rievocazione su media e grande stampa. In sé, questa non è affatto una notizia, né, soprattutto, una novità. Scaligero è sempre stato tenuto, in vita e in morte, ai margini della cosiddetta “cultura ufficiale”. Un irregolare, per molti versi schivo, si potrebbe dire anche ironicamente disinteressato alla notorietà, a quel successo per il quale gli “intellettuali” si accapigliano e prostituiscono. Non inseguiva le mode, non blandiva i potenti della politica, della cultura, dell’editoria. La sua prospettiva, l’ottica da cui muove tutta la sua opera, era altra. Piú alta, potremmo dire; piú nobile. E, al contempo, piú “pericolosa”. Laddove, però, si riconduca la parola al suo etimo originario, al latino “periculum”, che sta ad indicare il confine, il limite arduo, rischioso da valicare. Che rievoca, soprattutto, la sfida. E l’opera di Scaligero è stata, e in effetti ancora rimane, soprattutto una sfida alla mediocrità del tempo presente. Una sfida al pensare astratto; all’incapacità dell’uomo contemporaneo di vivere fino in fondo le idee. Di sperimentarne la potenza creatrice, la forza generatrice originaria.

Figura intellettualmente complessa, operò muovendo da una (particolarissima) sintesi tra Oriente e Occidente. Una sintesi ardua, anche perché nulla, nelle molte pagine dei libri di Scaligero, concede alle mode orientaleggianti, alla vulgata New Age, allo spiritualismo di maniera. Dell’Oriente era, infatti, un conoscitore profondo, che si muoveva con sicurezza nei meandri del pensiero indiano classico, delle scuole buddhiste di Asanga e Nagarjuna, del tantrismo tibetano, dello zen giapponese… Una padronanza, dei concetti e del linguaggio insieme, che adombrava, però, soprattutto il raro dono di saper penetrare tutte queste lezioni, queste tradizioni, al di là delle forme apparenti, per giungere al nocciolo degli insegnamenti. Alla loro sostanza non transitoria; evitando l’errore comune all’occidentale moderno che si avvicina al pensiero dell’Oriente antico, trasformandolo o in un’ideologia astratta, o in una sorta di superstizione pseudo-religiosa. Atteggiamento che egli era solito imputare proprio alla peculiare natura del pensiero dell’uomo occidentale, che tende, ormai per secolare abitudine, a concepire come reale soltanto il mondo materiale. Il mondo delle cose; mentre le idee, i concetti, vengono relegati in un altrove privo di forza, sostanzialmente impotenti ad agire davvero nella realtà.

Contro questa astrattezza – questa sorta di incantesimo della Medusa che ha reso di pietra le nostre menti ed i nostri cuori – l’Oriente antico, avulso da ogni lettura sentimentalistica, mostrava come non sempre fosse stato cosí. Come all’uomo fosse stato possibile concepire il rapporto con il “mondo delle idee” in modo radicalmente diverso, ed il pensare stesso come una forza vivente.

Una rivoluzione che, però, non era, né mai poteva essere, sradicamento, rottura dei legami con il passato, con la tradizione. Piuttosto una metamorfosi. Il mutare delle cose – della natura, del mondo, della vita… – secondo leggi invisibili, con le quali il pensiero dell’uomo ha in comune la sostanza prima. Sostanza che è, per Scaligero, il Logos, sorgente dell’autentico pensare e, al contempo, di tutto l’Universo. E la lezione dell’Oriente si incontrava cosí con il filone vitale della cultura occidentale. Con Platone ed Aristotele, con i grandi maestri del nostro Rinascimento e poi ancora con quelli dell’idealismo, da Hegel sino a Gentile.

Su un sentiero che Massimo Scaligero seguí con rara coerenza, incontrandovi l’opera di Rudolf Steiner, la grande lezione del magistero goethiano. Lezione che indicava come il rapporto tra pensiero e percezione rappresentasse la “spada spezzata” della nostra cultura.

La frattura che ha portato negli ultimi tre secoli a quel pensiero astratto che è, a ben vedere, la causa prima dei mali endemici del nostro mondo. Muovendo, dunque, dall’esperienza – e non dalla semplice teoria – di un pensiero altro, vivente, e di un’immaginazione capace di tornare ad essere davvero “creatrice”, Massimo Scaligero ha cercato d’indicare all’occidentale moderno un autentico “percorso di reintegrazione”.

Si potrebbe, forse, chiamarlo anche un “sentiero iniziatico”, spogliando, però, tale espressione di tutta la retorica – e la paccottiglia – pseudo-esoterica, occultistica di bassa lega con cui, solitamente, viene confusa. Paccottiglia che Scaligero sempre stigmatizzava con palese fastidio, nulla concedendo nei suoi scritti – e soprattutto nei suoi dialoghi con i molti giovani che andavano ad incontrarlo nel suo studio del Gianicolo – ad una qualsivoglia forma di sensazionalismo misteriosofico; cosí come, parimenti, nulla concedeva all’intellettualismo astratto.

I suoi discorsi erano sempre di un’asciuttezza assoluta.

I concetti si sviluppavano gli uni dagli altri secondo un percorso rigoroso e armonioso insieme. Costringendo, quasi, il lettore – e, per coloro che lo conobbero, l’ascoltatore – a seguirlo, passo dopo passo, quasi stesse riavvolgendo lentamente un gomitolo di lana; sino a giungere all’uscita da quel labirinto di astrazioni confuse, di concetti deboli, rimasticati, mal digeriti, in cui siamo ordinariamente imprigionati. Sino a giungere sulla soglia di un diverso modo di pensare e percepire. La soglia di un’autentica, profonda, metamorfosi interiore. È questo l’insegnamento che – al di là della complessità dei concetti, della vastità dei riferimenti culturali – resta racchiuso nei suoi, molti, libri. In opere come La Via della volontà solare, disamina, appunto, delle tradizioni occidentali ed orientali, da cui sorge progressivamente il segno di una nuova sintesi. O de La logica contro l’Uomo, devastante analisi della cultura contemporanea in tutti i suoi, molteplici, aspetti. Molteplici, eppure riconducibili a un unico comun denominatore: all’impotenza del pensiero, alla rinuncia alla autentica conoscenza. Quella conoscenza è, di per se stessa, fonte di libertà interiore. Critica della filosofia, dello scientismo, dell’economicismo che dominano la nostra società. Critica, anche, delle utopie illusorie, come nel serrato ragionamento de Il marxismo accusa il mondo, ove Scaligero identifica nel pensiero del filosofo di Treviri non la causa, bensí il portato della malattia profonda dell’Occidente. Di un Occidente che ha abdicato alla sua vocazione spirituale, al grande “dono” della libertà di pensiero, pervertendolo. Perdendone di vista le coordinate superiori, e trasformandolo semplicemente in licenza, in assenza di cardini interiori, in sradicamento… Allo stesso modo, individuò fra i primi, all’esplodere del famoso/famigerato ’68, come dietro a tanto (confuso) movimentismo giovanile vi fosse sí una domanda di autenticità e verità, ma come, parimenti, tale domanda venisse pervertita e deviata in forme di nichilismo sempre piú devastanti e distruttive. Di qui il suo Rivoluzione. Discorso ai giovani, che ancor oggi andrebbe letto non come documento di un passato ormai lontano – gli anni della Contestazione – ma perché prevede, con sguardo, appunto goethiano, come questo fosse il seme di tanti altri mali – dalla droga alla disgregazione della famiglia, dalla perdita di qualsiasi riferimento morale alla debolezza di fibra interiore – che travagliano le attuali generazioni.

Ancor di piú, nelle pagine di Scaligero è possibile leggere, tra le righe, i pericoli cui andava incontro un Occidente immemore della propria Tradizione spirituale. Un Occidente incantato dalle sirene dell’edonismo, sempre piú precipitato verso la china di un nichilismo di bassa lega, depauperato anche di quel tanto di grandezza titanica che era stata propria dei pensatori come Max Stirner od Otto Weininger, tragici testimoni del crollo della no- stra civiltà.

Uno Scaligero, questo, che presentiva come questo Occidente avrebbe finito per il confliggere, drammaticamente, con un nemico assoluto e pericolosissimo. Con un nemico all’apparenza antitetico alla nostra civiltà, ma in realtà portatore di un’altra forma di quel “pensiero astratto” che è, purtroppo, la tabe della nostra cultura. Cosí che al nostro (basso) nichilismo e relativismo morale, si contrappone una forma irrigidita e dogmatica di fanatismo pseudo-religioso; di una religiosità, però, priva di autentica trascendenza, trasferita, come dogma, nella materia, e trasformata in ideologia violenta. Si leggano, a questo proposito, le pagine illuminanti, scritte da Scaligero piú di trent’anni or sono, sui pericoli insiti in un certo “arabismo”, che è poi lo specchio (deformante) che riflette l’immagine distorta del nostro stesso mondo.

Immagini speculari, cui Massimo Scaligero contrapponeva, come antidoto, una riscoperta della nostra tradizione. Senza indulgere, però, a forme cristallizzate di tradizionalismo. Richiamando, piuttosto, all’essenza vitale di questa. Un’essenza che va riscoperta in un pensare svincolato, finalmente, dalla gabbia in cui è stato imprigionato da troppi secoli. Un pensare che, appunto, torni a ricongiungersi con il Logos da cui ha origine.

 

Andrea Marcigliano

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Da: «Il Secolo d’Italia» – Idee & Immagini – 26 settembre 2006.

L’Archetipo – Agosto 2013

Grazie a Marina Sagramora e Andrea Marcigliano

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