🐺
Ripetere con pervicace ostinazione sempre le stesse cose! E perché mai? Per la semplice – ma non facile da superarsi – ragione e limite che il Visconte di Lapalisse esprimerebbe dicendo: “Se si sta fermi, non ci si muove: non è possibile muoversi, stando fermi”.
A dire il vero, io trovo la ‘lapalissiana’ enunciazione niente affatto comica, semmai drammatica nella sua veracità, e persino tragica, se consideriamo i compiti ai quali individui e Comunità – che dovrebbero essere spiritualmente operanti – vengono meno, con colpevole faciloneria, pressappochismo, latitanza, diserzione e turpissima viltà. Mentre il mondo è in fiamme, mentre accadono nel mondo immani tragedie, quelli che dovrebbero essere degli audaci e fervidi praticanti interiori sono fermi – per usare un termine sportivo – ai “blocchi di partenza”, ove giocherellonamente e pazzerellonamente ‘giuocano’, si dànno agli ‘scherzi’, ai ‘lazzi’, alle ‘ciarle’, alle inutili ‘ciane’! E, con ogni evidenza, se son fermi ai “blocchi di partenza”, non “corrono”, non si muovono. Si aspettano, stupidamente le tragedie, per cominciare – con colpevole ritardo – a muoversi affannosamente, disordinatamente, nel tentativo di recuperare tempo e occasioni perdute.
Perché si ripetono – con lodevole e pertinace ostinazione – sempre le stesse cose? E per fortuna che le si ripetono, per fortuna che vi sono dei ‘fracassoni’ dell’altrui inerte quiete, nella quale si adagia, si acquieta e placidamente si addormenta la vilissima accidia di coloro che in luogo di cercar – come tigri affamate – lo Spirito, si dànno a quei ‘passatempi’, a quei divertissements (come li chiamava Blaise Pascal), che possano rendere piacevole l’indisturbata trantranquillità quotidiana piccolissimo-borghese e vilissimo-borghese!
Di fronte a cotanta turpe e comodissima viltà, ben vengano le più strazianti tragedie nell’umano esistere, ben vengano le più dolorose catastrofi, che spazzino via tale comoda, vigliacca e turpe menzogna! Forse la più grande vittoria, e il miglior strumento per ottenere tale infausta vittoria, l’Oscuro Signore – il Signore dall’Oscuro Pensiero, Angra Mainyush, come lo chiamavano gli antichi Persiani – è stata quella di aver narcotizzato, ‘attufato’, spento sino a completo ottundimento, il senso tragico della vita: tale ‘narcosi’ funziona meglio del Valium e del Prozac nel desensibilizzare il passivo e pavido ‘ometto’ di questa epoca oscura, malvagia e profondamente stupida, portandolo ad una visione ad una banalizzazione nella visione del mondo e della vita, che per molti diventa una condizione di paralisi senza uscita, se non attraverso grandi tragedie, immani dolori e disastri e la morte. Tragedie, dolori, disastri e morte che – nella visione unna del mondo e della vita – sono oltremodo benvenuti e graditi, se servono a spazzar via il marciume della menzogna esistenziale del pavido ometto piccolissimo-borghese avido di mediocrità e di banalità! Come diceva Friedrich Nietzsche: “A me non fanno paura le acque oscure: a me fanno paura le acque poco profonde“, perché nelle acque poco profonde facilmente l’acqua ristagna, e marcisce.
Una volta che eravamo da lui, Massimo ci parlò, con vivide immagini evocatrici, della tragicità che si manifestava nell’esistenza e nell’animale coscienza del lupo, indicandoci tale ‘lupesca’ tragicità come un sentimento o una qualità dell’anima, che dovevamo avere sempre presente e viva di fronte al mondo e agli accadimenti della vita, suscitando nei miei giovani e intemperanti la più sconfinata gioia. E ci parlò più volte del far sorgere nell’anima il tragico atteggiamento della tigre, invitandoci a perseguire la realizzazione della Via del Pensiero, “come tigri affamate di Spirito“: questo l’antidoto potente, ch’egli ci dette contro la corrodente banalizzazione del ‘quotidiano’, che fiacca, sfilaccia e spegne forza interiore e fuoco nell’anima!
E’ verissimo che si ripetono sempre le stesse cose, al punto tale, che ci si chiede se le tali instancabilmente ripetute cose, vengano “lette”. E, di nuovo, l’ottimo Visconte di Lapalisse direbbe che perché tali ripetute cose vengano “lette”, ci vuole un “lettore”, e la tragedia – niente affatto comica – è che chi “dorme” non solo non piglia pesci, ma neppure “legge”, perché perso nei suoi sogni, o nel sonno profondo senza sogni, e trovandosi colui che dorme “fuori”, come dicono a Roma, “non ci sta proprio”, essendo appunto fuori come i balconi.
Si ripetono sempre le stesse cose, perché sempre lo stesso è il problema, insuperato ed insuperabile per l’inerte accidia di coloro che dovrebbero essere dei fervidi praticanti interiori, ed invece sono degli sciocchi e vanitosi ricamatori di vuote parole o addirittura si diluiscono e si perdono nella banalità quotidiana.
Si ripetono sempre le stesse cose, perché il pensiero è sempre riflesso, anemico esangue, sfilacciato, inconsistente. Perché – pur dicendo che siamo esseri spirituali, degli Io tutt’uno con l’Io dei mondi, scintille del medesimo fuoco che ha generato ed anima l’Universo – sempre siamo portati a spasso come scodinzolanti cagnolini al guinzaglio, nella nostra accidiosa passività e comodità dagli stati d’animo, da passioni peggio che mediocri e scontate, da istinti automatici, sino a rasentare spesso e volentieri il ridicolo o il veramente tragico.
Si ripetono sempre le stesse cose perché sempre la stessa – l’UNICA – è la soluzione: la concentrazione, fatta ripetuta, ossessivamente ri-ripetuta, disperatamente tentata e ritentata, voluta allo spasimo, per superare lo stato di morte del pensiero, di sonno catalettico dell’anima, di mortale paralisi della volontà vera.
A nulla – o a poco – serve fare la concentrazione, se la si sente come un inevitabile, faticoso, e fastidioso dovere – come il dover zappare e dissodare un campo o fare un uggioso compito in classe a scuola – da compiere operando al risparmio, con vegetante re-ripetitiva routine. Ma se si coglie in maniera inattenuata la tragicità, la precarietà – e la pericolosità – dell’attuale condizione umana, si può con coraggio e disperazione trarre dalle profondità dell’anima l’impeto e dall’essere stesso del pensare le forze per compiere il Rito della concentrazione come un atto assoluto: come una questione di vita o di morte. Anche se lunghi possono essere i periodi di aridità nei quali è necessario il più ostinato insistere, anche se per lunga tratta – persino dopo ‘vittorie’ ottenute lottando sino all’agonia – apparentemente ci sembra di aver perso quanto sì duramente conquistato, anche se unico conforto nell’arida oscurità è proprio la ‘disperazione’, che non permette di accontentarsi e di acquietarsi.
Allora si trova quella che Massimo chiamava la “forza più forte”: quella che riesce a vincere il magnetismo potente, che ogni volta riattira alla immedesimazione corporea.
Allora si sa, che non è l’esercizio che farai, ma quello che stai facendo, che può portarti dalla morte alla vita, dal tramortimento al risveglio, dalla paralisi alla volontà magica consacrata allo Spirito.
E’ la concentrazione che fai – non quella che farai – se non la interrompi quando ti senti soddisfatto, ma inizi proprio allora ad immettervi quel surplus di volontà, che non viene dalla natura, dall’essere abituale e abitudinario, che può forzare i limiti della natura e sottrarti alla identificazione corporea.
E’ quando la natura comincia a “gemere” e a “dissolversi” sotto pressione imperiosa dello Spirito, che nella concentrazione vuole, che la concentrazione comincia ad essere vera ed efficace.
E’ quando la concentrazione la facciamo, malgrado la rivolta di tutta la natura in noi, che comincia ad essere autentica, operante, trasformante.
E’ quando – malgrado la condizione di aridità – la concentrazione vogliamo farla, per un amore assoluto in noi, anche se – nell’arida oscurità – non avvertiamo emotivamente tale amore, ma lo vogliamo volere – ripetiamo migliaia di volte una ingrata operazione di concentrazione della volontà nel pensare, indifferenti se l’oggetto-pretesto di essa sia immagine o parole o un misto di esse, sino a che un giorno un lampo ci trapassa l’anima, e per una breve eternità – rimosso il limite cerebrale e corporeo – finalmente veramente si vive, nel pensare che vive in noi, finalmente si è veramente coscienti e non tramortiti, finalmente si è liberi, oltre la quella miserabile e meschina caricatura dell’Io, che è l’ego. Finalmente si realizza concretamente (e non a parole) – sia pure per una breve eternità – lo Spirito.
Sic nos, non nobis. E solo l’impeto, lo slancio, il freddo-incandescente innamoramento per lo Spirito, per l’Assoluto, e il distacco dalla mediocrità divorante della routine quotidiana, che fa sorgere la forza che spezza le catene dell’identificazione somatica, fa sorgere il clima interiore del pensiero puro il quale, a furia di lotte disperanti e di dolorosi spasimi – diventa “memoria” interiore, stato interiore dell’anima cui attingere, ogni volta, forza, dedizione, abnegazione, impeto, per compiere il Rito della concentrazione, indifferenti ai risultati, gratificanti (raramente) o meno (sovente).
Sino al giorno in cui, dall’ “altra sponda”, verrà decretato il superamento definitivo del limite umano, corporeo, cerebrale, contro il quale, malgrado il quale, oltre e senza il quale, si è avuta l’audacia, la temerarietà, la pertinace ostinazione di volere realizzare lo Spirito, nella concentrazione, portandola avanti – come dice Massimo in Kundalini d’Occidente – nella guerra e nella pace dell’esistere, in libertà e per amore dell’azione interiore medesima, indifferenti a risultati che solo lo Spirito può decretare in noi!
_________________________________________