LIBERTA' E LIBERAZIONE

Raffaello,_concilio_degli_dei_

Queste due parole sembrano avere lo stesso significato, o perlomeno un significato molto simile. Ma è soltanto un’apparenza: in realtà queste due parole hanno un significato profondamente diverso e si riferiscono a due diverse condizioni dell’essere umano, ancorché correlate tra loro. Vedremo, nel corso delle presenti considerazioni, come.

Possiamo dire che, in qualche modo la liberazione ha a che fare con il presente e il passato dell’essere umano, mentre la libertà con il presente e il futuro dell’uomo, e di conseguenza col destino eterno dell’essere umano.

Non è facile parlare di queste cose nel linguaggio arido e filisteo, che in gran parte è quello della abituale vita comune e dell’attuale cultura. Occorre un ben altro linguaggio, un linguaggio capace di toccare realmente le corde più profonde dell’animo umano, perché questi argomenti, come vedremo, sono di importanza suprema per l’essere umano. Devo alla nostra cara Marzia, a quanto su questo blog lei ha scritto, con delicato e profondo linguaggio poetico, nel suo articolo Pensare creatore sulla Filosofia della Libertà, e ad alcune conversazioni col nostro pugnace Daniel, l’ispirazione e lo stimolo a mettere per iscritto queste considerazioni, che da molti anni mi tenevo sepolte nel cuore.

A volte, Massimo Scaligero, per un tratto fortemente platonico del suo animo, amava allontanarsi dal linguaggio freddo e prosaico, tipico della corrente cultura, per elevarsi ad un linguaggio poetico – “poetico” in senso originario della parola greca ποίησις,  pòiesis, ovverossia “creatore” – e addirittura faceva  ricorso, tramite tale fantasia creatrice, al mito. In greco,  μύθος, mýthos, ha il senso di una narrazione sacrale, compiuta  in un poetico linguaggio elevato, quello per gli Antichi più consono alla sacertà dell’argomento, riguardante la natura divina, l’origine del mondo e dell’uomo, l’agire degli Dèi e così via. È noto come Platone, nelle sue opere filosofiche, abbia fatto ampiamente uso del mito, come strumento atto a trasmettere determinate verità, suscitandone l’intuizione nell’anima del lettore. Quello di Platone era un razionalismo sacro, che attingeva direttamente al mondo dei Misteri antichi e alla Sapienza pitagorica.

Alcune volte, Massimo Scaligero ci narrò, in immagini fortemente suggestive, quello ch’egli chiamava il «mito del Concilio degli Dèi». Tale «mito» era relativo alle origini dell’uomo e alla finalità della sua creazione da parte degli Dèi. Un mito dai caratteri, a mio modo di vedere, fortemente “prometeici” e “faustiani”. Verrebbe quasi da parafrasare il sottotitolo del libro Teosofia – perché in questo caso si tratta realmente di una Theo-Sophìa, ossia di una Sapienza Divina – ovvero, chiamarla una introduzione alla conoscenza sovrasensibile dell’uomo e del destino umano. Perché in tale mito è celata veramente una γνῶσις, gnósis, una sovrarazionale «conoscenza» salvifica,  non una subrazionale e inintelligente, antirazionale e cieca «fede» religiosa, perlomeno non quella che da molti secoli circola in Occidente sotto tale nome, e che infinite tragedie, dolori e spargimenti di sangue ha partorito dal suo ignominoso seno. Nel suddetto sottotitolo di Teosofia, il termine tedesco Bestimmung non ha solo il significato di «destino», come giustissimamente fu tradotto da Ida Levi Bachi nel trascorso secolo, bensì anche quello di «destinazione», di «missione», ed è lo stesso termine che usa il filosofo Johann Gottlieb Fichte nel titolo di due suoi aurei libri, La missione dell’uomo e La missione del dotto, testi più volte citati nelle opere del Dottore. Vedremo come tali sfumature di significato ben si attaglino alle conseguenze, non semplicemente logiche, del «prometeico» e «faustiano» mito delle origini dell’uomo.

In tale «mito», si narra come il Divino, l’Assoluto, abbia riunito in Concilio gli Dèi, dando loro un còmpito, che si rivelò superiore alle loro forze. L’improbo còmpito affidato loro fu quello di portare ad esistenza la «libertà». Il guaio era che tale «libertà» era cosa perfettamente sconosciuta ai Numi, anche ai supremi, ed è – per noi – d’importanza capitale intenderne il perché, giacché da tale «intendimento» dipendono assolutamente la nostra «salvezza» e il nostro futuro destino. Non conoscendo gli Dèi la libertà, ossia non essendo gli Dèi liberi, non potevano essi stessi portare ad esistenza la libertà nell’universo mondo.   

Perché gli Dèi non potevano, non erano capaci, di portare essi stessi, in maniera immediata, ad esistenza la libertà? Perché gli Dèi – direbbe l’italico filosofo Parmenide di Èlea – «sono» e «non possono non essere»: ovvero sono quello che sono, sono come sono, determinati o fissati, in una data forma di essere, alla quale, a tutta prima, essi sono del tutto incapaci di sottrarsi. Gli Dèi sono, fuor d’ogni dubbio, bellissimi, sapientissimi, potentissimi, buonissimi, ma non sono liberi, perché non hanno scelta di essere diversamente da come sono, ossia non possono non essere quello che sono e come lo sono.

Secondo l’antica concezione ermetica e platonica, gli Dèi sono dirette emanazioni del Divino, dell’Assoluto: emanazioni manifestanti in maniera immediata determinati aspetti del Divino stesso. Sono Spiriti della Saggezza, dell’Armonia, del Coraggio e via dicendo. Ma essi non hanno Saggezza, Armonia, Coraggio, e via dicendo, bensì  sono, in maniera immediata, Saggezza, Armonia, Coraggio e quant’altro. E poiché sono tali in maniera immediata, senza una loro scelta o decisione, non possono sottrarsi, di loro autonoma iniziativa, a tale condizione: certamente sublime, ma obbligata. Gli Esseri delle Gerarchie Celesti, i Numi, gli Dèi, manifestando se stessi manifestano in maniera immediata il Divino, e possono manifestare se stessi unicamente manifestando un aspetto determinato del Divino.

Tali Dèi e Numi, contemplando in maniera immediata l’Assoluto, il Divino, in certo qual modo vengono da Questo travolti: operano il bene, anzi essi sono il bene secondo la Volontà divina, tuttavia non secondo una loro autonoma volontà, che non hanno. Il piano divino, queste sublimi Entità divine lo passano poi a tutta una Gerarchia di Entità divine e angeliche a loro subordinate, le quali anch’esse, pur fedeli esecutrici della Volontà Divina, non hanno autonomia veruna. 

Il mito, poeticamente narratoci in avvincenti immagini da Massimo Scaligero, narra poi come in tale Concilio, gli Dèi deliberassero di creare l’Uomo, il quale avrebbe portato lui ad esistenza nell’Universo quella libertà che essi stessi erano incapaci di conoscere e di sperimentare direttamente. Decisero, quindi, di dar luogo all’«esperimento uomo». Esperimento, invero, ben audace,  anzi addirittura temerario, visto che non era certo prevedibile e fatale che un tale esperimento avrebbe avuto sicuro successo. Giacché se la libertà fosse un evento fatale, meccanico, certamente prevedibile, in maniera – per così dire – algebricamente calcolata, allora una tale libertà non sarebbe altro che una menzognera finzione, una tragica illusione: tutta la dolorosa avventura cosmica dell’uomo, coi suoi strazi, i suoi errori, le sue illusioni, le inevitabili disillusioni, gli smarrimenti e gli oscuramenti, non sarebbe altro che il mostruoso scherzo, progettato e attuato da una volontà malvagia. Come vedremo, così non è.

All’Uomo, creato, anzi generato come figlio degli Dèi, questi, tutti fecero dono delle qualità che costituivano la loro propria essenza. Per cui, questo Uomo Cosmico, o Uomo Primordiale, aveva in sé Volontà, Armonia, Coraggio, Sapienza, Forza e tutte le altre qualità divine degli Dèi, che non erano ciascuno altro che parziali aspetti dell’Unica Essenza Divina, da essi così manifestata: erano, ciascuno, singoli attributi, modi e aspetti dell’Assoluto, dell’Uno. A quest’Uomo Primordiale, Numi e Dèi delle varie Gerarchie fecero tutti il loro dono. Un grande dono. Il loro scopo, la finalità ultima dell’«esperimento uomo», era appunto la creazione, il venire in essere, della libertà.

Ma finché quest’Uomo Cosmico, l’Uomo Primevo, fosse rimasto nel seno degli Dèi, egli pure non sarebbe stato libero. Sicuramente, per i grandi doni ricevuti, egli sarebbe stato onnisciente, onnipotente, moralmente buono e savio, ma sicuramente non libero. Perché si sarebbe riproposto per lui lo stesso rapporto coartante che gli Dèi avevano nei confronti del Divino, dell’Assoluto. Una conoscenza elevata o una azione morale sarebbero sorte in lui in modo immediato, spontaneo, automatico, in certo qual modo «meccanico», quindi in un modo certamente non libero. L’uomo non sarebbe stato il libero produttore della propria verità, l’autonomo scopritore o il conquistatore di questa, bensì l’avrebbe accolta come «rivelazione», ispirata dagli Dèi. E l’impulso all’azione morale non avrebbe avuto origine da un atto della sua libera volontà, bensì sarebbe sorto come nell’uomo attuale sorgono la fame, la sete, il sonno, e così via: quindi in maniera non libera. È evidente che non era su quella strada che gli Dèi potevano far sorgere mediante l’uomo la libertà. Doveva essere battuta un’altra strada!

Gli Dèi, per rimediare tale evenienza, decisero di «espellere» l’Uomo Primordiale dal proprio seno, di «isolare» l’essere umano rispetto a se stessi e rispetto al Divino. Decisione in sé davvero problematica, per il semplice fatto che niente può essere «fuori» dallo Spirito e dal Divino. Essendo il Divino, l’Essere, l’Uno, nulla può realmente «essere», o «ex-sistere», fuori dal Divino. È evidente che l’essere umano poteva essere espulso o isolato rispetto al Divino solo illusoriamente, non realmente. Ovvero, poteva essergli soltanto prima progressivamente «velata» e poi «oscurata» del tutto la visione del Mondo Spirituale e la Conoscenza del Divino stesso. Altrimenti l’uomo non sarebbe mai stato libero.  

A tale scopo, vennero incaricate alcune deità, inferiori e secondarie, le quali dapprima furono costrette ad evolvere in maniera irregolare e ritardataria, e poi a divenire deità «ostacolatrici» rispetto al divenire dell’uomo stesso. Queste deità inferiori, anch’esse, non scelsero affatto di svolgere l’ingrato quanto necessario compito di «ostacolare» l’evoluzione dell’uomo: a tale còmpito esse vennero «costrette», senza potersi sottrarre, dalle Deità Superiori, alle quali non vollero, né poterono in nessun modo opporsi.

Nel corso di lunghe epoche, queste ostacolatrici deità inferiori velarono, progressivamente oscurarono, la percezione spirituale dell’essere umano. Gli inscenarono davanti una illusoria fantasmagoria, che prese anch’essa progressivamente consistenza, ne sedussero l’istintiva volontà incatenando l’essere umano a quel mondo illusorio, ch’esse portarono a intensamente bramare. Ma anche questo, per tali entità ostacolatrici, fu un còmpito affidato, una funzione alla quale furono obbligate, non una scelta ch’esse fecero, ché di una tale scelta esse erano del tutto incapaci, non essendo esse stesse libere.

Perdute, come dice Massimo Scaligero in Avvento dell’Uomo Interiore, l’originaria comunione col sovramondo e la percezione immediata degli Dèi, l’Uomo Primordiale cadde nella frantumazione dell’apparente molteplicità dell’illusorio mondo materiale. Come nel mito di Osiride e di Dioniso, l’Uomo Cosmico venne dilacerato, fatto a pezzi dalle forze «tifoniche» e «titaniche». Nel mito cosmogonico manicheo, il Padre delle Luci e il Mondo Spirituale «sacrificano» l’Adamo Primordiale, che viene fatto a pezzi dalle forze demoniache del Principe dell’Oscuro Pensiero, Angra Mainyush, o Ahriman, affinché la sua luce sacrificata agisca «come un lievito» dall’interno di quella luce caduta e morta, che è la materia, in vista della sua «resurrezione», della sua «liberazione», della sua trasfigurante spiritualizzazione. Perché, come insegna la Scienza dello Spirito, non esiste affatto una materia, autonoma, su sé fondata, esistente al di fuori e senza lo Spirito.

Massimo Scaligero descrive altresì come, nel corso di questo processo di caduta e di involuzione in una condizione di progressivo oscuramento spirituale, l’uomo caduto sia stato accompagnato e assistito da serie di Entità spirituali superiori, le quali si sono servite anche di una parte di entità ostacolatrici, «luciferiche», fornendogli una religiosità, riti e cerimonie, ascesi, forme di yoga, dottrine di salvezza, istituzioni di «Misteri», per tutelare in lui l’elemento originario, e proteggerlo dalle conseguenze nefaste della «caduta». Tutto quel mondo di riti, cerimonie, dottrine e ascesi, costituivano quella che Massimo Scaligero chiama la «tradizione lunare», in qualche modo mediata dall’aspetto «celeste» dell’impulso luciferico.

Per volontà degli Dèi, che non erano liberi, le entità luciferiche, esse pure non libere, da una parte hanno «sedotto» l’uomo, istigatolo alla libertà, intesa come precoce autonomia rispetto alla direzione spirituale degli Dèi, «agitando» il corpo astrale dell’uomo, nel quale ancora non era presente l’«Io», che rimaneva ancora nel seno degli Dèi. Il corpo astrale dell’uomo, in tale stato di caotica agitazione, paralizzò la virtù immortale del corpo di vita o corpo eterico, il quale a sua volta non dominò più il corpo fisico dell’uomo, che cadde sempre più nello stato di irrigidimento minerale, divenendo sempre più grossolano e di conseguenza mortale. All’azione «seduttrice» di queste entità luciferiche inferiori, se ne contrappose un’altra, sempre per volontà degli Dèi, ad opera di entità luciferiche celesti le quali offrirono all’uomo, come vie di salvezza e di precario surrogato della perduta comunione col Mondo Spirituale, tutta una religiosità composta di riti e cerimonie, la possibilità di conoscere la volontà degli Dèi attraverso comunicazioni, ispirazioni e oracoli, in modo che l’uomo conformasse a tale volere la vita individuale, familiare e sociale. L’obbediente conformità a tale direzione religiosa e rituale portava, nella vita individuale e sociale, l’«ordine», mentre la difformità, l’infrazione, la disobbedienza, produceva il «caos», il disordine morale, che tendeva all’ulteriore materializzazione dell’apparire sensibile, e portava gli umani che ne erano preda alla devastante anarchia delle passioni più distruttive. Religiosità che non fermava affatto il processo di caduta e di involuzione dell’umanità nel suo complesso e del mondo, processo che aveva una direzione fatale.

Oltre alla conformità religiosa e rituale, a quella che in India veniva chiamato il Dharma, riflesso terrestre e storico del Rta, ossia dell’Ordine Cosmico, ad una élite veniva offerta la possibilità della moksha, o mukti, ossia della «liberazione», la possibilità di essere atidharma, al di là del dharma, della legge religiosa e rituale, alla quale la restante umanità doveva obbligatoriamente conformarsi. Ma il privilegio, raro e aristocratico, di una tale élite spirituale era, si badi bene, la «liberazione», non la libertà.

Massimo Scaligero mette bene in evidenza come tale «liberazione» fosse un «tornare indietro», un resistere alla direzione fatale della «caduta», le cui conseguenze ultime, che nel Kali Yuga, o Età Oscura, e nell’epoca attuale sarebbero giunte al parossismo, erano fortemente temute, nonché descritte, per esempio nel Bhagavata Purana, in toni accorati, vivacemente «apocalittici». E descrizioni simili, le si possono agevolmente trovare in tutte le tradizioni antiche: egizie, elleniche, germaniche. Tali tradizioni erano tutte frammenti di un’unica «tradizione lunare». Non erano la «Tradizione Solare», della quale Massimo Scaligero parlava.

La tradizione lunare, tutta, era una via di liberazione dalle conseguenze della caduta, un evitare il confronto con le forze mortifere della materia, un tornare indietro a stati di coscienza pre-individuali, ad una obbediente sottomissione agli Dèi, in sostanza un rinunciare all’esperienza della libertà. Un tempo, per molti ricercatori spirituali, anzi per la quasi totalità, una tale Via lunare era l’unica possibilità accessibile. Massimo Scaligero la chiama una «Via dei Padri», che oggi è diventata una «via dei morti».

Rarissima, e ignota, era la Via solare. Perché nella Via solare venivano e vengono preparate e attuate le forze, che avrebbero permesso di fronteggiare la presente crisi immane dell’umanità, dell’intera civiltà. È la Via della «libertà», la Via eroica nella quale non si torna indietro, lungo la suddetta «via dei morti» a stati di coscienza pre-individuali e ad una obbediente sudditanza al volere dei Numi. Perché, ammonisce sempre Massimo Scaligero,

«delude gli Dèi, chi vuol dipendere dagli Dèi».

Il senso del lungo cammino che ha condotto l’essere umano all’attuale sua difficile condizione, e la non fatalità della conquista della libertà da parte sua, sono enunciati in parole, che più chiare non potrebbero essere, nel libro Graal. Saggio sul Mistero del Sacro Amore, che preferisco citare nella edizione originale di Perseo, Roma, 1969, nel quale, dopo aver descritto come oramai sia esaurita la funzione delle antiche metafisiche e dei loro metodi di «liberazione», alle pp. 10-11, viene detto:

«Nei testi tantrici sembra posseduta quella conoscenza che in Occidente sta alla base della moderna filosofia, circa l’esaurita funzione delle antiche metafisiche: non si dà più ausilio dagli Dèi, dalle rivelazioni, dalle ispirazioni: gli Dèi hanno lasciato l’uomo perché si sorregga da sé, realizzi in sé con la sua forza l’originaria natura. Chi vuol tornare indietro, segue la «via dei morti», in quanto non fa che disseppellire in sé antichi stati di coscienza, oltre i quali ormai l’uomo dovrebbe portarsi, per essere. Che egli percorra sino in fondo la via della liberazione, è in effetto ciò che gli Dèi attendono da lui: non il suo ritorno a uno stato di dipendenza che solo in antico era giustificato, quando ancora egli traeva le sue forze dal grembo della Madre. Lungo il tempo, accompagnata dalla correlativa rivelazione, l’individualità dell’uomo si fa sempre più indipendente dall’antica matrice cosmica, ma questa indipendenza essa paga con la perdita degli stati trascendenti. La sua esperienza si fa sempre più terrestre: è il kaliyuga, l’oscura notte che precede l’alba. La Madre lascia l’uomo nella solitudine dell’esperienza sensibile, perché egli affronti l’impresa della libertà: ma appunto per questo, qui nella materia, nel sensibile, nel corpo fisico, ormai il potere della Madre va ritrovato. La decisione di ritrovarlo non può essere un dono della Madre, bensì autonoma iniziativa dell’uomo: ciò che egli può volere, ma anche non volere. La via della libertà è anche la via del ritrovamento del Divino, secondo una comunione incomprensibile a chi sia immerso in quel tradizionalismo in cui la Tradizione ha cessato di fluire. Ritrovare la Madre, come virtù originaria, o come coscienza cosmica rispetto a cui l’odierna coscienza è immersa nel sonno profondo, è un còmpito di cui si possono ravvisare aspetti similari nella mistica d’Occidente».

Nell’illustrarci, con potente parola evocatrice e vivide immagini, il mito del «Concilio degli Dèi», Massimo Scaligero metteva in evidenza come l’isolamento nel quale l’essere umano veniva posto, l’esilio e la prigionia in quel materiale, illusorio mondo di limiti, operati dall’azione di non libere entità ostacolatrici, agenti per volontà degli Dèi, parimenti non liberi, avesse come scopo il lasciare l’essere umano nella solitudine, nel buio e nel silenzio, affinché egli imparasse a camminare con le sue gambe. Solitudine, perché ormai gli Dèi si sono allontanati dall’uomo totalmente immerso nello stato di coscienza sensibile. Buio, perché si è oscurata l’antica Conoscenza, la Gnosi, che era propria dell’uomo quando egli viveva nel seno degli Dèi, nel Mondo Spirituale, l’antica Madre: gliene rimangono solo tradizioni scritte e dottrine ch’egli crede di penetrare col morto pensiero riflesso, ma che in realtà sono per lui enigmatiche Sfingi, che gli parlano in un linguaggio a lui ignoto e incomprensibile. Silenzio, perché oramai gli Oracoli tacciono e l’uomo non può più richiedere ad un mondo superiore una rivelazione per il suo conoscere, una direzione per il suo agire, indicazioni per il suo procedere nel mondo nel quale egli, esistenzialmente si sente «gettato» ed «esiliato». L’uomo farà l’esperienza dell’errore, dello smarrimento, del dolore, della malattia, della morte. Imparerà, a proprie spese, con la propria diretta esperienza, a distinguere ciò che è reale da ciò che è illusorio, ciò che è sano e fecondo da ciò che guasto e sterile, ciò che è bene da ciò che è male. Ma, appunto, non sarà una rivelazione celeste a insegnargli tutto ciò, ma unicamente la sua esperienza: sarà la faticosa, dolorosa, conquista del suo pensare e del suo volere.

Non sarà, dunque, la rivelazione di una Sapienza Divina, o Theosophia, ma la conquista di una conoscenza e sapienza umana, o Anthroposophia. Tutto ciò ha un carattere apertamente «prometeico» e «faustiano». Nel mito antico, Prometeo, andando contro l’«invidia degli Dèi» e lo stesso volere di Giove-Zeus, portò agli uomini quel «fuoco-luce», che li trasse da un’ottusa condizione di oscurità, e li spinse alla ricerca dell’Autocoscienza, della Libertà e dell’Amore. Perché non vi è Amore autentico che non nasca dalla Libertà, e non vi è Libertà vera che non scaturisca dall’Autocoscienza: tre cose ignote agli Dèi, cose o forze o qualità che gli Dèi «invidiano» all’uomo. Infatti gli Dèi, come abbiamo visto, non sono liberi. Essi hanno indubbiamente una vasta e potente coscienza sovrasensibile, ma – ci diceva Massimo Scaligero – non hanno «autocoscienza», della quale solo l’uomo, per la prima volta nell’Universo, fa esperienza sulla Terra, in questo mondo di limiti, conquistandola con le proprie forze, senza l’ausilio di gratuite rivelazioni.

Da questo punto di vista, come già il Buddhismo originario mise in evidenza, la posizione dell’uomo è suprema. Infatti, nel Buddhismo, gli Dèi stessi, se vogliono la liberazione, devono rinunciare al loro rango divino, e incarnarsi sulla Terra come uomini, scendendo nella stessa oscura voragine, nello stesso mondo di dolorosi limiti, che oggi l’uomo affronta e sperimenta. Pochi Dèi hanno osato tanto. Una simile visione antifatalista dell’uomo, in certo qual modo privilegiata, nel nostro Rinascimento, la troviamo espressa, nel 1486, persino nella Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola, là dove dice:

«Stabilì infine l’ottimo artefice che, a colui al quale non si poteva dare nulla di proprio, fosse riservato quanto apparteneva ai singoli. Prese perciò l’uomo, opera dall’immagine non definita, e postolo nel mezzo del mondo così gli parlò: 

«Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare affinché avessi e possedessi come desideri e come senti la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto. Agli altri esseri una natura definita è contenuta entro le leggi da noi dettate. Tu, non costretto da alcuna limitazione, forgerai la tua natura secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente guardare attorno tutto ciò che vi è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che preferirai. Potrai degenerare nei esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini».  

Ora, la salvezza dell’uomo, oggi, non è certo nel «tornare indietro», nel cercare come in antico una «liberazione» dal coinvolgimento nel sensibile, regredendo a stati di coscienza pre-individuali, in quella forma, oramai, per sempre perduti. Perché la via già percorsa è franata alle spalle dell’uomo, e gli Dèi non concedono di rinunciare all’impresa, tornando indietro. L’uomo può unicamente procedere nel suo cammino, avanzando coraggiosamente sul sentiero della conquista dell’autocoscienza e della libertà. Nel momento in cui all’uomo non si dà più «rivelazione» attraverso la parola degli Dèi, questi può fare appello direttamente all’Assoluto che è alla base del suo essere, al Divino, all’«Io sono» che costituisce l’essenza più intima e autentica del suo Io.

Infatti, nell’Avvento dell’Uomo Interiore, alle pp. 194-196, leggiamo:

«L’esperienza di quei pochi che abbiano la giusta ispirazione e non si limitino ad un dottrinarismo esteriore, potrebbe dare l’impulso di rinnovazione alla collettività umana, non certo come gratuita salvezza in vista di un benessere da godere comodamente, ma come orientamento alle forze già nate e nascenti dell’ ‘anima cosciente’, come significato alle difficoltà e alle lotte, come motivo assoluto alle possibilità di superamento di un mondo già morto, che permane mescolato a quello nascente per paralizzarne l’impulso. Occorre però che quei pochissimi compiano anzitutto in sé il superamento e così dischiudere il varco: a ciò, il Maestro dei nuovi tempi ha dato l’insegnamento e ha costituito la forza iniziatrice.

Ma ancora: non è sufficiente avere la forza, occorre saperla dedicare. La forza va consacrata perché risorga come vera forza: soltanto ciò mantiene la comunione vivente con l’Iniziatore dei liberi ed evita il pericolo che l’insegnamento divenga accademia, retorica presuntuosa. Evita che vada perduto ciò che è stato donato: pericolo che, purtroppo, non risulta sia stato del tutto evitato.

Poi che l’autonomia interiore è il fondamento, e la decisione non può venire da suggerimenti o da inclinazioni o da preferenze dottrinarie, bensì solo da pura autodeterminazione, è possibile che i qualificati non rispondano positivamente a tale esigenza di libertà e scelgano una ‘via spirituale’ che, per tenue approssimazione, sia una ‘via dei padri’, una ‘via delle ombre’, non una ‘via degli Dei’. E questo è il mistero della libertà: che da essa possa nascere l’imprevisto, ciò che non è predeterminato e perciò non segua un decorso obbligato. Questo può far intendere la responsabilità che assumono coloro che oggi seguono e consigliano dottrine dello spirito, e può spiegare la nostra insistenza sul metodo che può condurre all’esperienza sovrasensibile, in quanto svincoli le forze del pensiero dalla forma astratta in cui sono portate a contraddire le leggi del pensare stesso, epperò dello spirito.

L’umano può essere superato: solo da una simile idea può scaturire il senso di una morale che restituisca all’uomo il significato e il valore del suo essere: morale non cercata in quanto tale, ma scaturente in linea spontanea dalla conoscenza. […] Ma questo è l’umano che esige il superamento, perché l’uomo vero si realizzi. Ed è questo il tempo, questa l’occasione: che potrebbe non presentarsi più. […]

Questo è il momento, perché l’ultima eco di una ‘direzione’ antica si è spenta ora e qualcosa di nuovo è cominciato, che si giunge a sentire, ma di cui non si suppone il volto o il senso, che urge nel segreto degli eventi contemporanei, già diviene storia ma non sotto il segno della conoscenza, bensì della confusione e dell’oscurità. Ciò significa che forze nuove rispondenti alla vocazione dell’uomo attuale all’autonomia, si stanno perdendo in attitudini titaniche, ottusamente distruttive; così come le energie dell’intelletto si vanno logorando in una tensione ininterrotta a sostenere la contraddittoria forma dell’esistenza».          

Perciò non si tratta di trasformare un tipo di uomo in un altro tipo di uomo, bensì di superare radicalmente l’umano.

Nel presente, egli si apre con le forze che trae direttamente dall’Assoluto, dall’«Io sono», la via verso il futuro, verso l’attuazione del suo essere eterno. Il «tornare indietro», il volgersi verso una esaurita religiosità tradizionale, il riesumare i morti riflessi di una «tradizione lunare» e gli antichi metodi di «liberazione», le sentimentali deliquescenze di una pretesa, quanto ingannevole, «via dell’anima», saranno per lui una tentazione distruttiva, una «via dei morti». Saranno la tentazione di una comoda via egoica, l’alibi per evitare lo sforzo e la fatica dell’autentica «Via eroica».

L’autentica Via eroica, oggi, passa unicamente attraverso l’esperienza del Pensiero Vivente, attraverso l’esperienza di quel Pensiero-Folgore, che travolge la mediocrità umana, che è sempre «umano-troppo umana». Il coraggio è aprire il varco a quella Forza-Logos, che annienta in noi tutto ciò che è natura, che dissolve e rigenera secondo lo Spirito ciò che in noi è natura caduta, ciò che è il passato, il già fatto, ciò che è cristallizzato nella morta forma.

Così scrive Massimo Scaligero in Iniziazione e Tradizione, p. 9 :

«Tutto il mondo antico è valido in vista di questa estinzione del sovrasensibile nel sensibile, che si verifica perché l’Io abbia l’esperienza della «individuazione» e della «libertà» e possa indi liberamente – non per spinta fatale e meccanica – riconquistare la smarrita divinità, proprio in quanto gli sia anche possibile perderla definitivamente. L’alternativa è dinanzi all’uomo, oggi, come possibilità di annientamento o di magica resurrezione».

E più oltre, alle pp. 41-42, troviamo le parole severamente ammonitrici:

«L’ora presente è grave : non è una semplice espressione retorica, questa. Chi conosca come stanno le cose, sa che quei pochi che hanno una qualsiasi responsabilità interiore, non dovrebbero ormai perdere più un minuto di tempo, non dovrebbero più rimandare di un attimo la loro decisione per quei superamenti che in segreto essi veramente conoscono di quale natura debbano essere. Compiti del genere non possono più essere rimandati. Occorre nella calma decisione realizzare quella stessa forza che è stato possibile evocare in taluni momenti decisivi, quando per lo schianto di ogni resistenza umana, sembrava che dovessero venir meno  le basi della vita.

Si è alla vigilia di eventi che potrebbero essere gravemente distruttivi per l’uomo o preludere ad una rinascita nel segno dello Spirito».  

Queste le parole che Massimo Scaligero scriveva nel 1959 nell’Avvento dell’Uomo Interiore, e ancor prima nel 1956 in Iniziazione e Tradizione. Da allora, la condizione dell’uomo si è fatta ancor più tragica, e la sua coscienza è spiritualmente ancor più stordita e ottusa, mentre quella che dovrebbe essere la controparte necessaria, l’azione delle comunità spirituali, e in particolare della Comunità Solare – come la chiamava Massimo Scaligero – è spesso fiacca, debole, episodica e approssimativa. Quando poi non si verificano addirittura defezioni e latitanze, tradimenti e sacrileghe profanazioni. La situazione è veramente tragica, e non viene certo aiutata dai surrogati culturali pseudospirituali, o dai misticismi sentimentali, che propongono narcotiche e consolanti vie dell’anima, mentre nel contempo invitano  ad indebolire la pratica della Concentrazione e a diffidare dalla dedizione intensiva e fattiva alla Via del Pensiero, che rimane – agli occhi di coloro i quali amano la verità e la libertà, ed hanno il coraggio di non pascersi di illusioni – l’Aurea Via regia dello Spirito: la Via dei forti, la Via eroica, la Via dei liberi.

Attuare il Rito della resurrezione del Pensiero Vivente dal cadavere del pensiero riflesso, operare quella redenzione del Conoscere, che solo attraverso la Concentrazione è possibile, è realizzare quello che gli Dèi chiedono e si attendono dall’uomo: quella realizzazione di Autocoscienza, Libertà e Amore, che solo l’uomo può compiere, e donare poi agli Dèi. Per questo fu detto che l’uomo è la mèta delle Gerarchie, e non viceversa. Per questo la condizione dell’uomo, malgrado tutte le sue sciagure, è suprema e, secondo il mito ellenico, invidiata dagli stessi Dèi!

Per ora, non voglio dire di più, se non rilevare come oggi al cercatore sincero vengano proposte molte cose che possono attenuare la sua tensione verso l’Assoluto e deviarlo dal sentiero di realizzazione dell’Io attraverso la Via del Pensiero e l’Ascesi della Concentrazione. A buon mercato, vengono proposte vie yoghiche e magiche, riesumazioni sapienziali sufiche, mistiche, sentimentali e parareligiose, pratiche alchemiche e rituali simbolici, partecipazione a logge, a conventicole, e a chiese: tutto ciò è buono solo a riportare ad una esaurita «tradizione lunare», ad una «via dei morti», nella quale non è più presente l’atto dello Spirito, ma solo la sua disanimata spoglia. Per chi cerchi veramente Autocoscienza, Libertà e Amore, la Via vera – la Via dell’Io, quella «eroica», non quella «egoica» – passa per la dedizione, la consacrazione alla Concentrazione, al Rito interiore della redenzione del pensiero. Oggi, per chi abbia veramente coraggio, non vi è altra Via.

4 pensieri su “LIBERTA' E LIBERAZIONE

  1. Come detto nell’articolo, l’umanista, filosofo, kabbalista Pico della Mirandola
    scrisse una “Oratio de hominis dignitate” nella quale esplicita, pur nella forma dell’epoca, pensieri di grande audacia. Forse non dispiacerà al candido lettore poterla leggere nella sua integralità. Eccola:

    «Rispettabilissimi Padri, ho letto, nei testi Arabi, che Abdallah Saraceno interrogato su che cosa, in questa sorta di scena del mondo, considerasse sommamente mirabile, rispose che non scorgeva nulla di più mirabile dell’essere umano. Con questo detto concorda la frase di Mercurio: «Grande miracolo, o Asclepio, è l’essere umano».

    A me che riflettevo sul senso di queste affermazioni non erano sufficienti parecchie di quelle cose che da molti sono addotte circa l’eccellenza della natura umana: che l’essere umano è legame di comunicazione tra le creature, intimo con quelle superiori, sovrano sul quelle inferiori; interprete della natura attraverso la perspicacia dei sensi, l’indagine razionale e il lume dell’intelligenza; collocato tra la fissità dell’eterno e il flusso del tempo e (come dicono i Persiani) copula, anzi canto annunciatore del mondo, secondo la testimonianza di Davide, solo di poco inferiore rispetto agli angeli. Certamente cose grandi queste, ma non le principali, tali cioè da consentirgli di rivendicare di diritto il privilegio dell’ammirazione somma. Perché infatti non ammirare di più gli stessi angeli e i beatissimo cori del cielo?

    Alla fine mi è sembrato di aver capito perché l’essere umano sia tra gli esseri viventi il più felice e quindi il più degno di ammirazione, e quale sia alfine, nella concatenazione del tutto, la condizione che egli è stata segnata in sorte, che non solo i bruti, ma anche gli astri, anche le intelligenze ultraterrene gli invidiano. Realtà incredibile e mirabile. E perché no? Infatti è proprio a causa di quella realtà che a buon diritto l’essere umano è detto e stimato un grande miracolo e una meravigliosa creatura vivente. Ma quale essa sia udite, Padri, e con orecchio benigno siate indulgenti verso questa mia opera, conformemente alla vostra umanità. Già il sommo Padre, Dio architetto, aveva costruito questa dimora del mondo, che noi vediamo, tempio augustissimo della divinità, secondo le leggi dell’arcana sapienza. Aveva ornato con le intelligenze la regione iperurania; aveva animato i globi eterei con anime eterne; aveva colmato le parti escrementizie e melmose del mondo inferiore con una turba di animali di ogni specie.

    Ma, compiuta l’opera, l’artefice desiderava che vi fosse qualcuno che sapesse apprezzare il significato di tanto lavoro, che ne sapesse amare la bellezza, ammirarne la vastità. Perciò, una volta che fu compiuta ogni cosa, come attestano Mosè e Timeo, pensò alla fine di produrre l’essere umano. Ma tra gli archetipi non c’era alcuno su cui foggiare la nuova progenie, né c’era nei tesori qualcosa da elargire in eredità al figlio, né c’era tra i seggi di tutto il mondo un luogo dove potesse sedere questo contemplatore dell’universo. Tutti erano ormai pieni; tutti erano stati assegnati agli ordini, sommi, medi, infimi. Ma sarebbe stato tuttavia indegno della potestà paterna mancare a quest’ultimo atto della creazione, quasi fosse impotente; indegno della sapienza ondeggiare per mancanza di decisione in un’opera necessaria; indegno dell’amore benefico che colui che avrebbe lodato negli altri la divina liberalità fosse indotto a condannarla a suo riguardo.

    Stabilì infine l’ottimo artefice che, a colui al quale non si poteva dare nulla di proprio, fosse riservato quanto apparteneva ai singoli. Prese perciò l’uomo, opera dall’immagine non definita, e postolo nel mezzo del mondo così gli parlò:

    «Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare affinché avessi e possedessi come desideri e come senti la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto. Agli altri esseri una natura definita è contenuta entro le leggi da noi dettate. Tu, non costretto da alcuna limitazione, forgerai la tua natura secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente guardare attorno tutto ciò che vi è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che preferirai. Potrai degenerare nei esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini».

  2. Hugo nelle prime righe della sua nota, menziona generosamente Marzia e Daniel che collaborano ad Eco ma sono pure sinceri amici che (suppongo) mai si sono incontrati di persona.

    Ha fatto bene: prendendo da Marzia un po’ di azzurra trasparenza e da Daniel, infaticabile e modesto, la solidità tranquilla della buona, solida terra.

    Per fare cosa?

    Per costruire, con tenacia e rigore, pietra su pietra (tutte ben squadrate) un edificio: non quello che viene costruito dalle “archistar” e che di solito occupa soltanto uno spazio, ma qualcosa di più importante, che proviene dalla sapienza del sacro: una torre o persino una cattedrale. Insomma uno di quegli edifici che si erigevano per la maestria dei Costruttori, i quali sapevano distinguere ciò che è sacro da ciò che è profano, cioè effimero.

    La cattedrale è il luogo dello Spirito e se sai ascoltare, essa canta: le sue pietre cantano. Se in silenzio le ascolti esse cantano all’uomo, alle sue tre parti: corpo, anima e spirito.

    Così ha saputo esprimersi l’articolo di Hugo: fatevi un gran bene: rileggetelo con calma, attraversatelo silenziosamente come si è usi a fare in una cattedrale.

    Poi, mi dispiace, ma non trovo giuste parole per esprimere un mio commento che non paia una specie di salamelecco all’Autore…

    • Io dopo essermi accorta di “quel che aveva scritto”, ho provato a dirgli che era “una cosa” ma “una cosa…” pazzesca…..ma ho dovuto rinunciare per non sembrare pure io scontata, diciamo che sapevo che il mio apprezzamento non poteva comunicare niente, e allora si e’ smorzato.
      E’ davvero da leggere con calma, che’ il volume della cattedrale potrebbe scoraggiare e distrarre dalla struttura, e da essenziali …..”dettagli”.
      Attardatevi a leggere questa Archittettura di Hugo De Paganis, perche’ ne sarete premiati.
      Grazie e buona giornata Hugo de Pagani.

  3. Grazie Hugo per questo bellissimo e sapiente quadro sulla genesi, e sulla meta dell’Uomo!
    E’ una storia che fa vibrare l’anima e che risuona dentro con forza perché la verità è nascosta in ognuno di noi e preme per affacciarsi alla luce della coscienza.
    Mi colpisce il titolo che hai dato al tuo scritto: Libertà e Liberazione, ma permettimi, forse si potrebbe anche dire Liberazione e Libertà, perché in questi due concetti si può veder racchiusa tutta l’evoluzione dell’uomo, dal passato al futuro come dici tu.
    Liberazione intesa come l’uscita dell’uomo dal passato paradisiaco, intesa come la caduta e l’allontanamento dal Padre, dal dato di natura, alla ricerca di qualcosa di assolutamente nuovo e in questa prima metà dell’evoluzione, l’uomo è solo un portato di volontà superiori esterne a lui, come viene ben descritto dal mito.
    Poi, la svolta dei tempi e la Luce dello Spirito, ora dentro l’uomo, che inverte la rotta e dà la possibilità, al “figliol prodigo” di risalire verso quel cielo perduto, portando però con sé qualcosa di assolutamente nuovo: la Libertà, dono così ambito non solo dall’uomo ma così necessario anche agli dei. Però la svolta, la seconda metà dell’evoluzione, si può dire che sia appena iniziata, perché duemila anni sono un piccolissimo passo nel futuro aperto davanti all’essere umano.
    La Libertà e l’Amore, due facce della stessa medaglia, lo attendono alla fine del percorso ma nella risalita l’uomo è lasciato sempre più solo, nel senso che la Luce dentro lui deve essere accesa e usata a partire dalla sua volontà individuale, dalla sua libertà, altrimenti rimane al buio.
    Un compito non da poco, un compito che dovrebbe entusiasmare se capito nella sua profondità, per dare forza e coraggio al viandante in cammino. Resta da sperare che sul quel cammino il bilancio dei “dispersi”, alla fine, non sia irreparabilmente troppo grande!

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