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Può accadere e talora accade che una serpentina musicalità intacchi il cuore, il sangue di un uomo e graffi le catene a cui si era fatto servo. In queste catene egli aveva creduto di amare qualcosa o il mondo, per esse ha dovuto sempre complementarsi con la morte. Piagato dalle catene egli aspira forse alla liberazione: subitamente trovando una genia di maestri, seguaci e succubi: avidi di ghermirlo con le catene dello spirito contraffatto che giganteggia nell’obbedienza, nel sacrificio, nel simbolismo, nella rituale osservanza.
Quante sono (e sono state) le creature irretite nel metafisico campo concentrazionario allestito da un mediocre orientalista, disinvolto manipolatore di sacri simboli, quasi antesignano dei tanti strutturalisti e comparativisti che imperano nelle Università? Arido e zelante funzionario dello Stato e dello spirito, minuzioso ragioniere e topologo del sopramondo: dove questo debba o non debba stare… Però geografo di stretti confini: le iniziazioni mariali, gli asceti orientali contemporanei, la spiritualità nipponica, ecc., temi elusi, anzi esclusi per principio o per partito, dalla pedante visione materialistica di questo “indicatore” dello spirito.
E come non ricordare a bilanciamento del primo, l’affascinante figura che accese cuori coraggiosi, trascinandoli nel sogno di perigliose operazioni, mai praticate ma, in compenso, rimescolate con altre pratiche, altre dottrine, nominalmente sempre osteggiate e respinte?
Invero strani maestri di strani discepoli: sempre in formale disaccordo ma sostanzialmente simili nella letargia che gli permette di abbonarsi al metafisico omogeneizzato o alla potenza facile. Nel momento di una tra le più gravi crisi dell’uomo, i primi passano il tempo ad angosciarsi per l’eventuale profanità celata tra le vesti di Pai Chang, dimentichi che “il Dharma fondamentale del Dharma non ha Dharma”, mentre i secondi si smacchiano di ogni contaminazione lunare minacciante la virilità olimpica di individui assoluti, conquistata con l’abbandono ai sentimenti del loro maestro.
Questi erano i grandi scogli di ieri: pericolosi per tutti, mortali per alcuni. Per mantenere la metafora, appaiono ora semi sommersi dall’informe di acque che plasmano a getto continuo semplici riverberi umidi, quasi che gli uomini non meritassero neppure i cimenti rocciosi che hanno caratterizzato buona parte del secolo scorso. Certo, la pletora di ciarpame esiste, è abbondante: iniziati imprenditori, divulgatori di pseudo digesti, blasonati ciarlatori: omiciattoli bidimensionali!
Il ricercatore vero, dotato di discriminazione, sa o sente che un vero esoterismo inizia con la percezione diretta delle Forze, ossia da una posizione dinamica del tutto estranea alla cultura esoterica, al romanticismo esoterico ed al bazar dell’occulto, che non smuove alcun limite al desolato quotidiano, ma anzi ingravida il sordido e l’abbietto di cui è capace l’anima a profondità insospettabili.
E’ possibile dire che dietro lo scenario ingenuamente consolante di un vasto e rinnovato interesse per le antiche vie sapienziali (vedi Yoga e Tantrismo) non ci sia nemmeno una esigenza di tipo mistico-religioso ma piuttosto una larvale tensione psichica verso un mondo trasognato, intermedio, potremo dire “Junghiano” che sia in grado di fornire quelle evasioni a cui altri disgraziati si dedicano esaltando o deprimendo funzioni organiche con la chimica delle sostanze psicotrope.
Il ricercatore sveglio attraversa e supera o evita tali malsane contrade, poiché animato da attitudine più alta, e se orientato ad… Oriente, giunge alle indicazioni sorgive dello zen, dello yoga e parimenti ai più limpidi testimoni contemporanei di tali sentieri: Shri Aurobindo, Ramana Maharshi, Paramansa Yogananda, ecc. V’è un mondo o un sopramondo in cui i giganti dello Spirito possono incontrarsi? Credo di sì: hanno tutti qualcosa in comune: una ricerca individuale senza filologie del Sacro, una illimitata audacia, attinta all’inesauribile sostanza dell’essere. “Il samadhi è un’evasione…” scrive Aurobindo (Guida allo Yoga, pag.58. Roma 1975). In Aurobindo il suo “Yoga integrale” non si fonda sulle note tecniche del Hatha yoga, Jnana yoga, ecc. e la panoplia di pranayama, asana, mudra, mantra.
Yoga integrale è yoga non frammentato, yoga della consacrazione della coscienza, della vita e del corpo alla universale potenza della Vita Divina. Qui, dove l’uomo si trova, incarnato nella fisicità più densa, deve penetrare la Luce: fino alle oscure potenze della vita organica. Tutto va rovesciato e reso strumento della vita supermentale: impresa non contemplata nell’ortodossa ascesi yoghica, né dai coronamenti del Nirvikalpa samadhi né dalla liberazione Kaivalya mukti. “Il fine dello yoga è sempre difficile da raggiungersi, ma il nostro è ancor più difficile di ogni altro; esso è solamente per coloro che… sono risoluti ad affrontare tutto e a correre tutti i rischi…” (Op. cit. pag. 74). “Il fine del nostro yoga non è solo l’unione con la coscienza superiore, ma la trasformazione, tramite il suo potere, della coscienza inferiore, compresa la natura fisica” (Op. cit. pag. 83).
F. Hiebel, formale presenza nell’Edificio, dalle pagine del “Das Goetheanum”, soldatino attento alla propria funzione di astratto teorico dello Spirito, attenendosi all’analisi della terminologia dell’asceta bengalese, contesta ad Aurobindo un indirizzo estatico, dunque incapace di cogliere le esigenze individualizzate dell’uomo “cosciente”. Contento lui… Lasciamo parlare Aurobindo: “ Ciò che noi intendiamo quando parliamo di Vita divina è il compimento spirituale dell’impulso alla perfezione individuale e alla pienezza interiore dell’essere. E’ la prima condizione essenziale di una vita veramente umana sulla terra e ciò giustifica di fare della perfezione individuale la nostra prima preoccupazione. Se la verità del nostro essere è spirituale e non meccanica, allora deve essere il nostro stesso essere a determinare la propria evoluzione. La legge del karma è solo uno dei processi di cui a tal fine si serve. Il nostro Io deve essere più grande del karma. E’ inconcepibile che il nostro spirito sia una macchina nelle mani del karma.”
Su tali parole anche l’occidentale cosciente potrebbe riflettere, laddove l’idea del karma porti ad un passivo (e naturalmente virtuoso) abbandono di sé a quanto succede e trascina.
Indubbiamente è vero che luminose figure come Aurobindo o Ramana si muovano nello spazio dell’uomo orientale che però non sempre coincide con gli ambiti geografici attribuiti a questi o a quelli. Vi sono discepoli che non sopportano le contraddizioni culturali e metodologiche tra l’opera di Aurobindo e quella del dott. Steiner e ciò rimanda più che altro alla mancanza di esperienza e all’incapacità di sentire fiducia nell’azione provvidenziale del Mondo spirituale: mai unica e uniforme ma piuttosto articolata secondo necessità e rispondenze diverse. Il problema di una comprensione vera con simili ascesi non sta tanto nella loro eterodossia ma piuttosto nell’ampia incapacità umana di trovarsi in possesso di talune qualità elementari ed imprescindibili a tali vie.
Però è anche vero che col samadhi non si risolve l’enigma che la coscienza normale offre attimo dopo attimo: tra il conto della spesa e il samadhi non v’è filo che l’Oriente sia in grado di tendere. Autorevoli indicatori quali l’Evola, il Guenon e, su diverso piano Mircea Eliade, Aldous Huxley e altri ancora, hanno scelto il metafisico Oriente abbandonando l’Occidente alla sua compiuta desacralizzazione. Inclini alle manifestazioni culturali dello spirituale, non hanno neppure sospettato che lo Spirito, ridotto da essi ad apparato o cosa, sia vivente. E che non va o viene ma presenzia tutta la realtà e persino quanto in essa sembri esterno ed estraneo. Quando esso venga ridotto a identificarsi in sistemi o rituali, in mancanza dei quali pare non esserci, è il metro realistico della profondità di simili indicatori.
Nel più eccezionale dei casi il limite interiore di tali anime si riassume nel sintetico assunto che la via sarebbe l’arresto delle funzioni mentali. Condizione plausibile prima di Buddha e del Cristo. Poiché evitando le funzioni si evita l’esperienza del loro determinarsi nella conoscenza del mondo esteriore. Infatti il mondo greco, la nascita della filosofia, lo studio artistico del corpo divengono sviluppo delle determinazioni: la logica, la filosofia della natura non si estinguono nella funzione conoscitiva ma sono formative di un’autocoscienza che nasce e cresce da una premessa e verso direzione opposta al senso intimo dell’antico yoga.
In quanto occidentali, sarebbe solo ignoranza prendere posizione contro lo yoga, mentre sarebbe vitale rendersi conto che la dinamica pensante a cui si attinge ora, sia per l’ordinario che per l’iniziale passo nella ricerca spirituale è polare rispetto all’antico conseguimento yoghico di liberazione e alla basale struttura dell’asceta antico. E’ un dato facilmente sperimentabile (specie per anime già operanti in Oriente) il fatto che attualmente con il sadhana si può giungere ad una “trance” povera di coscienza e ricca di fenomeni extrasensibili. I tanti che godono di questa condizione dovrebbero riflettere su quanto può valere una coscienza desta, anche se apparentemente priva di esperienze speciali (è questo il fondamento delle strane paure che poi vengono addebitate alla concentrazione: può succedere che durante i primi tempi della pratica, l’operatore non si accorga minimamente di scivolare dalla destità al trasognamento, situazione superabile con uno sforzo giornaliero e con la moralità intrinseca al pensare).
Tutto questo non inficia l’altissimo valore di asceti del calibro di Aurobindo o Ramana: essi hanno intuito (sperimentato) il mutato assetto della coscienza umana e, di conseguenza, di rinnovate modalità operative: individuando nell’Io il senso delle discipline o percependo che una vera liberazione non dovrebbe eludere la sfera dell’incarnazione.
E’ auspicabile, per l’occidentale moderno, un sentiero che parta dalle sue peculiari condizioni di coscienza, estranee alle nobili forme dell’antica tapasyâ, temporaneamente valide per l’asceta in ritardo o come ricapitolazione di remoti percorsi. Rintracciare in Occidente il filo di insegnamenti autentici può sembrare vano se si ha sonnambolicamente aderito al ripiego orientalistico degli orientatori professionisti: occorre non cadere nell’errore di confondere la Tradizione perenne col prodotto dei sistemologi. Non è solo problema di logica e acuto giudizio, rimanda piuttosto al sentimento di una antica volontà o scelta che si spiega lungo le azioni della vita terrestre. Ciò non dovrebbe essere smorzato!
“non è necessario dapprima che tale evento sia consapevole: l’importante è che esso sorga nell’anima del discepolo nella forma di un intento profondo: di fedeltà alla propria Tradizione interiore, intuita in rari momenti, di cui non gli può essere abituale il ricordo. Come pura Tradizione interiore…essa esprime la sua assoluta indipendenza rispetto alle espressioni riflesse della Tradizione formalmente regolari” (Scaligero, La Tradizione solare).
Chi è debole, perciò bramoso di integrarsi in strutture formali (perpetuando il materialismo interiore), finisce nelle putrescenti braccia dell’apparato cattolico o massonico o magistico. In ciò alcuna critica: non c’è scelta per carenza del soggetto. Inoltre potenze avverse distolgono l’anima dai pochi ispiratori che garantiscono con l’esperienza diretta le indicazioni elargite. In negativo vale come prova la patente di maestro (logicamente insensata) elargita a Evola e Guenon, che furono assai discutibili e totalmente faziosi intellettualizzatori dei testi tradizionali.
Maître Philippe, Rudolf Steiner, Massimo Scaligero: quanti salami di sacrestia hanno torto lo sguardo e tappate le orecchie a questi nomi! Inaccettabili!
E qui mi fermo, perché il resto lo sapete meglio di me.
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