L’EROISMO DELLA CONCENTRAZIONE E L’ASCETA

Massimo Scaligero

L’Ascesi del Pensiero – lo abbiamo detto e ripetuto sino a non avere più né fiato né parole – è una Via eroica. Lo è perché essa va in rotta di collisione con il millenario dominio che la natura inferiore, afferrata e mossa da deità avverse, esercita da millenni, in maniera incontrastata, sull’uomo. La Via del Pensiero va in rotta di collisione anche nei confronti di tutta una tradizione antica, orientale e occidentale, che all’uomo attuale, caduto definitivamente nella prigionia somatica, difficilmente oggi può essere d’un qualche aiuto.

Non che in testi sacri, come i Veda, le Upanishad, la Bhagavadgita, o nei testi del Buddhismo Theravada, o Mahayana, o Vajrayana, o nel Taoismo, non vi siano profonde verità di valore eterno, ma l’uomo attuale – ossia l’uomo cerebrale, intellettualizzato, e in definitiva “intelligentemente” animale – ne è tagliato fuori, e allo stato attuale delle cose non può granché giovarsene. La ragione di ciò la mette bene in evidenza, senza minimamente edulcorarla, Massimo Scaligero già nel primo capitolo del Trattato del Pensiero Vivente, là dove dice:

«Così la morte del pensiero è la condizione del suo dialettificarsi in forme diverse, solo in apparenza contrastanti. Onde se all’uomo venisse oggi comunicato il segreto dell’essere, gli sarebbe inutile, perché non saprebbe pensarlo: potrebbe pensarlo solo a condizione di ridurlo a quella riflessità, o astrattezza, al cui livello non è possibile si dia qualcosa dell’essere».

Difficilmente – per non dire che è affatto impossibile – l’uomo attuale, cosciente unicamente a livello del mentale astratto – unica dimensione nella quale può muovere liberamente, e illusoriamente, il suo pensiero morto – per fare solo qualche esempio, può penetrare testi, di mirabile bellezza e profondità, della tradizione hindù come la Brihadaranyakopanishad di Yajñavalkya, o il Drigdrishyaviveka del grandissimo Shankara, o della tradizione buddhista mahayana come il Prajñaparamitahridayasutra o Sutra del Cuore, o il Vajracheddikasutra, o Sutra del Tagliatore di Diamanti, che l’orientalista Raniero Gnoli (grande amico di Massimo Scaligero) traduce anche come La Fenditrice del Fulmine, perché il pensiero astratto, riflesso, non può penetrare minimamente realtà come il Brahman, dell’Induismo, o la Shunyata, ossia la Vacuità, del Buddhismo Mahayana.

L’uomo attuale, innamorato della tradizione orientale, non si rende affatto conto ch’egli pensa concetti metafisici come il Brahman, o la Vacuità, o il Tao, esattamente con lo stesso pensare riflesso, astratto e disanimato col quale egli pensa una sedia o una forchetta. Ei non muta certo di livello solo perché invece di pensare la prosaica ma utilissima forchetta, pensa invece eccelse realtà metafisiche. Ma l’uomo attuale, ingannato dall’infida natura alla quale è identificato, difficilmente si rende conto e si arrende ad una tale evidenza.

E lo stesso vale per la tradizione di sapienza del nostro Occidente. Giusto per fare solo qualche esempio, chi è che possa, oggi, fare l’esperienza del sovrasensibile Mondo delle Idee del quale parlava Platone, o di quella unione tra l’Intelletto possibile e l’Intelletto agente della quale parlava Aristotele, e che nel nostro Medioevo venne cantato con lirici accenti d’Amore da Guido Cavalcanti, da Dante Alighieri e da tutti i Fedeli d’Amore? Chi è che possa – ripeto: oggi – avere concreta esperienza interiore delle realtà che stanno dietro ai miti dell’antica tradizione misterica, o dei testi della tradizione ermetico-alchemica, o di quella rosicruciana?

Bando alle sentimentali, mistiche e poetiche illusioni, e guardiamo coraggiosamente in faccia la cruda realtà. La situazione conoscitiva dell’uomo attuale è tragica, e a nulla vale evitare di guardarla: non farebbe che peggiorare la sua situazione, sino a renderla irrecuperabile. Innumerevoli volte Massimo Scaligero ripete, nella sua aurea opera, come l’attuale pensare cerebrale sia ormai anemico, disanimato, astratto, riflesso, senza interiore realtà, e capace solo di cogliere ombre menzognere e non autentiche realtà. E meno che meno la realtà spirituale. In effetti, l’uomo, tramortito nella sua identificazione con la natura somatica è sì cosciente del pensato, ossia dell’oggetto del pensiero, ma è del tutto incosciente dell’atto stesso del pensare. Ossia egli è cosciente del mero effetto di una causa a lui perfettamente ignota. E questo – con buona pace della superstizione psicanalitica – è l’unico inconscio del quale sia lecito parlare. L’essere umano, dunque, è sì cosciente (spesso poco anche questo…) del fatto, ossia del pensato disanimato, ma non è punto cosciente dell’atto del pensare: la sua è una conoscenza monca, tagliata fuori dalla sostanza della vita che potrebbe conoscere s’egli fosse cosciente dell’atto pensante stesso. Ossia annientando l’inconscio. Ed è quanto afferma, sempre nel primo capitolo del Trattato del Pensiero Vivente, Massimo Scaligero:

«Conoscendo solo il pensato, l’uomo veramente non può dire di conoscere: in realtà non ha il conoscere, ma il conosciuto, privo del momento interiore per virtù del quale è conoscenza. Il pensiero deve prima venir pensato, cadere nella riflessità, per essere da lui conosciuto. Ma, conosciuto, cessa di essere conoscenza».

E questo ci porta direttamente al punto di uscita dalla ferrea prigione della riflessità, che ci reclude nella natura somatica e animale. Perché non si diviene coscienti dell’atto del pensare, aggiungendo ai pensati altri pensieri, bensì attraverso la pratica interiore, ossia attraverso la Concentrazione. E, sempre Massimo Scaligero così scrive nel seconda di copertina interna dell’Avvento dell’Uomo Interiore. Lineamenti dell’esperienza sovrasensibile, Sansoni, Firenze, 1959, in quella che, a mio avviso, è una delle più belle – veramente mirabile – sintesi della Via del pensiero:

«Chiave del senso della presente epoca e del valore attuale della Iniziazione, quest’opera è dedicata a coloro che hanno ancora il coraggio di volere l’Uomo. Viene indicata una «via spirituale» che mentre è di là delle tradizioni, attinge ad un segreto e imperituro insegnamento,: che un tempo agì attraverso le metafisiche dell’Oriente, oggi opera, inconosciuto, nell’anima dell’Occidente. La Luce sorge ormai dall’Occidente per chi giunga a scorgerla. La tecnica dell’esperienza sovrasensibile descritta in questo volume, già contiene in sé quanto di essenziale agì nello Yoga, nel Taoismo, nella «via» del Buddha, nello Zen, nel Tantrismo, ma si trae precipuamente dall’attivazione di un ulteriore elemento interno, che può sorgere solo dallo svincolamento del moderno pensiero razionalistico e astratto dai contenuti finiti e sensibili, valsi unicamente alla sua formazione. Per l’uomo moderno, è questo pensiero che, risorgendo come magica forza, diviene veicolo del «soprannaturale» in lui, epperò virtù risolutrice degli urgenti problemi del tempo».

Ciò mostra come le luminose esperienze interiori dell’Oriente – così come quelle dell’autentico Occidente interiore – non sono perse se non per l’astratto pensiero riflesso, ma che esse risorgono nuovamente per l’asceta che realizzi la resurrezione del Pensiero Vivente dalla tomba della conoscenza morta. Ovvero che compia il Rito della Concentrazione.

Nell’Ascesi del Pensiero si compiono atti di pensiero, e si ripetono volitivamente tali atti sino a che la corrente della volontà non fluisca potente nell’atto stesso. Normalmente non si è coscienti di tale atto genetico del pensare – senza il quale non esisterebbe neppure il pur pallido pensato – perché troppo debole, sfrangiata, anemica, allentata è la volontà nel pensare. E non lo è, perché la volontà è letteralmente “sbracata” – a Roma direbbero “abbioccata” – e affogata nella corporea vitalità animale.

Per questo la pratica della Concentrazione è un Ascesi eroica: perché essa deve lottare tenacemente, senza veruna misericordia, contro una natura animale, nei confronti della quale è imperioso e vitale strappare la volontà, che vi è identificata in un comatoso stato di tramortimento. Ma se una tale Ascesi è eroica, ciò non significa affatto che eroico sia automaticamente anche l’asceta. Anzi all’inizio della Via – diamo nuovamente bando a pericolose illusioni – egli non lo è per niente, e semmai dovrà diventarlo strada facendo. Ma, come usa dire, «regnum regnare docet», «il regno insegna al regnante il regnare», ossia le cose le si apprendono realmente, solo «facendole», ovvero operando concretamente: smuovendo la volontà, praticando e non filosofando.

Ora, lottare contro una natura inferiore, astuta e, da molti millenni, dominatrice, non è cosa semplice, né indolore. Ciò implica una pratica indefessa, ininterrotta, tenace, fedele, che si protrae , anche se non lo si avverte, sui tempi lunghissimi: per mesi, anni, decenni, per tutta la vita. Giovanni Colazza, nelle sue conferenze al Gruppo Novalis, nell’inverno 1944-1945, sul libro L’Iniziazione. Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori di Rudolf Steiner, osserva che il discepolo deve giungere ad «amare» di per se stessa, senza aspettative egoiche, la disciplina interiore, e perdere un po’ il senso del tempo che passa. Il quale, davvero, non passa invano.

Ogni giornata della pratica interiore deve essere considerata come l’unica a disposizione per la interiore pratica realizzatrice. Ed ogni singolo esercizio di Concentrazione deve essere considerato come unico: come quello che, se ad esso doniamo l’interezza della nostra forza interiore, ci può portare alla concreta esperienza spirituale. Massimo Scaligero più volte ha esplicitamente affermato che non sono particolari esercizi, aristocratici e complicati, quelli che possono portarci all’Iniziazione, ma l’esercizio – magari quello meno accetto e più faticoso e avversato per la nostra natura, ossia la Concentrazione – nel quale, malgrado ogni ostacolo, si sia capaci di mobilitare e metere in atto tutta intera la nostra forza di volontà.

A suscitare la volontà dell’intrapresa della pratica della Concentrazione, la migliore spinta, l’impulso più radicale e potente è – come abbiamo detto altrove – è la disperazione. L’agire «senza speranza né timore» è, per usare un linguaggio “geometrico”, una condizione assolutamente necessaria, ma di per sé potrebbe – anche se in realtà lo dovrebbenon rivelarsi sufficiente. Perché è difficile tener dèsta questa lucida disperazione, contro la quale giuoca contro la lunghezza della lotta, senza tempi umanamente prevedibili, e giuocano pure i ripetuti periodi di aridità interiore e, più che la stanchezza, la routine, e le abitudini.

Massimo Scaligero definiva le abitudini le rughe dell’anima. Routine e abitudini appannano la vivezza della memoria interiore, e fatalmente sfrangiano e allentano la tensione della volontà. Un aiuto sono le prove della vita, le situazioni di pericolo nelle quali può accadere di incorrere nel procedere del cammino interiore. Ciò è pacifico, per non dire addirittura scontato. Ma data l’imprevedibilità del darsi di prove e colpi del destino – ancorché paradossalmente auspicabili per il discepolo dell’Iniziazione – è bene trovare dentro di sé, e non fuori di sé, un antidoto efficace allo smarrimento della memoria del còmpito interiore, liberamente assunto nei momenti di lucida e intensa disperazione.

Un tale antidoto è l’operare nell’Ascesi in uno stato di mobilitazione permanente: un lottare senza tregua. Si tratta, sostanzialmente, di non accontentarsi mai, ma di esigere gradualmente sempre di più dalla propria volontà. Sino ad un incalzare la natura inferiore, e cercare di andare oltre quel limite che un tempo ci fermava, e cercare di superarlo.

Ciò, naturalmente, costa sforzo, e molta fatica. Alfredo Rubino – il quale, oltre che un discepolo veramente fedele di Massimo Scaligero, fu anche un autentico praticante interiore, ingiustamente calunniato proprio da coloro che meno avrebbero dovuto – soleva dire, che l’Ascesi è vera quando la natura inferiore comincia a gemere e a dissolversi sotto l’imperiosa pressione dello Spirito, e che l’esercizio interiore comincia ad essere veramente efficace, proprio quando in noi la natura inferiore astutamente suggerirebbe di cessarlo, perché «hai fatto abbastanza».

Sempre Alfredo Rubino metteva in evidenza come, nella Via interiore, «rimanere fermi è andare indietro», e come sia necessario chiedere sempre di più alla nostra volontà ascetica: saviamente e gradualmente, ma anche coraggiosamente ogni volta fare un po’ di più. Sino ad osare in particolari momenti – adeguatamente preparati – il tutto per tutto.

Per fare un paragone, un nuotatore che in un fiume impetuoso non lotti nuotando contro la corrente, da essa viene portato indietro. Già per rimanere immobili in un punto della corrente occorre nuotare energicamente. Se, poi, si vuole addirittura risalire la corrente è necessario nuotare ancor più energicamente, o – secondo un’immagine Zen, cara a Massimo Scaligero – essere capaci del “salto del carpione”, di un guizzo col quale si vada oltre se stessi, e i propri illusori, ma ben costringenti, limiti.

Questo osare l’inosabile, questo incalzare senza tregua la riottosa e recalcitrante natura, questo interiore lottare senza tregua, questo mantenere la volontà in costante, permanente mobilitazione, è – a mio avviso – ciò che mantiene viva la lucida e dinamica disperazione. A sua volta, la radicale lucida disperazione impedisce il cadere nella routine, nella spenta abitudine, e avviva l’ardore della volontà.

Senza questo ardore e questa disperazione l’Ascesi, oggi, in un mondo che velocemente erode le forze interiori, va poco lontano. Occorre nei confronti della Concentrazione – mi si passi l’ossìmoro – essere freddamente ardenti e ardentemente gelidi: occorre innamorarsi della Concentrazione, e farla, ripetendola instancabilmente. Occorre non porsi limiti nella pratica della Concentrazione, e voler gradualmente superare i limiti – che sono i limiti della natura personale – nel praticarla: sia di tempo nell’esecuzione che di frequenza di essa.

Nessuno è veramente “eroe” all’inizio di questo arduo Sentiero, ma tutti – se vogliono, se “disperatamente” vogliono – possono diventarlo lungo questo impervio cammino. Gli Dèi rispondono ai coraggiosi, ai disperati, ai consacrati. Che poi sono – o strada facendo lo diventano – le stesse persone. Poiché non vi è limite che non possa essere superato, non vi è limite che non sia limite di pensiero e del quale non possa essere immaginatolo svincolamento e voluto il superamento. Occorre volere, intensamente volere, volere oltre ogni limite raggiunto, perché si può volere – come mi insegnò Massimo Scaligero – anche oltre i limiti del karma. E la Concentrazione è il veicolo aureo di tale audace, anzi temerario, volere. Temerario perché il discepolo dell’Iniziazione non lotta contro complessi psicologici, o limiti ideologici et similia, ma contro avverse deità distruttive, che vogliono asservire l’uomo o distruggerlo.

Si dirà, forse, che diciamo sempre le stesse cose. Ciò è senz’altro vero, ma purtroppo è vero perché – per usare l’espressione sportiva di un caro amico, veterano della pratica interiore – «siamo sempre fermi ai blocchi di partenza», e si teme che l’Ascesi funzioni davvero – perché è verissimo che, se praticata con energia e sincerità, essa agisce potentemente – e si teme, vilissimamente, di dover essere quell’Io che trasformerebbe radicalmente la nostra vita e il nostro esistere. E poiché segretamente il praticante conosce essere la Concentrazione il veicolo più potente della volontà dell’Io, allora spesso essa viene fatta al risparmio, “rimandando” l’incontro, o lo scontro con il limite. Ci si tiene – prudentemente – al di qua del limite, e si evita di raggiungerlo. Il coraggio, l’eroismo dell’Ascesi è voler incontrare – costi quel che costi – tale limite nella Concentrazione, ed operare coraggiosamente, con tenace volontà consacrata, a superarlo. 

Mi raccontava il mio amico C., temibile lupaccio e asceta d’altra dottrina, che una persona di rango spirituale, molti anni fa, gli comunicava che oramai la maggior parte della gioventù (ma non solo quella…) «era nel miglior dei casi razionalista, ed aveva la volontà smarmellata» e che «una Via spirituale deve trasformare il discepolo in un miles spirituale», ed è giusto perché, mitriacamente, «vita est militia sacra super terram». Oggi vi è nel mondo una lotta per l’uomo o per la sua distruzione: una lotta che non consente di essere neutrali. L’eroismo è voler essere l’Io: è volere illimitatamente nella Concentrazione, consacrando la forza all’essere originario dell’Io.

2 pensieri su “L’EROISMO DELLA CONCENTRAZIONE E L’ASCETA

  1. Io mi ritrovo – al mio grado -nelle parole usate da Hugo nel suo articolo, sopratutto per esperienze degli anni passati; tuttavia chiederei cosa intenda con “periodi di aridità”, perché proprio quando la pratica della concentrazione era più intensa, sperimentavo una condizione contraria all’aridità (al di fuori della apsichicità che sperimentavo durante l’esercizio): mi aprivo alla Vita e tutti i giorni apprendevo qualcosa di più su di me e sul mondo, e questo mi riempiva di gioia e gratitudine, e ricevevo tante conferme interiori (oltre alle esperienze indialettiche date dall’esercizio di concentrazione). La dedizione all’oggetto della concentrazione diveniva dedizione al quotidiano, inteso sia come lavoro su sè per mezzo degli esercizi ausiliari, sia nel senso di dedizione alla vita “ordinaria”(cioè in rapporto con gli altri e col destino) che ne veniva arricchita. Parlo al passato perché le condizioni ora sono un po’ differenti ma ho la ragionevole convinzione che all’aumentare della dedizione alla pratica interiore corrisponda un progresso corrispondente nella Via (così parla la mia esperienza, anche se conosco anch’io gli alti e bassi, che imputo a me stesso).

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