(Dedicato al “meritevole” reduce del Celeste Impero)
Un mio vecchio amico (anzi piú che un amico è un fratello gemello) ha scritto su questo – ormai glorioso – mensile (L’Archetipo), l’ennesimo articolo che riguarda l’ascesi indirizzata verso la Concentrazione.
Mi sembra che abbia voluto parlare dei tempi, cioè della durata dell’esercizio. Credo abbia fatto bene, poiché ha calcato sul tanto per non burlarsi dei lettori attivi, ma relativizzandolo, perché è in effetti relativo ad un milione di condizioni e situazioni individuali. Però so bene – ne parlammo insieme, come sempre – che lo esaspera il continuo sbucare, come i funghi dopo una notte piovosa, qualcosa dell’eterna litania dei tempi fissi, naturalmente inclinati a ottantanove gradi verso il minimo.
Purtroppo i quattro gatti che ne sanno qualcosa, sanno pure, con montagne di esperienza diretta e confrontata per tanti lustri, che cosí non è, che cosí non può essere, e che, se qualcuno parla cosí, o fa accademia di quello che non fa, oppure è prezzolato come ottusa manovalanza dagli agenti klingoniani.
Questo perché, anche sul gradino piú elementare, ma ampio e faticoso, del “dominio del pensiero” ordinario, non è certo una semplice questione di pensiero (quello che “non paga dazio”): già qui tutta l’anima viene messa in gioco. Nemmeno nel corpo fisico umano le singole parti e i grandi sistemi sono realmente separati. Lo possiamo capire con qualche semplice immagine tolta dal sensibile.
Se oggi mi dedico alla corsa, potrei dire che stanco gli arti inferiori. Dunque domani potrei dedicarmi alle pagaiate in canoa e riprendere a correre dopodomani. Come sembra logico! È un vero peccato che cozzi contro la realtà: dopo qualche settimana accuserei tutta la dozzina di sintomi del superallenamento, mi beccherei il raffreddore per un nonnulla, i valori ematici sarebbero stravolti, diverrei un perfetto raccoglitore di ogni germe vagante in vena di conquista e cosí via.
Questo perché il corpo è un insieme interconnesso, e non v’è organo che venga sollecitato separatamente: non v’è per il fegato un lunedí di lavoro e il martedí di riposo (come tutto sia “collegato” lo si osserva, con conoscenza e senza sforzo, persino nel cadavere aperto per bene in autopsia completa, se lo si guarda spregiudicatamente).
Nell’anima, le forze sono ancor piú frammischiate, fluiscono di continuo le une nelle altre: in tal modo che separare il pensiero dal sentire modifica sia il pensiero che il sentire.
Tutto l’uomo interiore interviene in un atto cosí radicale com’è la Concentrazione (nemmeno la coda, se qualcuno ce l’ha, ne resta fuori): la Concentrazione prende tutto: questo tentativo d’essere solo nel pensiero costringe al digiuno estremo l’elemento passivo, personale e superficiale del sentire… mentre il sentire vero, il grande organo di percezione interiore, inizia a liberarsi dalla tenebra che lo imprigionava proprio nel falso sentire. Pensate ad un occhio che volesse vedere solo se stesso: che funzione avrebbe? Questo è il falso sentire. La Concentrazione prende tutto: come il Sole caccia il buio, cosí essa azzera implacabilmente il falso volere, costantemente usurpato dalle spire caliginose degli istinti e delle brame: cosí comincia a far nascere nell’anima la terza delle tre potenze che mai l’uomo terrestre aveva conosciuto nella loro realtà originaria.
Il volere è la spada leggendaria che nessun “ego” impugnerà e brandirà, mai giungendo a sfilarla dal macigno magico che l’uomo crede di conoscere come suo corpo.
Mi sa che le persone abbiano un sesto senso, chiamato con piú (im)pertinenza fifa nera: che parte da sé solo con l’avvertire che v’è uno spiffero di cambiamento. Quello che di continuo si reclama a gran voce per il mondo, quando sospetti che potrebbe succedere dentro te… sono dolori, e si patteggia o si molla.
Racconta divertito Aurobindo che un discepolo va da lui spaventatissimo: «Maestro, sono diventato scemo!». «Perché? Cosa ti è successo?». «Maestro, succede che non penso piú!». Aurobindo allora gli fa notare che sta parlando e pensando ancora. Si era solo consumato (spento) il clangore ordinario che abbiamo nella testa. Era successo qualcosa di positivo, dunque ciò aveva spaventato moltissimo lo sprovveduto discepolo.
Comunque, se uno non ha avuto per improbabile destino una precedente disciplina di pensiero, pochi minuti servono solo a non rischiare che i sospirati mutamenti possano diventare reali. Anche l’uomo fatto può volere la luna, come un bambinello, ma stando sicuro, perché sa bene che non l’avrà mai.
Questa non è una critica ad un fratello gemello, comprendo bene che non si può dire tutto in poche e mirate righe. Ad esempio, quando egli scrive di varianti per generare piú intensità, e per non macinare meccanicamente l’esercizio (dismettere talvolta ogni parola o rifare il percorso all’indietro – questa variante dovrebbe far sospettare quello che ho/abbiamo scritto in vari commenti, cioè che la tristemente famosa “immagine sintesi” è il prodotto di intensità e mai una sorta di sbocco naturale o artificioso di rappresentazioni) si dimentica del consiglio piú semplice e rude.
Mi spiego. Molte volte erano proprio i discepoli piú attivi che si lamentavano della brevità della ricapitolazione interiore dell’oggetto e di questo ne parlavano con Scaligero, ossia che l’esercizio iniziava e terminava in pochi minuti. Scaligero rispondeva che avrebbero semplicemente potuto ripeterlo piú e piú volte.
Altra cosa che l’amico non ha menzionato è che la “saturazione”, la saturazione dell’anima, che nel mondo del sensibile trova analogia in un bicchiere che va riempito fino all’orlo da dove poi il liquido trabocca, non si raggiunge con una ripetizione ottusa, meccanica del circuito, divenuto familiare, di parole e immagini: questo è un pericolo che arriva per tutti, quando si usa lo stesso oggetto con i suoi pochi elementi formativi. Allora: riempire il bicchiere è analogicamente l’esercizio, il traboccare (ciò che trabocca) inizia ad essere quello che si realizza: realizzare qualcosa non è mai l’esercizio ma quanto va oltre esso.
Naturalmente, chi è furbo piú di una volpe, cambia spesso l’oggetto… per poi accorgersi che dopo pochissimo le stesse difficoltà si ripresentano. Dalle difficoltà non si scappa: in fondo sono proprio loro a esigere un impegno ed uno sforzo maggiore, esattamente come i muscoli del corpo fisico, i quali si rafforzano combattendo resistenze progressivamente piú elevate (Milo docuit).
Può essere, per un certo tempo che spesso non è minimo, che il lavoro interiore sia per l’anima come l’andare da un dentista: paghi molto per gustarti sgradevolezze e dolori di ogni tipo, tenendo conto che il dentista sei tu, ossia un pasticcione autodidatta che si impratichisce sopra la soglia della tua sopportazione.
Qui però ho esagerato: superate le tensioni corporee, che immancabilmente duettano con lo sforzo interiore, la ripetizione voluta dell’esercizio dapprima disturba la spontaneità dell’anima (astrale), poi diviene un vero sforzo per il pensare che attraversa la scura, appiccicosa selva dell’astrale: il cervello, veicolo del pensiero ordinario, si stanca e si inceppa. Sembra davvero impossibile pensare. È un buon momento, poiché precede il disincagliarsi del pensiero dall’organo che abitualmente lo media attraverso il corpo fisico. Il motivo del tanto sta in questo. Semplice-mente.
Accanto al martellamento rappresentato dalle ripetizioni dell’esercizio, è necessario che la consapevolezza concettuale di ogni singola parola e immagine non tracolli mai in qualcosa di vuoto, che viene da sé poiché è stata ripetuta cento o mille volte.
Anzi, è proprio questa consapevolezza attiva il “filo” che non dovrebbe spezzarsi dal princi- pio alla fine dell’esercizio.
Perciò la parola “ripetizione” non andrebbe mai intesa nel suo senso comune: dunque sono almeno due le cose difficili che dovrebbero essere inderogabili:
a) la prima consiste nel fatto che non deve esistere un ripetere l’esercizio piú volte durante lo stesso giorno, che possa definirsi come ripetizione di qualcosa di precedente, anche quando lo sia stato fatto già per due, cinque volte, con il medesimo percorso, le stesse immagini;
b) la seconda consiste nel fatto che la ricostruzione, in quanto collana di concetti, non deve spezzarsi in nessun punto.
Queste due, per lungo tempo, non sono regole ma piuttosto intoppi su cui si ruzzola: il bello è che alternative facili non esistono: bisogna solo tirar su dal pozzo dell’anima, con piú energia e determinazione, secchiate abbondanti di pura insistenza e pazienza.
Sarebbe sempre l’ora giusta di smettere la bambocceria che ci portiamo dentro per tutta la vita da quando essa era giustificata nell’età del ciuccio. C’è chi dirà che non è vero, ma nel sistema limbico è cosí: la Chiesa, imbarazzata, si è decisa a cancellarlo dalla carta geo- grafica dello Spirito, ma il Limbo vive in noi e tiene tutto.
È da esso che galleggia sulla soglia della coscienza comune la strana visione che una Via iniziatica sia simile a via X o ad un viale alberato Y: una passeggiata dal principio alla fine. Invece è un’aspra e stretta mulattiera, invisibile per le anime ipovedenti, che parte dai limiti inferiori: da un basso che piú basso sarebbe impossibile, per giungere a Tir-na-nÓg.
Perdendo un pezzo di sé ad ogni passo. Non il sé ma tutto ciò che di solito crediamo sia parte di noi: qui perdendo si diventa piú forti, perché occorre essere fortissimi per salire perdendo tutto quello che fummo e che siamo. Spoliazione ineludibile per una frazione di ora, ma che poi può diventare l’intimo carattere stesso dell’anima. È bene ricordare che non è la forza di cui parliamo quando viviamo come uomini del mondo.
Dobbiamo sempre ricordare che nel campo dello Spirito non esistono parole umane, e che «L’Iniziato che vuole esprimere ciò che ha sperimentato in una sfera sovrasensibile è costretto ad esprimere ciò coi mezzi della rappresentazione sensibile. Per cui non si deve pensare che la sua esperienza sia adeguata ai mezzi da lui usati per esprimerla» (R. Steiner: Dagli Atti del IV Congresso Internazionale di Filosofia – Bologna 1911). Dunque qualsiasi esperienza interiore che non sia rappresentazione tolta dal sensibile deve usare parole usuali con senso diverso: anche questo sforzo necessario è la continua disciplina dell’esoterista che tenti di abbandonare la dialettica per giungere a momenti noetici.
Insomma, un lavoro interiore che porti a qualcosa è un lavoro severissimo, e pian piano assorbe tutto il vivere: certamente gli esercizi indicati dai Maestri richiedono solo brevi frazioni di tempo… però nel tempo i loro effetti riorganizzano la vita. Persino la spontaneità, che deve esserci, che è salutare, muta: la spontaneità naturale diventa cosa diversa.
La coscienza umana impara ad essere una condizione meditativa che, in immobile traspa- renza, continuamente si plasma nel variabile.
Molti tra i tanti amici che leggono queste righe meditano nella solitudine di una stanza e forse nella solitudine umana generale. Non è facile dirigersi nella direzione opposta a quella che pare abbia preso il mondo: ebbene, si facciano coraggio. Anche se soli, non sono mai soli, non sono abbandonati. Intorno al meditante, con animo fattivo, amoroso, si raggruppano i Messaggeri, e se, per dedizione alla disciplina, i mari interiori si placano e s’acquieta il vortice abissale (come le cascate dell’Iguazú ma senza fondo) che per essi appare spaventosamente l’uomo, allora possono entrare e uscire portando in dono suggerimenti e sottili aiuti: ciò non va cercato. Succede.
Per non incorrere in equivoci, molto di cui sopra si rivolge ai neofiti…tenete in conto che anche alla piú decisa e dedita creatura umana occorrono tempi di maturazione lunghi o molto lunghi. Poi, in effetti, l’esercizio regale, la Concentrazione – la Concentrazione profonda – penetra subito in profondità: se la Volontà è stata risvegliata, l’opera è immediata, la via è aperta.
Il mio amico ha ricordato Ramakrishna: in effetti quest’ultimo aveva ragione: poi basterebbero tre minuti…
Franco Giovi
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per gentile concessione: http://www.larchetipo.com/2014/ago14/