ALTRI PROBLEMI CON LA DISCIPLINA (di F. Giovi)

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Due mesi fa abbiamo parlato della durata dell’esercizio della concentrazione, seppure tra varie digressioni che appartengono comunque agli svariatissimi modi di capire e sentire questo semplice esercizio che però trova tanti ostacoli nelle anime umane che, in un modo o nell’altro, ad esso si avvicinano.

Per farvi un esempio concreto di quanto la concentrazione possa essere, per cosí dire, lontana, incompresa, anche da chi legittimamente dovrebbe almeno possedere un barlume formale di cosa essa sia e di come dovrebbe venire eseguita, vi riferisco quanto mi fu narrato da una giovane aspirante maestra di scuola Waldorf. Durante il corso di formazione essa chiese un giorno alla sua docente cosa fosse e come dovesse praticare la Concentrazione. La risposta fu, piú o meno, questa: «Guarda il piattino (evidentemente c’era un piattino a portata di sguardo), concentra l’attenzione su di esso per due minuti. Questa è la concentrazione».

Eppure da Patanjali a Kremmerz, dalla Bhagavad Gita ai “tattva” della Golden Dawn, ritroveremo sempre, alla base, almeno la quiete del pensiero e l’arresto del mentale. Chi conosce e pratica qualcosa estratta da questi (e da tutti gli altri) autori e dottrine potrebbe naturalmente esigere alcune distinzioni e avrebbe molte ragioni dalla sua, ma se malauguratamente non si fosse mai accorto che, anteriore alle fascinose discipline rituali, anche la sua Via “richiede forme particolari di preparazione, di disciplina interiore e di concentrazione mentale”, allora avrebbe perso tempo nel ricercare sensazioni che surrettiziamente riescano a riempire il vuoto dell’essere, di cui è privo.

In realtà, prima della Scienza dello Spirito, la Via del Pensiero non è mai esistita: prima si chetava il mentale, si sgusciava dal mentale o si apriva il mentale a forze metafisiche. La Via del Pensiero è altro da ciò. Essa è la via del pensare che venga voluto, del pensiero potente e indipendente dal mentale; è la via del pensare risoluto, che non si arresta, che avanza senza umane limitazioni, che attraversa l’abisso per ritrovare la sua infinita natura di Vivente Luce Universale.

Dapprima il pensare, per essere voluto, abbisogna di un oggetto di pensiero verso cui convergere il suo moto: la semplificazione assoluta di se stessi e l’assoluta dedizione di quel che rimane ad un unico punto di pensiero, indipendente dal mondo sensibile e dallo stesso mondo interiore conosciuto, viene chiamata Concentrazione.

«Di quanto rigore necessita la ricostruzione interiore dell’oggetto su cui mi concentro?»

Di massimo rigore, naturalmente. Però ci sarebbe da chiarire di che genere di rigore stiamo trattando, perché i rigori sono come gli alberi di una foresta: tantissimi. Ho conosciute troppe persone che possedendo intelligenza e rigore non hanno mai sfilato il proverbiale ragno dal buco. Torniamo sempre al problema della semplicità dell’esercizio: sono davvero pochi coloro che non coltivino nell’anima la smania di ricorrere ai decori arabeschi proprio nei minuti in cui ci si misura con l’immagine del turacciolo. La Concentrazione non abbisogna di impulsi artistici né d’analisi scientifiche: è, in un certo senso, solo un affare di muscoli, ossia un problema di forza che c’è o che ci si esercita a sviluppare affinché poi ci sia. Per parecchi (visto quello che combinano) deve essere assolutamente insopportabile capire questo. Forse non riescono a prendere sul serio le indicazioni di chi ha dato, quasi oltre il possibile, tutto quello che poteva venire indicato per la pratica. Scrive Scaligero: «La saggezza dell’esercizio consiste nella sua semplicità: si evoca l’oggetto – spillo, o matita, o bottone ecc. – lo si descrive con precisione, si fa brevemente la sua storia, si individua la sua funzione. Questa operazione sostanziale, condotta con il minimo indispensabile di rappresentazioni, dà luogo infine a una imagine sintesi, o concetto, che giova trattenere dinanzi alla coscienza, obbiettivamente, come l’imagine iniziale dell’oggetto». Mio è il corsivo che ci porta al cuore di questa nota.

Perché Scaligero consiglia l’uso parco di immagini? Non mi meraviglierebbe se qualcuno dicesse pressappoco: «Con piú immagini prolungo il tempo dell’esercizio, faccio di piú» oppure: «Un vero approfondimento della natura dell’oggetto necessita di molte rappresentazioni» (come ripeto sempre, traggo quello che scrivo dall’osservato reale, e frasi come queste sono state pronunciate). In tal senso il massimo di cui sono stato testimone fu introdotto da una domanda estranea al tema di un colloquio che verteva su aspetti degli esercizi. Mi fu chiesto se sapevo di che colore fossero i caschetti degli operai in fabbrica. Perplesso ma disponibile iniziai a dissertare sui colori diversi che indicano gradi e mansioni, ma non trovavo nesso e perché. Allora, sospendendo la condiscendenza, interruppi la mia risposta e chiesi al mio interlocutore quale fosse la relazione tra i caschetti e il tema dell’incontro. La risposta, data con tono pratico e sereno, fu all’incirca questa: «Per ricostruire l’immagine della matita devo sapere esattamente quale sia ogni singolo passaggio, dal legno alle tecniche industriali di produzione e distribuzione con tutte le relative immagini».

Capite? L’amico non faceva concentrazione ma, secondo la sua natura analitica, rifuggendo dal vero processo dell’esercizio, lo sostituiva con il meglio arimanico: un lunghissimo, rigoroso, esatto processo cognitivo-razionale aderente al sensibile e basta (va da sé che il tempo infinito da lui dedicato all’esercizio era anzi un tempo troppo breve per uno che voleva sapere tutto sulla matita). Non cito un esempio fragoroso per rubacchiare il sorrisetto di qualche lettore, ma per destare tutti i lettori ad un atto di autosservazione critica da cui ricavare (possibilmente) la constatazione che spesso, o quasi sempre, anche in questo breve atto di ascesi, forma, stile e altre diavolate prevalgono sull’azione intrapresa.

Permettetemi di ragguagliarvi circa un fatterello che succedeva immancabilmente, due volte su tre, quando andavo a Roma per incontrare Massimo Scaligero. L’incontro mi sembrava sempre troppo breve e preziosi minuti venivano rapinati da telefonate a cui Massimo rispondeva asciuttamente ma (me infelice) con la consueta calma. Tra le altre c’era sempre la telefonata sulla concentrazione a cui Scaligero invariabilmente rispondeva dicendo di non preoccuparsi se si ignorava qualcosa dell’oggetto e se le immagini (rappresentazioni) usate erano pessime o inesatte. Una volta, dopo la telefonata e a mo’ di commento, mi disse: «Pensa che c’è gente che crede che le immagini della concentrazione debbano imitare la realtà ed essere perfette, e mi tocca ripetere sempre che ciò non ha alcuna importanza, proprio nessuna».

Cosa tento di dire con questi esempi e ricordi? Che l’esercizio non abbisogna della “scienza del turacciolo” o della perfezione delle immagini, ma solo del fatto che ogni pensiero che attraversa la coscienza sia voluto, sia concatenato al precedente e al successivo e non passi dal materiale che compone il turacciolo alla crisi medio-orientale o alla telefonata di Tizio. Questi scivoloni succedono di continuo, ma l’impegno è che non succedano.

Ma poiché le promesse e gli impegni odorano d’astrazione, mentre trattiamo di cose molto concrete, vi suggerisco una tecnica correttiva che, se ripetuta ogni qualvolta tradite la catena di pensieri strettamente connessi alla ricostruzione del concetto su cui avete determinato di concentrarvi, poco per volta funziona e rafforza l’elemento operativo dell’anima. È molto semplice: poniamo che abbiate passato in rassegna colore e forma dell’oggetto e poi, senza sapere quando, come e perché, vi trovate a discutere con Padreterno sui “massimi sistemi”; confabulate con Lui a vele d’intelletto aperte, poi avvertite confusamente che qualcosa non va e allora vi ricordate che avevate stabilito un rapporto sveglio e volitivo con un turacciolo… un guizzo dell’anima, un sussulto del corpo… siete tornati all’esercizio. In questo caso, siate sinceri, il consiglio di Scaligero (che andrebbe normalmente preso come oro colato!) di ricapitolare coscientemente fin dove s’è verificata la biforcazione, risulta inattuabile, perché la coscienza desta ha dato forfait, perché vi siete persi a sfarfalleggiare nel sogno. C’è poco merito e nessuna forza nello svegliarsi: il primo round è a vostro sfavore.

Però l’atleta vero accusa il colpo ma non abbandona il match (che atleta sarebbe?). Imparate da lui – siete o non siete atleti dello Spirito? – schivando valutazioni e pensieri personali (e sentimenti!), ricominciate dall’inizio, anzi, cominciate a fare l’esercizio senza tener di conto il passato prossimo e basta. Tempo permettendo, se qualcosa o qualcuno vi rapisce a due pensieri dalla fine, anche in questo caso ripetete tutto, come si fa nelle arti e nello sport. È dura, ma credetemi, nessun esoterista vero vi dirà mai che la faccenda non sia seria e difficile: siete al contempo il vasaio e il vaso, e con l’impegno del vasaio il vaso viene forgiato da una pasta informe. Accanto alla vita di tutti i giorni, la “grande opera” di dare una forma all’anima è l’impresa umana assoluta.

Il rigore dev’essere azione, non rappresentazione. Non dite mai a voi stessi: «Ho tempo, ora mi chiudo in camera per un’ora e tento il miglior esercizio possibile, con la massima volontà, con l’aiuto delle Potenze Superiori ecc.» perché non andrà cosí, e probabilmente uscirete da quella stanza, dopo un’ora, disgustati e sconfitti. Probabilmente non vi accorgerete nemmeno che queste capocciate sono persino un po’ ridicole se non riuscite a rendervi conto d’aver tentato di ridurre l’Opus Solare ad una preconcetta e macchiettistica (astratta) rappresentazione personale che, anche a spremerla per tutta la vita, è solo un nulla che non produce niente. Tentare una disciplina esoterica dall’interno di una rappresentazione è un errore cosmico, ma non lo si nota, e anche questo è strano, poiché l’operatore dovrebbe, prima o poi, accorgersi che la coscienza impegnata nell’esercizio rimane troppo fedele alla coscienza di tutti i giorni: non cambia mai.

Non dovreste nemmeno pensare: “Ora mi siedo e faccio concentrazione”. La concentrazione va fatta con immediatezza (se l’intento è profondo non richiede trenta secondi di inutili chiacchiere interiori), con l’animo scevro e sciolto da speranze o certezze: ci sia solo flusso di pensieri voluti e concatenati che attraversano il vuoto cosciente: pochi e chiari, né belli né carini.

Ora cogliamo anche l’occasione per sfiorare certi interrogativi che forse non dovrebbero nemmeno esistere, ma che invece ronzano sempre come mosconi rabbiosi da una stanza all’altra. Nel ricostruire l’oggetto interiore: due amici si confrontano, ne parlano e, alla fine sono piú confusi di prima. Non dovrebbe esserci una certa coincidenza? Non facciamo tutti la stessa cosa? Non necessariamente. Ricordatevi che sia noi che l’esercizio stesso cresciamo, evolviamo e mutiamo. Esiste anche una soggettività strutturale inevitabile: c’è chi pensa con lentezza ogni pensiero e chi è piú veloce. Vi sono individui quasi incapaci di evocare immagini: essi devono usare soprattutto parole (beninteso mentali). Altri pensano quasi tutto, persino la matematica, mediante immagini. E tra queste due tipologie estreme stanno i molti che dovrebbero utilizzare un po’ di parole ed alcune immagini. In pratica il neofita tenderà ragionevolmente ad usare ciò che per lui è terreno familiare e sicuro: non ha alcuna importanza che sia lento o veloce, che usi parole o immagini; importante è solo che venga dedicata un’attenzione eroica al pensiero che si pensa, con qualsiasi veste o forma lo si vesta per pensarlo.

Ad ogni modo, le immagini sono piú potenti delle parole e l’asceta tenterà progressivamente un maggiore uso di immagini. Divenendo molto capaci, si potrà tentare il solo uso d’immagini: pratica piú difficile ma anche molto potente. Con essa si avverte l’inizio della separazione dall’organismo fisico. Però state attenti: può riuscire una volta e diventare un mezzo caos la volta successiva. Allora, equanimi, si torni indietro riutilizzando le necessarie parole e ritentando con una maggiore potenza di distacco, magari dopo una breve e sana ricapitolazione delle tappe raggiunte in precedenza.

«Non riesco nemmeno a iniziare, i pensieri mi scappano da tutte le parti…»

È possibile che una persona adulta che ha studiato davvero i testi della Scienza dello Spirito sia ancora tanto distratta e indisciplinata? Uno che ha seguito e compreso, puntualmente, le modificazioni saturnie? In sede teorica sembra un’assurdità. Invece è del tutto plausibile che una parte di sé non voglia fare la Concentrazione vera e propria, perché essa è una reale strada esoterica e non è fatto raro che contro il Vero dello Spirito serrino i ranghi in scellerato accordo tutti gli esseri e le forze contrarie (praticamente il mondo intero… dentro e fuori).

Sedersi e fare la Concentrazione è il primo atto sacro che s’accende sulla strada dei Nuovi Misteri: l’Io lo decide e suscita la Volontà. Con essa si sa volere il pensiero sino all’Origine che soltanto pensiero non è, essendo la corrente eterica centrale dell’uomo e dell’universo: Colei che i discepoli tantrici veneravano con il nome di Kundalini nell’uomo e Mahāshakti nel cosmo delle Gerarchie.

Fingendo di non aver scritto le precedenti righe, devo ammettere, per mia esperienza, che ci sarebbe un esercizio utile, figlio della vecchia Teosofia e del professor Ernest Wood (1883-1965), che trovai in un volumetto edito per la Scuola, stampato tra il ’30 e ’40 del secolo scorso. Il titolo era: “Concentrazione” e nelle pagine introduttive un docente aveva sollevato una sensata riflessione perduta o mai raccolta dalla Didattica. In sintesi il presentatore osservava come la Scuola si rivolge all’apprendimento di molte conoscenze ma dimentica completamente la possibilità e le occasioni di educare nei giovani le facoltà conoscitive stesse e si augurava che il libro fosse un apripista per un nuovo approccio pedagogico. Poi ci fu la seconda Guerra Mondiale. C’era in questo libretto un esercizio che funziona, che può servire ma che non deve venir equiparato in alcun modo alla Concentrazione, poiché appartiene alla vecchia Via Lunare, di cui alcuni, o molti, ancora abbisognano per riepilogarla definitivamente: confonderlo con quello che urge ai nuovi tempi sarebbe un grave errore che allontanerebbe il ricercatore dalla Via Solare. Non è un esercizio particolarmente difficile ma la spiegazione (che va seguita alla lettera) potrà sembrare complicata.

Ci si isoli in una stanza a prova di irruzioni improvvise, con un tavolo, una sedia, un foglio di carta bianca e una matita. Comodamente seduti, riducete il mondo al foglio che vi sta davanti. Con la matita disegnate un cerchio al centro del foglio. Scriveteci dentro il nome di un oggetto (tappo, bicchiere, orologio, accendisigari ecc.). Lo sguardo e il pensiero si concentrino sulla parola scritta, poi lasciate che il pensiero esca dal cerchio e afferri il pensiero piú vicino. Se l’attenzione è buona, il pensiero attiguo sarà collegato all’oggetto- pensiero inscritto nel cerchio (es.: nel cerchio “orologio”, pensiero consecutivo “cinturino”, “lancetta” ecc.). Si tenga nella mente il “cinturino”, si tracci con la matita un raggio dal perimetro del cerchio a metà foglio, si scriva “cinturino”, poi con l’attenzione e la punta della matita si scivoli dalla parola lungo il raggio, cioè lungo il precedente segno di matita, sino al cerchio. Si riporti tutta l’attenzione alla parola dentro il cerchio e si ripeta la precedente operazione con un altro pensiero attiguo tirando con attenzione concentrata una nuova riga da un diverso punto del cerchio sino alla compilazione della nuova parola (es.: “lancette”, ma potrebbe essere anche un attributo come “impermeabile” o “costoso”), importa solo che l’attenzione rimanga incollata alla punta della matita e che questa ritorni sempre alla “parola-immagine-concetto” che sta dentro al cerchio. Si riparta dalla parola dentro al cerchio per la terza volta, si ripeta l’operazione finché l’anima (richiamata 30, 50 o piú volte) si stanca di uscire con pensieri dal cerchio. Questo continuo riportare indietro il pensiero si traduce in silenzio interiore, introversione del mentale e ad un’esperienza che potremo chiamare “atmosfera contemplativa”, perché ci sentiamo totalmente immersi in una sostanza animica che sembra appartenere ad un mondo diverso. L’esperienza è concreta, perciò arricchisce la nostra ampiezza psicologica e percettiva riducendo, per contro, l’inutile e dannosa bulimia del pensiero ordinario: male generale, dunque non avvertito, dei nostri giorni.

Mi ero ripromesso di aggiungere qualcosa circa l’equilibrio e la salute del corpo fisico visto come base inevitabile della nostra attività interiore (la richiesta c’è stata), ma per non apparire dilettantesco e superficiale al giudizio sapiente degli amici medici, tra i quali c’è chi collabora a questa Rivista, vi prometto tra qualche tempo una nota sul tema formulata nel modo accademico, cioè impaludata dai riferimenti scientifici a sostegno.

Franco Giovi

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http://www.larchetipo.com/2007/dic07/esercizi.pdf

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