Continuiamo a rivedere alcune cose che possono essere alla base o meglio sul terreno su cui poggiano i fondamentali. Il terreno è ciò che ordinariamente siamo o sentiamo di essere e, di solito nella vita corrente, non c’è gran differenza tra chi si sente spiritualista e chi afferma di essere materialista. Anzi il materialista sembra avere più solide ragioni per dimostrare ciò che afferma, poiché la corporeità è condizionante e, come dice sempre un mio amico, pure la preziosa coscienza è zoppicante, giacché ogni sonno la confuta spegnendola con un soffio come flebile luce di candela.
La corporeità è condizionante. Perlomeno esistono condizioni di essa che dovrebbero essere combattute o usate o almeno comprese. Secondo le competenze che spettano alle situazioni della vita ed alle capacità di ognuno.
Facciamo subito qualche esempio concreto:
Un’estrema debolezza fisica che risulti da malattie in fase acuta e dolori forti: essa è tale da influire sulla comune autopercezione animica e sembra dissolvere la volontà, anche quando l’individuo ha compreso tutto il meglio nei confronti della disciplina.
In questo caso occorre fare il possibile per ristabilire la salute del corpo. Intanto l’operatore più preparato può, in tali situazioni, abbandonarsi ad una condizione di silenzio prolungato: sto parlando di semplice astensione dalla parola che, se accompagnata da immobilità corporea, può portare frutti assai notevoli.
In casi molto gravi, rimane la possibilità della preghiera che può essere tentata in modo continuato. Ma, e ne abbiamo già scritto, vanno bene preghiere semplici e brevi. Non breviari. Se l’estenuatezza è massima ci si può affidare al Cielo, al Divino, lasciando che sia proprio l’estrema debolezza a guidarci: “Nelle Tue mani, Signore”. E le parole non sono necessarie.
La vita ai nostri giorni comporta per molti troppi impegni pesanti, al punto di non lasciare tempo e energia necessari per una pratica sistematica e continuata. Una disciplina da week-end, anche se protratta per ore, non porta a nulla se non ad un senso di disgusto e disfatta. L’eccesso di impegni può nascondere furbizie e imbrogli: molte persone affette da “angina temporis” dovrebbero soltanto darsi priorità e scuotersi da parecchie attività inutili o abitudini troppo consolidate. Un mio amico ricordava sull’Archetipo come il dott. Colazza, medico di una volta cioè impegnatissimo, praticava le discipline interiori essenziali nel cuore della notte!
Possiamo anche tenere conto della mancanza di una convinzione interiore, solida e intuitiva – quasi una “persuasione” alla Michelstaedter – che la Via del pensiero sia una strada maestra per il senso della propria vita. Se questa convinzione, frutto di coerenza logica ed obbiettivo sentire, mancasse totalmente, non dovendovi essere costrizione di alcun tipo ma consapevolezza e slancio dell’anima, sarebbe forse il caso di abbandonare iniziative fragili, quelle che in pochi giorni si estinguono con tutta la forza della loro debolezza poiché viziate all’origine o premature. In questa situazione sarebbe meglio tornare, con serena semplicità e interiore modestia, all’approfondimento di testi che portano nell’anima il respiro ampio di una visione cosmica dell’uomo e del suo destino, come ad esempio una chiara lettura della Scienza Occulta.
Queste ultime righe riguardano più la mente che il corpo: sono comunque espressione della mente in quanto subordinata alla corporeità. Occorre abituarsi a scindere l’Osservatore da ciò che chiamiamo mente o psiche: l’Io non è la mente. E. P. Blavatski disse al riguardo: “La mente è un buon servitore ma è un padrone crudele”.
Ricordiamoci spesso quello che non è un’astrazione ma un fatto severo: la psiche asservita al corpo asservito alle forze più basse dell’anima è totalmente ostile ad ogni sforzo che l’uomo compie per domarla.
Chi dice di domarla componendo puzzle o parole incrociate è uno un po’ sciocco che andrebbe lasciato in pace.
Per la disciplina, che inizia dal controllo dei pensieri e si focalizza nella concentrazione vera e propria, non ci si illuda circa l’esistenza di misteriosi supporti interni all’operazione.
Essa però può essere svolta in condizioni circostanti migliori o peggiori. Attenzione: questa non è una regola aurea: può succedere che condizioni difficili stimolino forze più profonde e quella che avrebbe dovuto essere una condizione di sconfitta a priori diviene un’occasione irripetibile di vivificazione della volontà profonda.
Tra gli aiuti (sempre e del tutto) esterni all’operazione, possiamo indicare quelli che l’esperienza ed il buon senso insegnano: sono in genere cose che andrebbero evitate.
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Non praticare l’esercizio qualora vi sia la certezza di improvvise irruzioni di altre persone;
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non farlo temporalmente vicini alla pesantezza di attività digestive oppure nel riposo immediatamente successivo ad un eccesso di sforzi muscolari;
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evitare, per quanto possibile, il rischio di forti rumori improvvisi e inaspettati,
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evitare la posizione distesa come postura abitudinaria,
- evitare, (come tutti sanno?) completamente l’alcol, anche nelle quantità minime, come nelle paste o nei cioccolatini (Scaligero diceva che anche una sola goccia arretra di molto il lavoro precedentemente svolto. Ciò può sembrare eccessivo: ricordiamoci che un’ individualità, sia pure assai particolare come la von Halle, per subire i sintomi di avvelenamento, le bastò l’alcol usato tra gli eccipienti di un dentifricio messo a contatto con lingua e gengive).
Viceversa può essere di minimo aiuto un leggero stimolante del sistema nervoso centrale come il caffè (non per tutti!), una rinfrescata con acqua corrente al volto e alle mani, meglio sino ai gomiti (in certi casi può servire una breve doccia fresca o a temperatura neutra). Più importante è l’abitudine a vesti comode, ma se la contingenza non lo permette si cerchi di liberare il corpo da cinture, stringhe o in genere da cose che stringono: flusso sanguigno e respirazione non vanno costretti.
La migliore posizione della colonna vertebrale dovrebbe essere naturalmente verticale: a ciò può venire in aiuto un cuscino posto all’altezza delle reni.
Meglio abituarsi ad una posizione che sia mantenuta nel tempo. Le mani possono cadere sui braccioli o poggiate sopra le ginocchia. Alcuni tengono le mani congiunte (destra sulla sinistra).
Le gambe non vanno incrociate e la base del busto non dovrebbe insaccarsi più in basso rispetto all’articolazione della gamba. A farla semplice l’immagine riassuntiva è data dalle ieratiche statue dei Faraoni in posizione seduta.
Queste sono indicazioni di base, che non hanno nulla a che vedere con l’attività interiore messa in moto nell’esercizio, così come il più volte menzionato tubo di rame è cosa diversa dal liquido che in esso scorre.
Quanto ho scritto favorisce soltanto il mezzo su cui l’esercizio, per molto o moltissimo tempo, poggia come il corpo poggia sulla poltrona.
Alcol a parte, nessuna delle indicazioni può o deve costituire una forma di obbligo: dobbiamo piuttosto compenetrarci dalla non facile intuizione che l’attività del pensiero voluto è indipendente da ogni condizione corporea e ciò è assai più importante per lo sperimentatore di tutte le altre indicazioni.
Fuori da Eco, ho ricevuto per altre strade alcune perplessità circa le “cose” più elementari di cui scrivo. Sono cose ovvie, mi è stato comunicato. E l’osservazione è giusta.
Ma non trovo del tutto scontato che si diano per scontate le cose semplici perché molti le conoscono ma altrettanti no.
Come già raccontai, io fui fortunato ad avere relazione con personalità di valore e con amici molto attenti e attivi. E, nonostante questo, non fu certo affare di un giorno il liberarmi dai lacci, alcuni sottili e profondi che mi tenevano tenacemente legato a pregiudizi, soprattutto a quegli inconsci, che non si vedono ma sono svegli e attivi nel tenerti al loro guinzaglio. E più erano “ingenui” e tenui, più erano attaccaticci.
Non suona alcun campanello quando, inerzialmente, scivoliamo da quattro o cinque pensieri chiari a zone di nebbia fitta. Il nostro primo compito dovrebbe essere quello di portare alla luce della coscienza desta ogni pensiero che venga pensato, superando, per attenzione cosciente e dedicata, quei groppi e sfilacci di pensieri che vagano come alghe sotto la superficie frenando o incagliando le eliche della nostra barchetta.
In fondo è quello che fece, a ben altro livello, il Dottore con il primo capitolo della Scienza Occulta: trarre a consapevolezza e rettificare i dubbi e i pregiudizi che possono arrestare o alterare lo studio libero e aperto di quanto si legge nei capitoli successivi.
Inoltre so che esistono persone assai dotate, le cui capacità vengono bilanciate negativamente da una solitudine assoluta. Persone che vivono in minuscoli paesi e che non hanno possibilità di rapportarsi a qualcuno: vedono il vivente nella natura che le circonda ma si arrovellano se sia meglio concentrarsi al chiuso o all’aperto. Alcune di queste hanno bisogno anche del pur scarso dialogo che tento con righe di questo genere.
Questo, amici miei, è reale, mentre baloccarsi col pensiero facile sui massimi sistemi è, da Oriente a Occidente, solo una perdita di tempo e un allontanamento dall’essenziale. Dunque “sapersi sedere” è un essenziale? No certo! Ma anche sì (non a caso Maestro Eckhart scrisse: “Ho conosciuto Dio sedendo”).
Dobbiamo essere scandalosamente veritieri con noi stessi. Capita spesso che persino una frase mutuata da Scaligero, come “Via del Pensiero” (la cito a caso), venga detta, ridetta e difesa (oppure offesa) ad oltranza senza che essa, il suo significato, sia chiaro nella nostra coscienza.
Credere che occorra iniziare da un pensiero raffinato o complicato è una maya come tante. Forse fuori di tema comunico un fatto che molti non conoscono. Scaligero, visto che l’impegno (la forza) interiore dedicato era assai spesso inversamente proporzionale ai personali monumenti del sapere e in genere all’intellettualismo, valutò seriamente di introdurre alla Via del pensiero alcune persone preparate soltanto con le basi dell’euritmia, naturalmente messa in pratica. Senza altre mediazioni intellettuali. Contingenze esterne impedirono questo esperimento.
In ogni caso la concentrazione non può essere un rifugio o un’evasione dal karma individuale e dal dharma generale della vita.
D’altronde superare l’invisibile trama di forze che si oppongono alla pratica della disciplina del pensiero è più difficile che conseguire una…laurea universitaria. Sebbene molti uomini normali siano capaci di completare in modo soddisfacente un corso di studi superiori, non tutti sono capaci di creare in sé stessi qualcosa che prima non era presente, cioè la capacità di concentrarsi, anziché di accontentarsi di un semplice bagaglio mentale.
Mi soffermo ora su ostacoli interiori.
Grosso modo, forse l’ostacolo principale riguardante la concentrazione è la natura emotiva e caratterologica incontrollata dell’uomo comune e impreparato. Troppe volte chiamiamo “spontaneità” ciò che ribolle indisturbato sotto di noi senza venir illuminato,temperato e guidato dalla ragione.
Nella tradizione orientale esiste un termine che indica le tendenze mentali e astrali sedimentate. Il termine è “vāsana” (per Ramana: impressioni latenti, lasciate nella mente dalle esperienze trascorse). Mi sembra pratico, come quelli più popolari, come karma, maya, eccetera. Poi, come tutti i termini davvero intraducibili, non può essere difeso dal mio uso bastardo.
I vāsana possono, nella concezione grossolana di buono o cattivo, essere di ambedue le specie, ma per una ascesi sono tutti ostacoli; sono indesiderabili e andrebbero minimamente arginati e nel tempo, meglio ancora, progressivamente distrutti (i 5 ausiliari, come descritti nel loro primo tempo, possono svolgere una grande opera in questo senso).
In parole povere, siamo capaci di rifiutare di occuparcene, almeno quando ci apprestiamo agli esercizi animici? Quali risultati possiamo aspettarci da questi se siamo del tutto incapaci di frenare o sospendere collera o avidità nei confronti di chicchessia e di conseguenza essere come costretti a pensare e sentire incessantemente al tale o alla tal cosa?
Ho indicato il negativo ma anche un irrazionale attaccamento al benessere di chi ci è vicino porta ansia e tensione: così dimentichiamo che possiamo portare amore ma anche rispetto e fiducia per il destino di ognuno. Anche il bisogno di taluni di riconoscimenti sociali e “sogni di gloria” distorcono ed erodono le forze dell’anima.
Insomma, il risultato è che ci si trova incapaci di arrestare o ammansire i pensieri superflui e persistenti.
Perciò disciplinarsi, dominarsi, vietarsi l’influenza dei vāsana è uno dei lavori più severi che l’operatore deve fare in sé.
Mi pare che ben pochi siano coloro che da tali influenze vorrebbero davvero liberarsi: sono ancor meno di quelli che vogliono fare la concentrazione poiché le considerano alla stregua di proprie articolazioni strutturali. Si è potuto vedere spesso come figure dotate di potenziale valore e capacità siano state buggerate da queste forze, istintive e primitive: l’anima va vuotata oppure è tempo perso.
Un altro ostacolo, relativamente difficile poiché non esce mai allo scoperto è il “materialismo istintivo”. Sembra una contraddizione ma vi sono anime attratte dalla spiritualità eppure incapaci di pensare o sentire qualunque cosa che non possano toccare o vedere: è cosa che può raggiungere un notevole livello di raffinatezza in quanto tali soggetti possono trafficare con i grafici che presentano l’evoluzione dallo stato saturnio, possono ascoltare conferenze o leggerle…ma quando si staccano da tali forme legate alla percezione sensibile, per essi i mondi interiori non esistono più, il pensiero ridiventa un fenomeno astratto e collaterale.
Finché non si giunga ad avvertire una minima oggettività del pensiero o intuire una visione cosmica dell’uomo, il materialismo istintivo è un ostacolo, immanente o latente.
Essere in potere della superstizione è un altro grave ostacolo. Anzi, è una schiavitù della mente. Essa è costretta a pensare torcendo ogni realtà obbiettiva, popolandola di nessi spettrali. Quasi sempre il fratello della superstizione, il fanatismo, soccorre e nutre l’empia sorella.
Mi ricordo che F.G. si rammaricava per aver ricordato sull’Archetipo l’esercizio della moneta (qui ora non lo spiego). Persone “normali” gli scrivevano per avere delucidazioni e chiarimenti sul “responso della moneta”: chiedevano alla moneta cosa avrebbero dovuto fare nel decorso della giornata e via dicendo!
La faccia di una moneta come sostituto alla propria responsabilità d’azione: uno scambio perfetto.
Un’altra barriera che chiude la porta alla disciplina pratica è la mania di leggere troppi libri. Ciò procrastina l’azione all’infinito. Ci si procura un libro interessante perché sembra dire qualcosa di nuovo, poi terminato quello si procede avanti in una interminabile ricerca. Così è possibile trascorrere l’intera vita. Ci si dimentica che i libri sono realmente più numerosi dei mesi e degli anni da vivere. Quindi a che serve leggerne vagonate e poi morire prima di inverare le cose che si sono conosciute?
In certi casi non è una bulimia che spinge il lettore ma una insoddisfazione per quanto ha sinora incontrato. Questi sono i casi in cui la ricerca deve proseguire.
Gli alcolisti e quanti sono dediti ad altri vizi che creano assuefazione non possono, in tali condizioni, praticare la concentrazione. Senza esaminare il lato occulto, la ragione più evidente è che la loro forza di volontà è prossima allo zero. Se le pessime e distruttive abitudini sono irrinunciabili, dove potrebbe trovarsi una forza interiore bastante per sopraffare la pigrizia e l’apatia mentale?
Altro ostacolo che frena da subito la giusta capacità di tentare positivamente il viaggio interiore è la ricerca di “aiuti” da tutte le parti fuorché in sé medesimi. Vi sono spiritualisti in perpetua ricerca di grucce e bastoni. Qui tutto sembra far brodo. Con un atteggiamento assai tipico nei nostri tempi, si desidererebbe che “altro” facesse tutto al posto nostro. E’ con questo imbelle ed ottuso altruismo rovesciato che ci si trascina da una conferenza all’altra o che si saltabecca da una massima morale ad una “immagine spirituale”, succhiando da ciò quello che costituisce l’inazione individuale. Persino la preghiera, in questo caso, ha solo il significato di dire: “Signore, fai tutto tu perché io non ne ho voglia”!
Termino riprendendo la nozione di vāsana che si applica fin troppo bene alla politica.
Con l’eccezione della lettura del limpido testo omonimo di Aristotele, che consiglio caldamente, la “passione” politica è quanto di più lontano possa esserci da un reale cammino interiore. Se idealmente potrebbe essere diverso, nella realtà essa separa, divide gli uomini, accende “fuochi” di oscura origine, genera ideologia e preconcetti giungendo sino all’odio. Anche quando si veste di nobili intenti. Con ciò non giungo ad additare solo la passione partitica ma anche il “carattere politico” che non fa parte di alcun partito ma di un perverso atteggiamento dell’anima come dimostrato pure nell’antroposofia da molte e pessime figure pubbliche: in primis politici e poi antroposofi di rimessa!
Vedremo di trovare ancora qualcosa di buono che possa implementare volontà, pensiero e destità ai fini di una sana disciplina, cioè quella che insegna all’uomo lo svincolamento dalla sfera senza porte dell”enorme autismo egocentrico che lo imprigiona.
Queste cose sono come la fascia di asteroidi: i mille puntolini che orbitano intorno al concentrarsi e al meditare: spesso quelli utili ruotano lontani e gli inutili tanto vicini che impattano l’esercizio sviandolo dalla retta orbita.
Se così non è, è pur qualcosa di simile: a sentire di tutti quelli che dicono di fare le vere operazione, avremmo ad ogni passo iniziati e il mondo sarebbe guarito e salvo.
La natura dei fondamentali è così “semplice” che in realtà articoletti di questo genere non dovrebbero nemmeno essere scritti.
Eppure mi par di vedere nella boccia della visione che così non è, che la mascalzonaggine così propria alle nostre anime, è ingegnosissima nel trovare scuse, travestimenti, nascondigli che evitino l’atto vero e questo avviene all’infinito!
Del resto questa formidabile attitudine già appare in tutta la sua gloria davanti alla lettura seria, di un testo fondamentale e credo ci sia poco da fare. Il Dottore, in parole povere, chiede una cosa sola: di pensare i pensieri che il libro ti offre l’occasione di pensare.
Mi sa che – abbiate pazienza – devo chiarire, e lo faccio nel modo più semplice: da una parte abbiamo un quid che chiamiamo percezione, dall’altra abbiamo il pensiero che incontra la percezione. Dall’incontro dei due, nella coscienza umana si forma un qualcosa che chiamiamo rappresentazione. Fin qui i fatti che non sono né buoni né cattivi (certo, la faccio semplice ma credetemi: non occorre affatto complicarla). Il brutto da bollino nero giunge quando l’uomo, il cosiddetto ricercatore spirituale, si lascia dominare dalle proprie rappresentazioni, come se queste, anziché essere mediatrici necessarie alla conoscenza (come osservava Goethe), fossero inappellabili demiurghi.
Allora sì che diventa possibile stravolgere o smantellare la FdL senza neppure comprenderla dov’è comprensibilissima: le proprie, inappellabili rappresentazioni, anche quando sono solo dei gusci di noce piccoli e vuoti determinano ogni realtà.
Poiché spesso non sono solo gusci vuoti ma strapieni di sentimentalità e passioni: “egoismo conoscitivo” è una geniale espressione del Dottore.
Allora ogni esortazione a pensare con un briciolo di oggettività diventa un discorso ai sassi.
Amen…torniamo a livello del suolo. Non sarà mai troppo ripetuto che la concentrazione, quando la si realizza, fa a meno di qualsiasi supporto fisico o psichico e che tale atteggiamento di indipendenza del pensiero dovrebbe essere un tentativo continuo anche quando si lavora per arrivarci. Questa indipendenza già la possediamo naturalmente quando l’attenzione viene completamente assorbita nella lettura o nell’osservazione di un fenomeno.
Ma appena determiniamo volitivamente un pensiero del tutto cosciente, iniziano i dolori: non c’è cosa che non inizi a sbraitare in noi, cominciando dalla corporeità.
Alcol a parte, nessuna delle indicazioni può o deve costituire una forma di obbligo: dobbiamo piuttosto compenetrarci dalla difficile intuizione che l’attività del pensiero voluto debba essere indipendente da ogni condizione corporea e ciò, in pratica, è assai più importante per lo sperimentatore di tutte le ovvie predicazioni che avete avuto la pazienza di leggere in questa nota.
Isidoro, in merito al secondo e terzo tempo, ci sono orientatori che consigliano di eseguirli non prima della accertata conquista del totale dominio del pensiero dialettico. Posso conoscere il tuo parere?
Il “totale dominio del pensiero dialettico”, gentile signor Visciotti?! Hahahahah! Ma crede Lei davvero che vi sia una fine all’infinita e indefinita frantumazione del pensiero dialettico?! Che producendo col pensare cerebrale e dialettico cadaverici pensati si arrivi alla fin fine all’essere del pensare e alla vita?! Ma vogliamo davvero scherzare?!
E chi sarebbero poi questi disorientanti orientatori – delle vere “cime” himalayane – i quali invece di indicare l’Ascesi di un volitivo annientamento del pensare dialettico, al posto della concentrazione della forza-pensiero su un unico pensato per annientarne la forma riflessa, propongono la diluita deconcentrazione del prolungare indefinitamente l’inutile espressione dialettica della catena dei pensati alla quale, come nella serie dei numeri naturali, non vi è mai fine.
Il totale dominio del pensiero dialettico è semplicemente l’annientamento volitivo del pensiero dialettico, non la sua intelligentissima elaborazione. Non solo è inutile, ma è addirittura nocivo intellettualizzare continuamente i contenuti della Scienza dello Spirito e le modalità operative dell’Ascesi del pensiero. Si deve eseguire e basta!
Le faccio una proposta, gentile signor Visciotti: lasci perdere tutte le fisime sul secondo e sul terzo tempo – e poi di cosa, dell’esercizio del controllo del pensiero? – e si dedichi anima e corpo alla Concentrazione nella maniera più nuda e scarna. Ovverossia: scelto un unico pensato, lo pensi energicamente – con tutte le forze di cui dispone – sino a che nella attenta coscienza volitiva non vi sia altro che quel pensato, un unico oggetto del pensiero, e lo pensi oltre ogni limite di stanchezza o di noia, dandogli importanza come se fosse questione di vita o di morte. Pensi quel unico pensato sino a che la forza della volontà pensante non annienti la forma di quel pensato. Non dialettizzi e non intellettualizzi un tubero – come direbbe la mia amica S. – ed esegua e basta! Se lo farà veramente e seriamente, svaniranno tutte le sue fisime e gli problematismi inutili che Lei si pone!
Massimo Scaligero diceva e ripeteva a molti di noi, che la Concentrazione viene eseguita molto meglio da un carabiniere, abituato ad eseguire con precisioni gli ordini, o da un metalmeccanico che lavora con totale attenzione al tornio – i quali nulla sanno di che sia la dialettica – che non da un laureato professore universitario. E Rudolf Steiner scrisse non esservi ostacolo più grande all’Iniziazione di una laurea, con tutto il cascame del pensiero morto, con tutti i pregiudizi e le fiacche ma tenaci abitudini mentali – le “vasana” di Ramana Maharshi e di Isidoro – di un intellettualismo anemico e divagante, che una laurea porta con sé. A che dunque tanto parlare? Al lavoro!
Hugo, lupaccio cattivissimo,
che si sveglia prestissimo.
Hugo, il mio dubbio è sincero e vissuto, proprio nel fare.Un chiarimento: parlo di dominio della dialettica all’interno dell’esercizio, nella prima fase, prima della concentrazione vera e propria. So che nel pensare ordinario è praticamente impossibile.Ho ricominciato da zero la disciplina, e questo preciso, specifico dubbio operativo non l’ho sciolto nè con la “Scienza occulta”, nè col “Manuale pratico…”, nè con “Tecniche di conc. interiore”, nè con le “Indicazioni per una scuola esoterica”, problema mio. Non sono fisime. La ringrazio della proposta di mettere anima e corpo nell’esercizio, lo sto già facendo, e senza dialettizzare, tranquillo. Ma oggi è sempre più difficile fare questo esercizio.
Grazie
Caro Isidoro, grazie.
Cara amica, e di che?
Sono solo quelle cose semplici a cui però, per parlare di Misteri, di coppe trascendentali e delle acrobazie di sognate virtù, non si fa menzione.
Così tutti sanno che l’ego(ismo) va superato. Magari opponendo un sentimento buono ad un impulso cattivo: fatica inutile da tutti i punti di vista e ti incolli dove sei.
Mentre nessuno sa che meditare in garbha pindasana è davvero poco pratico…
E chissà quante cose ho omesso!
Intanto facciamoci un drink, tanto è festa 🙂
Isidoro, invece del mefifico drink, offrirotti un più gustoso e salubre italico menù. Eccolo al tuo apprezzamento.
Oggi è festa,
si mangia la minestra.
La minestra non è cotta,
si mangia la ricotta.
La ricotta non mi piace,
si mangia pane e brace.
La brace è troppo scura,
si va a letto addirittura.
Variante parziale del suddetto menù:
La ricotta qua non c’era,
si mangia pane e pera.
La pera è troppo dura,
si va a letto addirittura.
Hugaccio oggi è scherzoso,
ma nient’affatto spiritoso.
Un avviso per Francesco e per i pochi lettori:
non tenete conto di quello che Hugo ha scritto! Questo perché ha ragione, ha ribadito l’essenziale che è come il Tao che, appena definito è già perduto. Hugo indica ciò che si presenta come l’unica azione reale da intraprendere. Massimamente esecrabile poiché vorrebbe toglierci tutte le belle cose che danno un senso spirituale alla nostra vita.
A pane e acqua vorrebbe ridurci!
Seppure a denti stretti sono obbligato a confermare che l’orribile cosa che il biasimevole suddetto ha enunciato, può contenere in sé ogni altra esperienza, poiché è atto e allo stesso tempo cammino e se ci sono cose che devono venire, vengono da sé, secondo un principio di economia spirituale che certamente non sorge per le compiaciute velleità del soggetto ordinario.
Compito di quest’ultimo è solo il mettersi in riga perché le sue eventuali esperienze non verranno mai dallo spirito ma solo dalla sollecitazione abnorme delle sensazioni corporee.
Occorrerebbe rendersi conto, anche con arida chiarezza, che il 99% dell’occulto che gira è questo nulla malato: non porta mai su, piuttosto sempre porta giù.
Al di fuori del mondo di sua competenza, il pensiero ordinario è solo il quid che la corporeità rispecchia, quasi – come affermano i materialisti – una sorta di “secrezione corporea”. E i tanto celebrati sentimenti e volizioni sono ancora più immersi nella sensazione: percepiti perché il pensiero li percepisce.
Dunque chi volesse “espandere la coscienza”, “essere virtuoso”, “giungere all’immaginazione” ecc. meglio per lui sarebbe seguire Swami Abraminanda o il grande poeta indiano o ancora la sacra parola dei Principi della Chiesa: c’è tutto per tutti i gusti.
Sfilandosi subito dalle improvvide righe di Hugo.
Il “pane & acqua” lo accetto e so che è la base di tutto. Però, ragazzi, se dopo, e nonostante questo, uno ha un dubbio…..All’inizio del mio cammino F. G. mi assicurò, e mi convinse, che la concentrazione è autocorrettiva, e in fondo è a questo che allude Hugo.Mi va benissimo e sono sicuro di esserne all’altezza (e in fondo la risposta a quanto ho chiesto io ce l’ho già), però una controllatina alle gomme e all’olio ogni tanto va anche fatta fare.
Sì, questo è giusto: fare, fare e controllare. Abbiamo nella biblioteca di Eco 4 articoli di “Antonio” (Scaligero) che sono una sintesi stupenda…dove l’Autore non ti dà nessuna scusa per fraintendere: stazione di servizio completo!!