Intorno al tema della libertà nella comune coscienza umana, mi ha sempre affascinato l’esperienza riportata da C. R. Richet (Premio Nobel per la Medicina, 1850-1935). La ritrovate sulle pagine di Ur ma credo sia sempre utile rammentarla.
Al soggetto venne dato un comando post ipnotico abbastanza complesso: gettare nel fuoco un libro posto vicino al caminetto.
Giunge il momento: l’occhio – beninteso a caso – si posa sul libro. L’attenzione si concentra. Sorge il pensiero: “Ecco il libro datomi da ***. Ora è mio e mi è caro.” Intervengono ricordi ed associazioni.
Poi, inaspettatamente: “Caro…Ma sono forse schiavo di ciò che mi è caro?” Poi altri pensieri staccati: “Certamente no! Sono libero di fare quello che voglio, io”.
Lo sguardo si posa distrattamente sul fuoco del caminetto: “Certo, potrei anche gettarlo nel fuoco, per esempio, quel libro, se volessi” Pausa. “Se lo volessi…E perché no?
Risoluzione: “ Accidenti, io ce lo getto…appunto perché mi è caro!”
E lo getta, con un senso di soddisfazione per un atto che ha testimoniato la forza della personalità libera.
Il ragionamento è quello del libero arbitrio: cosciente, trasparente.
Ma intanto l’ “io” (“quello che l’uomo dice di essere”: vedi l’incipit del Trattato del Pensiero Vivente) è stato giocato alla grande.
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Risparmiatevi, in un eventuale commento, le obiezioni più ovvie. Prima tra queste, l’evidente anomalia dell’esperienza, la sua originaria patologia. Beh, la scienza medica impara dalle patologie e non dalla (apparente) condizione di salute.
Poi, nel caso narrato, gli organi sono assai sottili: psiche, anima, coscienza e definire quale possa essere la condizione di salute di queste, per la scienza sarebbe impossibile.
Certamente chi ha una certa famigliarità con la vita interiore si accorge senza troppe difficoltà che un tono di fondo, una minima mutazione del sentire è capace di modificare rotta e pescaggio. Ma anche l’essere capaci di avvertire ciò, difficilmente muta la situazione.
Non parliamo della “spontaneità”: un pensiero s’affaccia e noi apriamo porte e finestre allo sconosciuto. Se poi lo sconosciuto è seducente…è di certo più vero e buono di Padreterno.
Le opinioni generali ma anche robusti costrutti logici sono raffiche di indiscutibili verità.
Non c’è azione (apparentemente non riprovevole) che non sia supportata da un deflagrante impulso buono e cristiano.
Vi dico solo che molto può essere vero e giusto, ma…andateci piano.
Sarebbe forse meglio ridurre gli slanci dell’azione: sulla Via, la “retta azione” è agire soltanto nella luce della rigorosa consapevolezza ma già questa è una disciplina, perciò limitata da tempi e contingenze e risulta, nei fatti, impossibile al gusto dei..palati alterati, anche se sedicentemente occulti.
Ai fini pratici venne data una disciplina molto difficile che fa parte del sacrificio globale del vero asceta poiché implica una vasta sottomissione di sé allo Spirito.
Avete presente il secondo esercizio dei cinque ausiliari? Intendo l’atto puro. Bene. Esso consiste nel compimento di una breve attività avente le primarie caratteristiche d’essere: a) predeterminata, b) assolutamente priva di interesse o significato per chi la compie.
Pare, in fondo, poca cosa. Pare ma non è così. Faccio un esempio: nella metà degli anni ’70, quando molti andavano ad ascoltare Scaligero e parlavano con Lui in privato, con la pienezza dell’energia e dell’ardore giovanile, c’era chi riusciva a prendere fischi per fiaschi nei riguardi dell’atto puro.
Un esempio? Eccolo: il giovanotto che riusciva ad evitare l’esercizio di cui stiamo parlando assorbendolo in una concentrazione in più. Il ragionamento che faceva e che gli sembrava più liscio del sedere di un neonato era che l’atto puro fosse perfettamente assimilabile alla concentrazione: era un atto della disciplina spirituale, era o poteva essere predeterminato e implicava un’attività senza alcun interesse personale.
Naturalmente il fatto che l’atto puro sia una disciplina in cui la coscienza entra nel gioco della sfera metabolica (volitiva) è un fatto che, forse, neppure lo sfiorava.
Né lo sfiorava che il ragionare, indipendente da un solido radicamento nella realtà (in questo caso la semplice osservazione che gli esercizi sono due), può portare, con le intenzioni migliori, del tutto fuori strada.
Ho parlato di questo vecchio amico non certo per crocifiggerlo ma proprio perché il suo caso fu totalmente estraneo alla scarsa solerzia, alla volontà sfiaccata, ecc.
Lasciamo la mollezza ai nullafacenti che neppure vanno considerati.
Bene. L’atto puro ha un parente bastardo persino più grosso e cattivo.
Si tratta di stabilire – per quanto possibile – le azioni che si compiranno nell’intero arco della giornata successiva. Non “una” azione “pura” ma l’intera attività del giorno che andrà svolta secondo ciò che si era deliberato di fare dal giorno antecedente, salvo l’irruzione di contingenze esterne assolute.
Una sorta di “colpo di grazia” sul sentiero della disciplina interiore.
Dovrebbe essere chiaro, per chi se la sente, che i rigidi titanismi vanno evitati come la peste. Dovrebbe essere chiaro che è impossibile ottemperare a questa disciplina con le mille cose che si presentano come attività quotidiana…allora facciamoci un bel esempio concreto.
Sono molte le persone assai impegnate che per non dimenticare cose da fare, appuntamenti, eccetera, scrivono le cose importanti su di una rubrica o, negli ultimi anni, su costosi cellulari che, per telefonare, servono poco.
Si tratta di fare una cosa simile del tutto interiormente, immaginando una inderogabile serie di attività, anche quelle che possiamo chiamare necessarie, per poi eseguirle senza tentennamenti il giorno dopo.
Sono azioni che vanno immaginate come fortemente volute.
Male che vada scoprirete che obbedire a se stessi è un’esperienza che dovrebbe essere coerente con la disciplina e che invece viene vissuta quasi come una insopportabile violenza o una costrizione soffocante. Se uno tiene duro scoprirà di essere più desto, potrà avvertire che qualcosa si aggiunge in verticale lungo la colonna vertebrale e che, a momenti, un “vuoto pieno” riempie le braccia e le gambe. Sono questi, fenomeni che vanno percepiti con distacco (da percettore puro) e su cui non ci si lancia con la ghiottoneria di affamati avvoltoi. L’assetto realizzato istruisce l’anima sulla sua tripartizione.
Provate questo esercizio per alcuni giorni e allora capirete sulla vostra propria pelle quanto possa essere difficile l’atto puro e quanto sia difficile comandare (dominare) il proprio sé comune, sebbene si sia sempre se stessi ad agire: ma non come Io.
Tanto per essere talvolta noi stessi a fare, per nostro conto, quello che demoni e enti esterni di ogni tipo fanno solitamente con noi ma che scambiamo per libertà.
Basta provare e si capira’ quanto e’ difficile prima di tutto, e poi, esercitandosi correttamente, la differenza dall’ordinario “comportarsi”.
In questo chiaro e conciso scritto Isidoro spiega benissimo i due esercizi.
E quando si vuole “agire” sulla volonta’ Isidoro indica perfettamente l’illusione che molti ripongono nel primo esercizio, addirittura attribuendogli poteri immaginati; il cavallo di battaglia di alcuni, e lasciamoglielo volentieri, e’ che il controllo del pensiero, il primo esercizio, fatto da solo, fa tanto male: che lo confondano con quello della Concentrazione e’ palese, che insistano nell’accusare chi parla di Concentrazione invece che di controllo del pensiero puo’ essere ridicolo, perche’ si attribuiscono la competenza di spiegare le indicazioni dei Maestri, Steiner e Scaligero, proprio contraddicendoli.
Cosa rimane, cosi’ pretenziosamente predicato, dei Maestri?
Una immagine limitata e falsata nella dimensione sentimentale e mistica, proprio dimensioni che il Dottore e Massimo Scaligero volevano superare nel restituire, con la pratica della Via del Pensiero, il giusto assetto alla tripartizione interiore, con il conseguente positivo influsso sul sentire ed agire umano.
La realta’ sociale odierna e’ un “je accuse” drammatico fatto all’umanita’ intera che incantata non comprende.
Lo stesso spiritualismo in concorrenza col pensiero materialistico pretende di intervenire sugli effetti e i fatti, moralisticamente e sentimentalmente: non si vuole disprezzare nessun semplice e sincero ben intenzionato, ma la sterilita’, l’inefficacia di tale pensare e agire sono ormai sotto gli occhi di tutti: il mondo, l’umanita’ e’ a un crocevia drammatico, per ignorare (materialismo) la fonte originaria a cui attingere e per credere di dover ritornare all’antica morale e tradizione (spiritualismo), influsso diretto e gratuito divino ( oggi impossibile), in obbligati ed esteriori comportamenti, dettabili solo da stati emotivi difficilmente dominabili e stimolati da fonti diverse e lontane dal proprio vero Centro interiore.
Grazie Savitri.
Dopo tanti decenni è davvero desolante guardarsi intorno e vedere come sono stati trattati gli insegnamenti. Si potrebbe anche dire (quasi) il contrario, poiché tutte le fondamenta e le colonne di essi non sono state nemmeno sfiorate: sono bastate due cose due: un tantino di controllo del pensiero e la galvanizzazione dell’umidità dell’anima. Poi si attinge per tutta la vita a questa brodaglia…con tutte le giustificazioni intellettuali (infinite), supportate dalle vergognose predazioni di righe dei Maestri, che fuori contesto sono un nulla politicamente utilizzato.
Come giustamente scrivi, il pensiero moralistico, il pensiero sentimentalistico spinge all’azione inefficace, alla vuotaggine interiore e al fallimento della società.
Ricordo bene come Scaligero, ad un amico che vibrava d’entusiasmo per la “sacra fraternitas”, lo raggelò con poche parole:” Guarda che quello è il fine, non il principio”.
Ma contro l’operatività reale, per cui occorre polso fermo poiché si tratta di fare il contropelo all’anima (e talvolta inciderla con il secco, freddo filo del rasoio) intorno a Scaligero vivo, si formò una sorta di coalizione, progressivamente manifesta dopo la sua scomparsa.
In effetti, egli stesso sottolineava nelle conferenze pubbliche che andava seguìto ciò che si trovava nei suoi libri e non ciò che diceva nelle conferenze (io credo che lo stesso valga per il Dottore) a causa dei molti interventi volti a singole persone presenti, e questo lo so per certo.
In tal senso tanti figli di buona donna hanno fatto – e fanno tuttora – con Scaligero quello che fecero con l’insegnamento: aprono il pacco, gettano il contenuto e si tengono il cartone.
Va detto che Evola, nel periodo magico e a contatto con Colazza, sottolineò molte volte come la disciplina interiore fosse maggiormente analoga a quanto succede nell’operare con le reali forze della fisica e del tutto estranea ai moti personali e sentimentali. Ciò, per gli operatori è un dato di fatto, mentre per i più sembra un buio inavvicinabile.
Mi sa che, quando saremo chiamati al cimento fatale, avremo più paganacci ed evoliani al nostro fianco che… 🙂
Perdonatemi un’aggiunta:
l’impotente spiritualismo (in cui va purtroppo compresa la “scaliggerofilia”), sembra essere ossessionato dall’amore. Vagisce amore, rantola amore.
Ma è del tutto sordo ai livelli di coscienza: lì, come cambia la visione del mondo, muta pure il senso e l’esperienza dell’amore.
Ma la rozzezza ( umana, umanissima) degli organi interiori, compresa una limpida logica teoricamente accessibile a chiunque, nulla permette a questi tizi – solo e soltanto innamorati di se stessi – che sia qualcosa di diverso dal vedere soltanto il rispecchiamento di sé.
Se fosse amore, magari ingenuo o gaglioffo, sarebbe magari discutibile ma genuino (e affare loro). Ma allora perché insinuarsi continuamente (mai a viso aperto) CONTRO le discipline, ponendole anche furbescamente come antinomiche all’amore?
Allora: amare tutto e tutti…ma non le discipline interiori. Che buffoni!