SULLA PSICOLOGIA DELLA FRASE

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Presento agli amici lettori questo breve stralcio del Dottore. Esso è piuttosto semplice ma ricco di osservazioni che ogni buon ricercatore potrebbe giustificatamente approfondire. Poiché lungo la strada della conoscenza si incontrano inciampi di tutti i tipi. A dire il vero, il discepolo della via dei Nuovi tempi dovrebbe essere abbastanza capace di evitare la magia soporifera su cui si pone l’attenzione di Steiner: perché il discepolo della Scienza spirituale si educa al pensiero in piena autonomia.

Così dovrebbe essere ma poi l’osservazione del reale mostra quanto spesso l’educazione del pensiero sembra mancare, e ciò accade dove non dovrebbe accadere: pare che una mistica malia stia vigile alle porte della coscienza pronta a fermare il pensiero o intricandolo in una tela di veti e contro veti. L’ortodossia che, per paura, teme l’eresia, è solo un serio guasto nell’organo del pensiero: se il pensiero non pensa a fondo, affonda. Se affonda rimangono i luoghi comuni e con essi si campa nelle paludi della falsità.

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di Rudolf Steiner

Sulla psicologia della frase

Si assumerebbe certamente un compito ragguardevole chi volesse intraprendere un’esauriente descrizione della potenza delle “frasi fatte”. Vi sono poche cose al mondo che operano altrettanto suggestivamente e con effetti così misteriosi.

Quel che più importa è che la “frase fatta” è sulla bocca di tutti: ognuno la pronuncia con una certa importanza, senza accompagnarla con alcun pensiero, e in modo altrettanto scevro di pensiero, ognuno l’ascolta con altrettanta importanza.

Basta che colui che parla, come colui che ascolta, sia ben persuaso del peso di quelle parole. Al tempo stesso deve apparire stolto chi chieda il senso della “frase fatta”: poiché così facendo, ne distruggerebbe l’effetto. E dovrebbe di necessità distruggerlo: poiché, naturalmente, un senso la “frase fatta” ce l’ha.

Semplicemente perché ogni parola ha un senso in bocca a chi la usa per primo in una certa connessione. L’effetto, però, non risiede nel senso della “frase fatta”, ma in qualcosa che col senso non ha nulla a che vedere.

Un uomo politico intelligente usa una parola. Questa, nel complesso della sua argomentazione, ha senso e piena giustificazione. Ora si dà il caso che, nel Paese a cui quell’uomo politico appartiene, per un certo tempo in ogni discorso politico s’incontri quella frase. Quando il primo uomo politico intelligente ne ha fatto uso, essa agì in modo elettrizzante, perché illuminata dal resto del discorso. Ma a quel senso non pensano più affatto gli innumerevoli altri che pronunciano la stessa frase.

Bismarck tiene un discorso autorevole: un discorso che è un’azione politica. Egli dice: “Noi tedeschi temiamo Dio e null’altro al mondo”. Queste parole hanno un senso nel contesto del suo discorso. Ma continuano ad essere usate. Diventano “frase fatta”. Possiamo risentirle in innumerevoli altri discorsi. E possiamo benissimo promettere una mancia competente a chi, in quelli innumerevoli altri discorsi, trova un senso in quelle parole. Eppure la massima parte di quei discorsi dovrà l’effetto che produce, alla circostanza che l’oratore abbia adoperato quelle parole.

Si può tranquillamente affermare che una frase deve perdere il suo significato prima di diventare “frase fatta”. Perché la gente nulla ama quanto le frasi: e nulla le riesce ostico quanto l’intenderne il senso. Gli organi della favella sono animati da un’enorme smania di attività: gli organi del pensiero sono i più pigri che un organismo possieda. Gli uomini vogliono parlare assai e pensare pochissimo. Perciò occorrono molte “frasi fatte” che producano forti effetti senza obbligare a pensare.

A chi sappia osservare la fisionomia degli uomini potrà capitare spesso di assistere a un fatto di questo genere: due si intrattengono tra loro; cercano di intendersi in modo sensato, e così continuano per un certo tempo. Ad un tratto, ad uno di essi questa sensatezza viene a noia. Gli salta in mente una “frase fatta” con la quale può metter fine alla conversazione. Allora su ambedue i visi si esprime la gioia di poterla finire. La “frase fatta”, priva di senso, pone termine a una lunga conversazione, forse tutt’altro che insensata.

Una lontana somiglianza con la tendenza ad agire mediante “frasi fatte” ha la mania di corroborare le asserzioni con le citazioni. Per lo più le citazioni non hanno senso, perché adoperate fuori del contesto originario. Ne troviamo per ogni dove: sopra bandiere, monumenti, portoni di casa, articoli di fondo, teste di pipa, bastoni da passeggio, ecc. Il leggere quelle citazioni ci spinge ogni volta a dimenticare il senso che hanno avuto all’origine.

Con tutto ciò, non voglio dir nulla contro i luoghi comuni, né contro l’uso delle citazioni. Perché spesso i modi di dire più spiritosi provengono dall’impiegare una citazione in senso contrario a quello originale. Sarebbe nondimeno istruttiva una raccolta di osservazioni sul modo in cui agiscono le “frasi fatte”. Chi scrivesse questo capitolo della psicologia popolare potrebbe prendere due piccioni ad una fava: perché scriverebbe al tempo stesso un brano notevole di un altro capitolo della dottrina dell’anima, dal titolo: La spensieratezza della gente. L’uso delle “frasi fatte” rivela nel modo più chiaro quanto la gente cerchi di evitare di pensare.

Vi sono giornalisti che erigono tutta la loro esistenza su questa qualità delle masse. Scrivono, diciamo, tutte le settimane, un articolo che contiene qualche parola atta a esser ripetuta otto giorni di seguito. Con ciò i lettori hanno per otto giorni il mezzo di parlare di una cosa senza far uso dei loro pensieri. Ad ogni occasione ornano il loro dire con l’ultimo motto del giornalista X. Molti giornalisti possono registrare grandi successi solo perché possiedono l’arte l’arte di coniare parole che, oltre il loro senso, hanno in sé anche qualcos’altro che esercita una azione suggestiva, che le fa agire quando sono state spogliate del loro senso. La psicologia della “frase” dovrà investigare che cosa sia questo “qualcosa” che residua quando da una frase si è distillato il senso, e che ha poi la forza magica di rendere quella frase una potenza che domina gli uomini. Questa psicologia della frase sarà un contributo importante alla psicologia delle masse.

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Nota: non potendo rintracciare il probabile ciclo di conferenze a cui quanto sopra appartiene, indico la provenienza: Antroposofia, rivista mensile di scienza dello spirito – Anno I – N. 1. Gennaio 1946.

8 pensieri su “SULLA PSICOLOGIA DELLA FRASE

  1. Forse cosa questo “qualcosa” sia non è stato del tutto chiarito, ma il come avvenga è stato molto indagato, fino a codificarne la tecnica. E’ stato sicuramente un importante contributo alla psicologia delle masse, sfruttato soprattutto per il dominio a cui si accenna.

  2. Riguardo all’essere dominati da “qualcosa”, Gustav Meyrink, nel suo libro La notte di Valpurga ci dà una suggestiva visione esponendo il segreto dell’aweysha (sorta di magica possessione): “Di solito, quando qualcuno fa aweysha con un altro, questi non se ne accorge. Ma poiché l’entusiasmo, il trasporto lo si sente, per questo si crede che esso venga da sé. – Sai, vi sono diverse specie di aweysha. – Alcuni possono fare aweysha con gli altri per mezzo del semplice parlare. – E’ sempre aweysha, benché più naturale. – Ma con chi crede solo in se stesso ed è sempre presente a sé, non vi è uomo al mondo che possa fare aweysha. Nemmeno un ewli o uno sciamano”

  3. Buon giorno ,”alcuni possono fare aweysha con gli altri per mezzo del semplice parlare” :alcuni hanno testimoniato che Julius Evola fosse in possesso di una tale capacità: ascoltarlo parlare in francese alle domande lui rivolte sul dadaismo, ci permette di percepire un potente ritmo interiore che comanda le sue argomentazioni:questo mi appare di molto importante da tener presente, di fronte al suo enigma di uomo che si presenta come maestro : attaccare l’ operato di Evola specie di fronte al di lui rapporto con altri suoi amici in UR, che vale? La continuità, nonostante tutto, della connessione di Evola a Colazza è il punto di partenza per ogni serio tentativo di comprendere Julius Evola : anch’ egli ,Evola, testimone in UR :testimone del potere, reale, di far passare presso i suoi seguaci per vero anche il contrario

  4. Già! Avevo riferito che il barone, quando collaborava con il Gruppo teosofico indipendente di Decio Calvari, nelle conferenze riusciva a trascinare le coscienze a stati “alterati”, mentre chi non reggeva persino scivolava in mancamenti. Sembra che la freddezza logica con la quale dispiegava l’argomento trattato adombrasse una potenza dionisiaca!
    Rimango però agnostico intorno alla diatriba che vide Evola confrontarsi con Reghini: ho letto qualcosa di ciò che si scrissero e sono rimasto “ammirato” circa la grande dovizia di improperi personalissimi che l’uno lanciò all’altro: meriterebbero un volumetto.
    Invece sulla connessione tra Evola e Colazza non posso rispondere, poiché non ho mai trovato qualcosa di scritto o almeno di riferito. Certo è che in Krur Colazza rimase, seppure al minimo, con la sua presenza.
    Mentre è del tutto vero che la connessione tra Evola e Scaligero fu intensa, sebbene nel tempo, relativamente sepolta ma mai del tutto interrotta.
    Non ho capito invece che senso dare alle sue due ultime righe: sarei felice se avesse pietà di un testone come me.
    Perciò attendo e la saluto.

  5. In Evola è possibile intuire( almeno)),la potenza dionisiaca :la sua dialettica diventa , a momenti, veste di una forza di persuasione capace di assumere, nella determinazione del compito , elementi assolutamente eterogenei :quello che ci viene realmente incontro per via dei plurimi eteronimi da lui assunti per UR e proprio quello che la mistica degli “evoliani”, di ragione ignora

  6. Certo che sì. Quando si è giovani, col cuore forte e gli ormoni a mille: generosamente disposti a credere (tendere) alla POTENZA che pare quasi a portata di mano.
    Non credo sia però un male…nel divenire 🙂

  7. Alla fine bisogna sempre guardare al prodotto della semina. La zizzania vien prodotta dal seme della zizzania che non sarà mai un chicco di grano.

    Nessuno sostiene che Evola sia stato un ciarlatano, non lo fu nemmeno Crowley (almeno non del tutto), nemmeno Abramelin, nemmeno Dee…

    Da lì a seguire il loro esempio ce ne vuole. De gustibus.

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