«L’uomo che tenda alla reintegrazione non può non incontrare gli ostacoli che riguardano la normale condizione umana: lungo il sentiero non può non trovarsi dinanzi quelle barriere che arrestano la vocazione dell’uomo comune e lo costringono a rimanere ciò che è. A un dato momento queste barriere mostrano il loro potere di dominare ferreamente ciò che è possibile all’uomo in quanto semplicemente tale. L’arte è allora vedere sino a che punto giunga questo potere: a lato allo sperimentare umano, il pensiero libero dai sensi può dare simile conoscenza. D’onde la possibilità del libero imaginare, cioè del superamento del limite umano».
Massimo Scaligero
(L’Uomo interiore, Ed. Mediterranee, Roma 1976, p. 94)
È inevitabile per il cercatore spirituale, che voglia essere completamente sincero con se stesso, di partire da quello che egli concretamente è, dalle forze limitate e dalla ancora parziale consapevolezza che possiede. Talvolta il sentiero del cercatore spirituale ha al suo inizio una crisi radicale che travolge le certezze umane, intellettuali, morali – in verità di consistenza solo apparente – della vita cosiddetta “normale” e scuote violentemente tutta la struttura interiore dell’uomo. Questa crisi – radicale – è forse il momento piú prezioso di tutto il suo cammino, quello più intenso e sincero, nel quale il cercatore vede – in taluni casi per la prima volta – in maniera inattenuata il vero aspetto della condizione umana generale, e, soprattutto, quella sua individuale, personale. Questa crisi è il principio del cammino spirituale: principio non tanto, o non solo, in quanto inizio temporale dal quale si prendono le mosse per la ricerca, ma soprattutto come situazione-limite, come stato interiore dell’anima nel quale l’urgenza e il pericolo hanno fatto emergere forze che, altrimenti, avrebbero vegetato nel sonno torpido e ottuso di una condizione vitale e animale indisturbata: in una condizione, appunto, “normale”.
È indubbiamente una crisi molto pericolosa, che sommuove dal profondo dell’anima tutte le forze dell’essere umano, così che questi è costretto a far fronte ad un’emergenza, che violentemente travolge tutto ciò che vi è di autentico in lui e nel mondo attorno a lui. Crisi che il suo essere cosciente – limitatamente cosciente – non ha voluto e che il Destino gli ha portato incontro come un enigma che è per lui vitale sciogliere, come una prova estrema da superare. L’emergenza mette in evidenza quanto poco cosciente, appunto, sia la sua coscienza, quanto radicalmente egli s’inganni sulla saldezza delle proprie “certezze”, quanto relativi, o addirittura falsi, siano i “valori” ai quali, prima della crisi, con ingenua fiducia si affidava e che costituivano la “concretezza” e la “normalità” della sua vita. Se, per viltà o per “ignoranza”, tenta, o s’illude, di evitare l’affrontare la prova – che irrompe repentina e violenta – la crisi può avere un esito catastrofico, addirittura letale.
Non sempre all’inizio della Via vi è questa crisi totale, ma – per quanto ciò possa sembrare paradossale – il verificarsi di essa è da considerarsi un evento particolarmente felice, addirittura un prezioso dono del Cielo, del quale ci si accorgerà presto di dover essere grati, come di un privilegio raro che il destino ci concede, perché questa crisi ci offre l’occasione di un energico risveglio interiore, di una trasformazione decisiva, che può giungere sino alle radici più profonde e nascoste della nostra anima. A quel momento decisivo il cercatore dello Spirito può sempre di nuovo riportarsi: può evocarne l’intensità, il potere risvegliatore e purificatore. In effetti, l’emergenza improvvisa, l’evento critico, ha il potere di mobilitare le forze più energiche dell’Io ed evoca il clima vero dell’anima nel quale si deve svolgere l’ascesi, perché questa sia feconda: dà la misura dell’intensità della forza che ogni volta deve essere impegnata nell’esercizio interiore.
L’aiuto più prezioso della crisi, il suo dono veramente inestimabile, è il dissolvimento della sensazione di apparente “normalità” della vita abituale, cioè il dissolvimento o la demolizione di quella menzogna che stempera l’aspetto tragico dell’esistenza – che è il suo volto autentico – diluendolo nelle banalità della tran-tranquillità quotidiana, e spegne, narcotizzandola, la percezione intensa, anche se dolorosa, dell’urgenza dell’azione interiore che la condizione di pericolo, o la prova estrema, sollecita. La sensazione dell’apparente “normalità” del vivere solito è soltanto un’abitudine emotiva, ossia il ripetersi passivo, sempre più meccanico, di uno stato d’animo obbligato, che venendo subìto in forma sempre meno cosciente, arriva a diventare uno stato cronico, una vera e propria memoria organica, profonda, che come una falsa spontaneità prevarica sull’Io e impone il modo “naturale” di vedere e di agire nel mondo. Questa ipnotica abitudine alla “normalità” ha un effetto anestetizzante – ossia desensibilizzante – sulla coscienza, la cui consapevolezza si abbassa e, come conseguenza di questo intorpidimento, cessa la tensione della volontà, la sfrangia e la disperde, sino a che non vi è più presa su una volontà ridotta al sonno e alla paralisi. Per molti – per i più ormai – è addirittura inconcepibile e indesiderata una condizione dell’uomo diversa da questo turpe servaggio.
Il dissolvimento dell’aspetto di apparente “normalità” di una vita, la cui spenta routine è basata sulla visione ottusa e pigra di certezze approssimative e di valori limitati e scontati, porta l’asceta, che vuole realmente percorrere l’aspro sentiero della realizzazione spirituale, ad attuare coraggiosamente lui stesso, per iniziativa autonoma, quest’opera di destabilizzazione della assestata “normalità” animale, a voler vivere in uno stato interiore di mobilitazione permanente di tutte le proprie forze, ad impegnare in maniera incessante la volontà consacrata in una disciplina alacre, intensa, fervida, serrata, volta ad affrontare risolutamente ogni limite interiore incontrato, a combattere instancabilmente, per superarlo, ad amare, con nostalgia appassionata, questo stato interiore dell’anima assetata d’Assoluto, che non si acquieta nella “normalità” di un’animalità indisturbata, ma è teso a superare con slancio quella barriera con la quale la “natura” domina ferreamente coloro che subiscono passivamente il suo tirannico imperio e contro la quale s’infrangono gli sforzi pavidi ed indecisi di coloro che spensieratamente “giuocano” con lo spirituale e che vorrebbero ridurlo al proprio fiacco livello, per evitarne la travolgenza trasformatrice.
Se al principio del sentiero spirituale non si verifica questa crisi totale – che, ripetiamo, oltre che necessaria è “felice”, “fausta”, in definitiva “augurabile” – è molto difficile che si abbia, nel procedere, l’energia richiesta per una trasformazione radicale di sé. È veramente difficile che si abbia questa energia, perché non se ne scorge la necessità: restando immutata la visione del mondo e della vita, non venendo incrinati dalla crisi e fatti vacillare gli illusori valori sui quali ci si appoggia, non si ha la forza di percepire che la condizione umana è una condizione ad alto rischio, una situazione pericolosa, tutt’altro che stabile e salda, anzi, estremamente fragile e precaria, per la quale sarebbe oltremodo salutare – e salvifico – lo scuotersi dal tramortito sonno della visione “normale” delle cose e della vita e il vincere – ed è necessario lottare per farlo – il modo “normale”, “naturale” e “spontaneo” di un comportamento creduto autonomo e nostro, mentre è soltanto il segno di quanto siamo dominati e giocati da Deità Avverse.
Nella via egoica, si accoglierà dello Spirituale quel tanto che non incide ed altera l’andamento più o meno tranquillo o agitato – a seconda della “natura” che ci domina – della vita abituale. Ovverosia, il centro dell’esistere sarà costituito dal fatto che si mangia, si beve, si lavora, si gioisce e si soffre, si perseguono le proprie varie ambizioni, grandiose o meschine, comunque illusorie: tutto questo lo si chiama “vivere”, lo si ritiene un valore assoluto. A lato di questo “vivere” vi sarà, perifericamente, come comoda cornice egoica, una spiritualità timida e consolante, oppure una spiritualità “culturale”, intellettualmente “interessante”, che porti una nota di colore e un po’ di varietà nella noia esistenziale e nella vacuità sostanziale di un “vivere” spento e ripetitivo, che è un morire e un decomporsi dell’anima, al quale non si ha la forza – per comodità – e il coraggio – per viltà – di opporsi. Per questa ragione, per questo stato di menzogna rispetto alla situazione di concreto pericolo, che si evita di conoscere, e di diserzione con la quale ci si sottrae all’impegno di lottare per lo Spirito, la via egoica impedirà che si proceda oltre i primi passi, paralizzando ogni sforzo che possa destabilizzare lo stagnante status quo.
Nella via eroica, la crisi radicale demolisce tutto ciò, mostrandone l’irrealtà e la distruttività. Il discepolo si accorge dello stato di sordità e di opacità spirituale nel quale era immerso e della paralisi della sua volontà vera, quella capace di movimento autonomo rispetto alle sollecitazioni della “natura”. Al centro del suo esistere viene ora a porsi, come necessità vitale, la ricerca della conoscenza spirituale, la realizzazione del suo autentico essere interiore. Lo Spirituale diviene per lui l’essere reale, concreto, centrale del suo esistere, e l’impegno ascetico è ciò attorno a cui ruota, tutta intera, la sua vita che anela a rispondere al richiamo dell’Assoluto. Questa è per lui la necessità vitale: rispetto ad essa la vita esteriore, che pur vive, con le sue gioie e i suoi dolori, con le sue necessità e i suoi drammi, con i suoi doveri ai quali non si sottrae, diviene provvisoria, contingente: periferica rispetto alla concentrazione interiore continua, intensa, fervida, che la sua consacrazione alla Via spirituale, in quanto via eroica, esige. Ovviamente è inevitabile vivere, e il vivere ha giustamente, al suo livello, le sue necessità, i suoi impegni, che comportano doveri e responsabilità. Ma in quanto valore apparente, illusivamente autonomo, questa vita esteriore, contingente e periferica, se è vista come realtà in se stessa e come scopo a cui volgersi, diviene il campo della frantumazione e della dispersione, proprie alla molteplicità esteriore, contrapposta all’unità e alla concentrazione dell’essere interiore. Nel suo risuonare nell’anima e nell’afferrare il sentire, l’apparire consuma e oscura la vitalità spirituale, erode e paralizza le forze del volere. Alla presa illegittima dell’apparire, l’asceta si sottrae, svincolandosi, “morendo al secolo” – come dice un antico testo ermetico – ossia al mondo, pur rimanendo attivo, cosciente e sensibile nel mondo. È un morire al passivo e involontario assenso che il nostro essere istintivo, “naturale”, “normale”, vorrebbe dare, come in passato, ai valori irreali dell’apparire del mondo, che non è il mondo.
Abbandonata la riva falsamente rassicurante dell’antico modo di esistere, che ora, in conseguenza di questa voluta morte dell’essere apparente, si realizza vuoto e inconsistente malgrado le sue molte lusinghe, ci si inoltra a guadare una perigliosa corrente, e si avverte la necessità di conquistare, con fatica e lotta, nuovi valori e nuove, meno peregrine, certezze. Con la lena di chi tende ad una mèta fortemente anelata, si moltiplicano gli sforzi che, procedendo nel cammino, crescono in numero, intensità e durata, e arrivano a coinvolgere tutto l’essere cosciente. È mutata alquanto la visione del mondo e della vita, e i nuovi valori, ai quali si fa riferimento, sono il risultato di duri sforzi, di aspre lotte, di insistenza tenace oltre ogni sconfitta, oltre ogni inevitabile fase di oscurità e di aridità. Tutto ciò fa procedere per un lungo tratto nel cammino. Poi vi è l’arresto e nuovamente la crisi.
La crisi che sopravviene sembra non abbia possibilità di superamento, in quanto sopraggiunge allorché nell’ascesi – sempre che non ci si sia risparmiati, ovvero non si sia seguita la via egoica – si sono esaurite tutte le forze delle quali si disponeva, ed anche i valori, conquistati a prezzo di dedizione e sforzo, mostrano di essere, a questo punto, anch’essi contingenti e relativi. Per quanto preziosi, anzi assolutamente necessari, si siano dimostrati nel cammino sino ad allora percorso, essi ora mostrano la loro relatività e provvisorietà e, per quanto siano stati utili nella loro trascorsa funzione, oramai esaurita, si rivelano adesso incapaci di farci superare il sopraggiunto limite che ci arresta. Per quanto si continui con ostinata tenacia nell’ascesi, ci si avvede che, continuando così, non si procederà oltre. Ci si senti di fronte ad un abisso che non si riesce a varcare, ad una parete di impenetrabile roccia che non si riesce a superare. Tutto ciò può condurre alla disperazione. Si è coscienti che non si può tornare indietro, che il sentiero percorso è franato o scomparso alle nostre spalle e che questa crisi, qualitativamente diversa dalla precedente, è, come quella, decisiva e altrettanto pericolosa. Se prima si trattava di “morire al mondo”, ora si tratta di “morire a se stessi”, e questo è qualcosa che costa moltissimo, perché si tratta di morire non a un mondo profano e fatuo, del quale si scorgeva la vacuità, bensì a quanto ci siamo duramente conquistati, a quanto è diventato “noi stessi”, al prezzo di superamenti, sforzi, rinunce.
Ancora una volta è necessario essere completamente sinceri con se stessi e riconoscere che i “valori” conquistati, ai quali facevamo riferimento, e la visione del mondo, della vita, di se stessi, alla quale ci eravamo sforzati di giungere, erano quello che, partendo da ciò che eravamo all’inizio del cammino – ossia limitatamente coscienti e solo parzialmente mutati – eravamo in grado di concepire. Ma era, tuttavia, un modo di concepire, di intuire la mèta e il cammino ancora “umano”, ossia ancora soggettivo e provvisorio. Abbiamo detto che la crisi iniziale è importante, perché essa è il principio, ossia il modello, l’archetipo della necessaria trasformazione interiore. Il suo sopraggiungere non era stato da noi voluto: era un dono del Cielo e del Destino. Ma ad esso possiamo sempre di nuovo richiamarci. La sua azione di dissolvimento dell’apparire e del contingente in noi, possiamo audacemente volerla. Possiamo, rovesciando gli appoggi ai quali ci aggrappiamo, aprirci coraggiosamente all’assolutamente nuovo, all’ignoto, ancora inconcepibile, ma presentito necessario e reale.
Per cui di fronte allo spalancato abisso che ci blocca, alla impenetrabile roccia che ci arresta, possiamo, rivolgendoci al Mondo Spirituale, alla Suprema Potenza che regge i destini degli uomini e del mondo, chiedere che venga suscitata in noi l’intuizione vivente del compito che ci attende e che è necessario affrontare. Questa richiesta, meditata, a lungo ripetuta, intensamente sentita, appassionatamente rivolta al Cielo, con sincerità, con slancio, con coraggio, con disperazione, può suscitare la percezione lucida dell’azione interiore richiesta al superamento dell’abisso. Può essere donata l’intuizione o la consapevolezza di quanto prima necessariamente ci sfuggiva, perché non avevamo le forze per concepirlo, e che ora si presenta in tutta la sua concretezza. Quanto intuito, se accolto con coraggio e venerazione, diviene una forza agente, trasformatrice della nostra interiorità e del Destino.
Per impreviste e imprevedibili vie, a questo punto, la vita porta incontro al cercatore compiti e prove talvolta estremamente dure, che trasformano l’esistere in un insonne lottare contro la morte, nel quale l’accelerazione degli eventi non permette piú la stasi inerte, propria alla via egoica.
Questo lottare esige la consapevolezza che la Via non è per noi, ma per il Divino, che il superamento della nostra soggettività, mai esaurito e definitivo, ci apre alla possibilità di fare coraggiosamente nostri – in libertà e per amore – i fini dello Spirito, che il sacrificio del transitorio e dell’effimero, nella visione del mondo e di noi stessi, accende nelle nostre anime il fuoco celeste, la folgore che, percuotendola, dissolve la “natura” inferiore e la riplasma secondo il Logos, che la nostra anima “ignificata” può tuffarsi nell’apparire e riconsacrare ogni aspetto della vita e dell’esistere. Questa trasformazione interiore può portare ad incontrare grandi difficoltà, di fronte alle quali inizialmente ci si potrà sentire non adeguatamente preparati. Potrà portare ad una involontaria solitudine, anche esteriore, per l’intensità e la rapidità degli eventi che violentemente possono irrompere inaspettati nella nostra vita. Potrà portare persino ad una anche troppo prevedibile incomprensione, da parte di molti, rispetto a scelte e ad azioni che rispondono a richieste imperiose degli eventi, e che possono condurre ad un agire tempestivo e talvolta ‘fuori’ rispetto alla conformità alle regole convenute: quindi ‘problematiche’ di fronte alle “abitudini” mentali e morali proprie ad una “normalità” irrigidita, che paventa e resiste di fronte ad una trasformazione radicale.
Grazie Gentile Hugo, queste tuo piacevolissimo raccontare (nel senso più alto del termine) porta quiete nell’anima tormentata dagli affanni quotidiani.
Tu parli di crisi, come non ricordarne l’etimologia in quel greo Krisis, che richiama il Krino stesso, ovvero la discontinuità, il punto che separa un fianco della montagna da un altro ma che allo stesso tempo congiunge due Vette. Camminare sul filo della crisi così intesa innalza lo Spirito umano e gli fa ritrovare la giusta dimora tra le altezze Celesti.
E’ la rottura di una routine, passare dal mondo delle ombre, in cui troppo spesso ci identifichiamo, al mondo della Luce, il fianco della montagna illuminato dalla Potenza del Sole.
I Romani antichi solevano sintetizzare tutto questo in un unico Ente, lo Janus bifronte, il Re degli Inizi e delle Iniziazioni. Non mi stupisce dunque che tu incontrasti il caro Massimo per la prima volta proprio nei pressi del Colle a Lui sacro.
Un saluto,
Cibon.