Mi è stato chiesto di pubblicare qualcosa che riguardi l’equanimità. Anni addietro lo avevo già fatto. Perciò riprendo rivedendo (quasi) a nuovo il tema.
Parto da un fatto vero, da un incontro realmente avvenuto tra me e un giovanottone di cui fu padrino di battesimo
Non so come sia andata poi, ma il fatto era che il mio figlioccio si accingeva ad iniziare il terzo dei famosi cinque esercizi.
Per giungere al bisogno/impulso di procedere oltre il controllo del pensiero e l’atto puro, gli erano occorsi degli anni! E già da questo potreste ammettere che la cosa che sto raccontando è del tutto vera.
Da ciò, poiché si sta parlando di una persona reale, potete vedere quanto può essere diverso il lavoro interiore tra uomini in carne e ossa diversi: chi fa un esercizio al mese, chi aveva ricevuto l’indicazione di farli tutti cinque subito e nella stessa giornata, chi dei cinque non fa mai gli…ultimi quattro. C’è posto pure per quelli che i “cinque esercizi” non li fanno proprio e fanno altro, infine ci sono anche tanti che non fanno niente e anch’essi avranno le loro ragioni…non le trovo ma di sicuro le avranno.
Dunque, per piacere, evitiamo inutili giudizi, poiché come in ogni esercizio di preparazione esoterica contano soprattutto la dedizione e l’intensità, cioè la merce più rara e più elusiva, alquanto celata per gli umani strumenti di misura e valutazione.
Allora, tornando alle prime righe ricapitolammo minuziosamente alcuni aspetti dei primi due esercizi. Osservai quanto era stato notevole sentire dal figlioccio come la concentrazione lo avesse aiutato durante il durissimo periodo di un grave lutto personale (la sua compagna era morta in un incidente stradale). In quella situazione aveva fatto quello che anche suggerisco spesso: brevi concentrazioni molte volte al giorno.
Rivisitammo anche il secondo esercizio (quello che, sulla carta stampata “pare” facile) e convenimmo su tre cose: a) l’assetto interiore dell’atto, silenzio interiore e consapevolezza, nel compiere l’azione libera da motivi personali, senza il preventivo controllo del pensiero è troppo poco, non coinvolge i corpi sottili; b) è piuttosto importante che l’azione venga predeterminata il giorno prima e che, come un fiume carsico, scorra sotto traccia, anche durante il sonno notturno; c) in condizioni di possibilità l’azione pura non sarà lunga, anzi sarà semplice e breve, ma articolata e completa come le azioni che si espletano ordinariamente: i gesti troppo elementari, come il portare un oggetto da una tasca all’altra possono essere visti come eccezionali ripieghi in eccezionali occasioni: atti di buona volontà e – si spera – non di astuta pigrizia.
Il terzo esercizio, senza un minimo risultato di disciplina e di minima realizzazione dei primi due, è più o meno impossibile.
Ricordiamoci che gli essenziali – volontà nel pensiero (I) e pensiero nella volontà (II) – sono il punto di partenza per il III, ossia il contenimento di impulsi ordinariamente inarrestabili provenienti da una sfera possente che in massima parte è fuori dal controllo conseguito con una condizione interiore che si renda, almeno in taluni momenti, indipendente da natura, carattere ed educazione.
A meno che non si “bari” brutalmente con la depauperazione sistematica dell’anima (sul modello della vecchia educazione “all’inglese”). Pur di evitare, coscientemente o meno, un incontro diretto con la propria interiorità (ciò terrorizza più gente di quanta si possa credere) vi sono quelli che, sentendo una personale inadeguatezza in varie forme di rapporto sociale, fanno il possibile per darsi modi e abitudini più raffinate: modificano lo stile comportamentale da fuori a dentro, come viene fatto nelle scuole per ufficiali nell’Esercito. Ma questo è un capitolo che esorbita dal nostro tema.
Con il III esercizio i tentativi “titanici” sono fallimentari e possono alterare la sana vita animica.
Il terzo esercizio è difficile poiché, lo si interpreti come si vuole, porta ad un impoverimento del proprio sentirsi abituale, ed è proprio ciò che Steiner dice senza dirlo quando scrive che “ si diventerà più ricettivi per tutta la gioia e il dolore che ci attornia” e questo è possibile solo quando non si sia immersi nella propria gioia o nel proprio dolore.
In effetti il Dottore si preoccupa che il discepolo non tenti la bravata indicata sopra, cioè tenti la strada sbagliata dell’insensibilità e dell’indifferenza che alla fine sono solo manifestazioni della perdita della più alta potenza dell’anima.
La richiesta “tecnica” è orientare l’essere interiore a “padroneggiare l’espressione del piacere e del dispiacere, della gioia e del dolore”. Si domina cioè la manifestazione istintiva.
Questo viene sottolineato più volte: a ragione poiché trattiamo di un lungo lavoro, reso ancora più difficile dalla sottile necessità di separare, come nell’alchimia, il sottile dal denso: dunque la percezione del dolore dall‘invadenza del dolore.
Il risultato dell’esercizio è la creazione di una zona animica indipendente dai sentimenti personali e dalle loro fluttuazioni: il Dottore la descrive come di “intima calma”.
Alla fine si tratta di dare forma nell’anima a qualcosa che già può esserci se il I ed il II esercizio sono stati esercitati davvero a lungo e in profondità: si plasma consapevolmente qualcosa che già dovrebbe esserci.
Mentre i primi due esercizi possiedono caratteri formali che possono renderli più accessibili, con il terzo esercizio (equanimità) entriamo in un certo qual modo nelle discipline a cui manca il supporto certo. Il dott. Colazza direbbe che sono “atteggiamenti” dell’anima. Con l’equanimità siamo a metà strada (mentre con il IV e V esercizio, a dirla tutta, sono dolori: cioè impazzano le “traduzioni” personali, quasi sempre abbondantemente astratte ed astruse).
E’ possibile avvicinarsi progressivamente all’equanimità a passi relativamente certi.
In primis ricordo un consiglio che Scaligero ci diede (buono per qualsiasi esercizio che abbia la caratteristica dell’interfaccia tra anima e mondo esterno).
Si tratta di meditare per immagini e per più settimane la scena dell’esercizio. Dico “scena” come un attore che prepari anima e gesto per la parte che svolgerà sul palcoscenico. E’ un immaginarsi in una situazione che, nell’ordinario, causerebbe immediatamente una reazione emotiva, mentre in tale immaginare si realizza se stessi come osservatori spassionati.
Ci si cala così in un antefatto dell’esercizio…con le caratteristiche del meditare ossia poche immagini semplici la cui impressione riesca ad risuonare nell’anima.
Esiste poi una quasi- equanimità che è più facile, più controllabile.
Mi ricordo che veniva spesso suggerita da Mimma Benvenuti, cugina di Scaligero, alle tante persone che trovavano più facile confidare a lei le difficoltà incontrate nella pratica.
Se vi è chiaro il senso della parola “espressione” usata dal Dottore, troviamo un gradino di mezzo, del tutto corretto e sicuro che può essere praticato più volte nella giornata.
Si tratta di dare uno stop all’immediatezza della propria reazione sensibile, magari per tre secondi.
Facciamo un esempio facile: suona il telefono, siamo da una vita abituati a precipitarsi per rispondere: ora invece rimaniamo fermi: scatti il silenzio dei centomila pensieri (esercizio I), il dominio cosciente sul movimento fisico (esercizio II).
Centouno, centodue, centotré… poi (solo poi) assecondiamo la vecchia abitudine.
Lo stesso vale alla fermata del bus, al suono del campanello, alla parola che vorremmo far uscire dalle labbra, ecc.
Dai, che tre secondi non vengono nemmeno notati!
Qui ho dato uno schema abbastanza facile, spetta alla libera capacità di ognuno modificarlo, allargarlo, inspessirlo, ecc.
Poi, quando diventa una capacità reale si può, con maggiore sicurezza, passare a “stoppare” manifestazioni più forti o insospettabili.
Le più difficili appartengono alle relazioni tra esseri umani, specie in famiglia.
Quando si avverte che la nuova capacità “tiene”, occorre grande prudenza: in tempi in cui stress, rabbia e frustrazione sono la pessima atmosfera comune, la calma non è qualcosa con cui adornarsi in piazza. Non v’è disciplina esoterica senza una controparte magica che agisce sul mondo circostante: può essere un toccasana per chi ci circonda ma in alcuni fomenta collera cieca. Senza esagerazione potrei dire che la tua calma imbufalisce quelli che nemmeno sognano cosa essa sia. E non sto scherzando!
Forse è inutile ricordare che “l’equanimità” è uno tra gli esercizi più difficili per il comune stato dell’anima: sarà trasformante ma, in genere, può venir colto come un doloroso passo indietro. Pur con le dovute cautele, si incide nel tessuto animico: per essere capaci di farsi male nella sfera del sentire, è assolutamente necessaria la forza di dominio coltivata col I e II esercizio.
Infine, per le traduzioni iper-minimaliste del tipo “vino & tarallucci”, potremo continuare allegramente la chiacchierata nel bar più vicino…
Centouno, centodue, centotre…
Questi suggerimenti sono come raggi del sole che attraversano la notte.
Ne farò tesoro. Grazie!
Massimo.