Premetto subito che mi dissocio da quanto sembra insinuare Isidoro in questa nota. So bene quanto sforzo, sacrificio e tempo dedichino amici e lettori alle discipline interiori. Forse Isidoro vorrebbe che i summenzionati dedicassero solo poche ore all’opera? Oppure è solo la birbonata che indicherebbe una preoccupante carenza di serietà dell’autore? Eco pubblica equanimamente gli interventi ma il problema rimane: esiste una grande differenza tra opinione e punto di vista. Se sia l’una o l’altro in questo caso, giudicate voi.
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Fare all’impossibile va bene, fare l’impossibile forse no: poiché è improbabile che ciò possa verificarsi per ordini impartiti dalla mente.
Se non vi dispiace vi racconto una esperienza personale che con la Scienza dello Spirito in sé non ha nulla a che vedere ma con la vita corrente sì.
Però un poco di analogia c’è, come gli arti fisici indicati dal Dottore per dare il senso concreto e reale dell’esperienza interiore: “Si impara a conoscere un pensiero, nel quale ci si sente come un veicolo di forza del proprio essere umano; un pensare – e non parlo ora figurativamente, ma esprimo la concreta effettiva verità – che può colpire, del quale si sa che può colpire. Si impara a conoscere un pensare che non si svolge in immagini passive come il pensiero abituale, ma che è ulteriormente assolutamente attivo e di cui si sa che, sebbene lo si svolga chiaramente, è nondimeno forza, come è forza quando alzo il braccio o quando faccio un segno col dito”.
Allora la storia è questa: nonostante la mia quasi venerabile età, continuo ad andare in palestra (follia controllata), poiché da tempo gli sport attivi non posso più farli (sto parlando di atletica pesante di contatto!) mentre un controllato e conservativo gruppo di esercizi sì, e fino all’esaurimento.
Mi succedeva spesso che, impostata sul diario d’allenamento una tabellina nuova, ben studiata al tavolino (ho oltre cinquant’anni di esperienza), nel fare ciò che avevo scritto, che mi ero studiato di fare, il risultato si risolveva in un massacro oltre misura: cosa che mi spegneva la velleità di ritentare, seppure dopo giorni di riposo, la stessa impresa. Così collassai ben tre volte.
Ciò non mi spaventava ma mi impensieriva: “Cosa succede? In due settimane sono invecchiato di due, cinque anni? Perché una simile incapacità?”.
Cambiavo la tabella, suddividevo in maniera diversa gli esercizi, l’approccio ed il metodo d’esecuzione ma il problema si riproponeva.
Stavo arrendendomi al disastro quando un pensiero fece capolino, sgomitando tra la conoscenza e l’esperienza: semplice e rivoluzionario: “Cretino che sei, quello che pensi di fare non coincide con la realtà delle tue attuali possibilità: stai solo facendo troppo!” Ragionamento astratto e presunzione concreta mi stavano ingannando.
Dovetti abbandonare quei pensieri che sembravano perfetti a tavolino, con notevole sforzo arrestai una ricca parte del mio sapere e, contro la mia abitudine e le mie velleità mi costrinsi a fare quello che potevo permettermi realmente di fare: sempre fino all’agonia ma più brevemente e con una mole totale di lavoro più che dimezzata.
E così ho ripreso il meglio che una disciplina fisica può dare: persino la sua piacevolezza (roba da matti!).
Quanto narrato è vero e non l’ho scritto per portare la vostra attenzione sul sottoscritto (chi di voi mi conosce sa che così non può nemmeno essere) ma sull’analogia tra la disciplina fisica e la disciplina interiore.
Alcuni, tra coloro che ora leggono, hanno fatto il mio stesso errore. Il risultato è stato un senso d’impotenza, di fallimento ed un giudizio negativo verso se stessi…per non parlare di qualcosa simile al disgusto verso gli esercizi.
Come nel mio caso, decidere a tavolino (anche se il tavolino è metaforico) può essere la cosa più lontana dalla realtà che possa esserci.
Nessuno dovrebbe dirsi: “Da domani inizio a fare la concentrazione” e nemmeno seguire il Dottore con i cinque esercizi: “Faccio il primo per un mese, il secondo per un secondo mese…e al sesto mese armonizzo il tutto” e così via. Ciò è formalmente possibile ma, in pratica, è semplicemente velleitario.
Provate piuttosto a fare quello che vi sentite di fare – con la massima intensità e dedizione – quando vi sentite di poterlo fare: pronti all’estremo ma senza sovrastimarvi!
Vi faccio un esempio semplice: Ramana comprendeva che le persone molto occupate, spesso occidentali, non avrebbero potuto vivere una vita immersi nella meditazione. Allora indicò per quelle persone un tempo di lavoro limitato: soltanto due volte al giorno: due ore (consecutive) al mattino e altre due ore alla sera. Sulle vie della Tradizione, quella di Ramana era, in effetti, una soluzione che sposava le necessità contingenti e l’ascesi interiore. Nulla di eccessivo se si considera che, in Occidente, il bistrattato cardinale Richelieu, primo ministro sotto Luigi XIII e di fatto dominus della Francia, iniziava la giornata con una sola ora di meditazione, tempo troppo breve di cui molto si dispiaceva .
Non indico ciò come modelli da seguire ma per rammentare quanto poco possono chiedere le direttive di una odierna scienza dello spirito.
Non seguite indicazioni o modelli alla lettera, senza un rapporto di fattibilità personale: seguiteli quando vi sono utili solo ascoltando la vostra coscienza: se la parte più ragionevole di essa vi chiama al dubbio, ascoltatela subito.
Rendetevi davvero conto che non sono io o chiunque altro che potrà dirvi cosa è bene e cosa è male per voi ma solo l’anima può dire ciò che è vero per la vostra anima: anche l’anima ha una sua interiorità: ascoltate quella. L’anima dell’anima esiste e andrebbe ascoltata.
L’esercizio è una esperienza di vita dell’anima non usuale in cui collabora il Destino, non il tavolino (tanto meno i guru: quelli che svolazzano qua e là sono palloncini di gas fetido e basta). E non lasciatevi imbrogliare dall’istrionesca superficialità dell’anima: quella, se vuole, si ammanta di serietà e ieraticità per dieci minuti e vi frega.
Chi chiede lumi avrà sempre una risposta. Alcune risposte stanno una vita per arrivare. Le risposte più rapide chiedono la tangente del tormento, del dolore, della disperazione. Chi è contento di sé continui ad esserlo, non ingarbugli la vita con cose che non gli competono.
Non credo alla realtà dell’esperienza di chi dice – un, due, tre, voilà – di giungere alla Luce beatifica con uno schiocco di dita: ma se vi piacciono le trappole dei mezzi-mistici nessuno vi tratterrà: forse è il vostro destino…un tantino più contorto ma anche i labirinti hanno il loro significato.
Siate onesti con voi stessi. Ogni giorno. E’ l’unica cosa che mi sento di chiedervi. In palestra, nonostante le disavventure che ho raccontato, il sensibile è il grande correttore della fantasia e della sovrastima: se non siete forti non potete sollevare da terra un bilancere di 180 kg: rimane incollato al suolo e nemmeno rotola se tentate di spingerlo: casomai saranno le vertebre a rompersi. La realtà sbriciola la rappresentazione dopata.
Gli errori dell’anima sono mille volte più facili: imboccato un certo modo di pensare non v’è rappresentazione che non sia seducente, non perché sia folle ma anzi porta in sé il carattere della verità e del buon senso. Però vi sono sensatezze dettate dai timori più meschini o da sentimenti di grandezza che sono solo parassiti dell’anima e che non andrebbero presi per consiglieri. Ascoltate invece il modesto ma inequivocabile sussurro della Ragione: confrontatelo con il duro ma sano pragmatismo dei fatti. Evitate la calda voce del misticismo facile quando decidete qualcosa…e poi, con calma e semplicità, agite e basta!
Vale assai più il consiglio di un amico che lo scrisse pure su Eco: “Fare pochissimo, fatto benissimo”. Così sintetica, pare una battuta dei terribili Patriarchi antichi, ma ci crediate o meno, è una buona fonte d’ispirazione: come in palestra così nel cammino interiore. Però ci sarebbe pure una variante: “Fare tantissimo, fatto benissimo”, buon modo per comprendere, per esperienza diretta, la misura della catena o dove sta il muro su cui vi schiantate. Così, come la luce ha forgiato gli occhi, con le testate contro i muri si formano nell’anima gli organi necessari per vedere quando piantare e quando lasciare perché cresca qualcosa.
Essendo campo dell’Occulto, qui possiamo anche trascendere il principio di non-contraddizione formulando una terza possibilità per niente astratta: “ Fare pochissimo, fatto malissimo”. Visto come vanno le cose, questo è il consiglio più realisticamente seguito: tertium datur est. Così abbiamo superato il principio del terzo escluso. Eccome!
Isidoro, è vero che – rispetto alla Concentrazione e alla Via del Pensiero – è possibile, e talvolta savio, “fare pochissimo, fatto benissimo”, ma gradualmente si può giungere anche a che il “pochissimo fatto benissimo” lo si può “fare spessissimo”. E così – come, in analisi matematica, la sommatoria di differenziali infinitesimali dà luogo ad una funzione integrale finita o infinita – anche la somma di numerosi sforzi interiori intensissimi, protratti per brevi tempi, può dar luogo nella giornata ad un tenore fattivo di concentrazione e di reale, autentica, tensione interiore che, nel tempo, dà i suoi indubbi frutti positivi.
Nel tempo, appunto, gli sforzi ripetuti, alacri, intensi, portano poi l’asceta del pensiero ad un impegno protratto nel tempo: a quel “moltissimo, fatto benissimo” cui accenni tu, Isidoro, nel tuo articolo. Si può giungere sino al punto di cercare – in una temeraria sfida con se stessi nella Concentrazione – quel punto estremo di interiore sforzo consacrato, e di dedizione assoluta alla sacralità dell’atto volitivo del pensare cosciente, giunti al quale il miserabilissimo, menzognero e pavido, ego umano schianta, e si può finalmente cominciare ad essere – magari per una “breve eternità” – un Io, ad essere veramente “l’Io che si dice di essere”, ad agire spiritualmente, a non essere dei pupazzio mossi dai fili di una ingannevole natura umano-animale: sovente più animale che umana!
Quanto ai pigri sostenitori del “pochissimo” o del “nulla”, ovviamente “fatto malissimo”, magari quel pochissimo persino sostituito con i languori moralistici e sentimentali delle “anime belle”, che dire? Ci sono nella vita tante altre cose, inutili quanto divertenti, nell’occuparsi delle quali sciupare e perdere “creativamente” il proprio tempo, piuttosto che prendere in giro se stessi e gli altri con la menzogna di uno pseudoesoterismo farlocco.
Hugaccio,
cattivissimo
lupaccio,
che dello Spirito
cerca l’abbraccio.
Salve Isidoro,
se non interpreto male, la velleitarietà sta nel seguire le indicazioni del Dottore e pensare di riuscire a fare per un mese
per esempio il terzo esercizio, illudendosi di poterlo eseguire durante tutto l’arco del giorno?
Buona primavera a tutti.
Be’ riguardo a ciò che scrive Hugo, non pongo ulteriore verbo: lui giustamente puntualizza ciò che io tratto con minor rigore. Questo si spiega con la mia valutazione delle cose. Scelgo spesso di dire alcune cose con leggerezza, fidandomi più degli dei che degli uomini, sebbene sospetti che nemmeno Padre Giove possa fulminare il tegumento impenetrabile (duro come il diamante ma non adamantino) che separa le teste dallo spirito.
A Massimo rispondo che il quando ed il quanto delle discipline, se intraprese come azioni serie (serissime!) è frutto di esperienze e prove che ognuno dovrebbe tentare da sé. Senza traccia di dogma. L’uomo è assai cambiato da quando il Dottore diede quelle indicazioni (che, tra l’altro, appartenevano ai discepoli della Scuola Esoterica insieme ad altre operazioni). Senza contare i limiti e le capacità individuali. Meglio che l’anima – col massimo rispetto possibile – provi per suo conto. Credo che ora tentare quelle discipline per un mese sia risibile (tenendo anche conto che non conosco poi tanti che riescano a svolgere oltre pochi giorni il II esercizio, ben presto arenandosi sulla spiaggia del niente). Già realizzarsi due: uno che comanda e l’altro che ubbidisce è difficile. E non parliamo del III: la sua indicazione è come se fosse scritta in antico aramaico…
Isidoro, un po’ crudo e un po’ cotto al pomodoro: lishana aramaya: l’aramaico è una lingua bellissima, e potente! Lo stesso Mani – chiamato, appunto, Mani Hayya, o Mani “il Vivente”, il “Manicheus” dell’ex-manicheo Agostino di Ippona, scrisse quasi tutte le sue opere in siriaco, ovvero in aramaico orientale!
Quasi quasi faccio davvero tradurre i cinque esercizi in aramaico, così poi vessiamo i giovani praticanti, che devono eseguire tutto in aramaico!
Hugaccio,
oggi ancor più cattivissimo
lupaccio