Cari lettori, avete spesso visto, in testata ad alcuni articoli, una fotografia in bianco e nero di Massimo Scaligero. E’ una delle foto che preferisco perchè più risponde all’uomo che conobbi.
Osservando quella foto osserverete che sul muro alla sua destra si trova appesa una piccola immagine. Un volto con barba e capelli candidi. Non era l’unica che Scaligero aveva appeso sui muri ma è quella che dalla foto non esce mai più. Mi sembra più che giusto che quel volto indistinto (nella foto) non vada da altre parti: non stava lì a caso né serviva a vivacizzare la parete.
E’ l’immagine di un asceta dell’India moderna, Ramana Maharshi (30-12-1879 14-04-1950), dunque per decenni contemporaneo a Massimo Scaligero.
Sarei tentato verso qualche similitudine ma è cosa che non mi piace e che non trovo produttiva, come trovo esempio di volgare superficialità ridurre a brevi battute frammenti di osservazioni di Ramana. Come sdrucciolano i mistici compari: senza ombra di devozione o rispetto davanti a queste grandi anime. Userebbero pure padreterno per farsi pubblicità: incommentabili!
Nella spiritualità (vera) del XX secolo tutti i giganti dello Spirito oltrepassano il ricco terreno delle tradizioni, fatto che Guenon e Evola non notano chissà perché. Esemplare è Aurobindo che rifiuta l’evasione conclusiva del samādhi e tende, con il suo Yoga integrale, allo spirito che trasforma l’uomo storico e la materia terrestre: egli porta i cieli nella zolla di terra che è l’uomo incarnato. Trasformatore di trascendenze che in lui divengono atto immanente.
Rischiando di semplificare, direi che per Ramana questo (formidabile) problema pare non esistere, poiché non vi è contrasto o incompatibilità tra l’esistenza e la liberazione, tra l’illusione e la realtà. Per Ramana c’è un solo ostacolo: l’identificazione dell’Io con l’ego.
Erano tanti coloro che andavano da lui con desideri non appagati, oppure per conoscere la soluzione dei mali del mondo. Velleitari riformatori che udivano l’invariabile risposta: “Hai per prima cosa riformato te stesso?”.
A parole tutti vorrebbero cambiare in meglio il mondo ma ciò è autogratificazione: porre mano alle cose per escludere ciò che sarebbe la prima cosa da farsi: trovare il proprio Soggetto. Il culmine del più vero servizio è l’Autoconoscenza.
Nel Sutra-Bhāsya, il saggio Bāșkali dopo esser stato ripetutamente interrogato, disse: “Noi abbiamo già dichiarato la verità ma tu non hai compreso. L’Io è pace, silenzio.” Ramana parlava poco e avvertiva gli interlocutori che domande e risposte appartenevano all’avidyā (nescienza): erano soltanto indicazioni. E in verità, molti al suo cospetto furono orientati dal suo Silenzio.
Ma se il pensiero rappresentativo si figurasse una figura immobile e staccata cadrebbe nell’errore. Ramana leggeva con cura il giornale (lo ridava al possessore come se non l’avesse mai sfiorato), accudiva agli animali della comunità, era solito a dare una mano in cucina, preparando la cottura dei vegetali. Passeggiava spesso intorno alla sacra collina di Arunachala seguito rispettosamente da tigri ed elefanti e gli uccelli che in cielo lo accompagnavano indicavano alla comunità dei discepoli dove egli si trovasse.
Dava, se richiesto, spiegazioni di testi sacri che gli erano persino ignoti sino a quel momento.
Il bisturi che Ramana propone per aprire un varco sino alla realtà dell’Io è sostanzialmente uno e semplice, si chiama ātma vicāra o jnana vicāra. Discriminazione conoscitiva che giunge al vero essere dell’uomo. In pratica è una domanda rivolta a se stessi: “Chi sono io?”. Domanda non oziosa ma operosa: veicolo che assume varie forme per quanti possano essere gli involucri che nascondono la realtà dell’essere supremo.
Ho visto che in rete vi sono molti Siti che scrivono di Ramana, diversi copiano le stesse cose di gente che ci campa sopra. Per distinguere Eco da essi faccio una cosa ribalda. Poiché ho seguito l’insegnamento di Ramana per tempi non troppo brevi, provo a ricapitolare parte della sua Via attingendo dalla mia esperienza diretta. Mi pare una strada più concreta e meno noiosa.
Si inizia, come per tutte le cose, con quello che si è e che si ha, e pazienza se è poco.
L’apprendistato di base è, in un certo senso, volto alla negazione: il “non questo, non quello” (Neti neti). Ci si chiede: “Io sono questo corpo?”, poi, dal senso/immagine corporea si sale ai comuni contenuti dell’interiorità. “Questi sentimenti sono Io?”. Si giunge al mondo dei pensieri che salgono o entrano nella coscienza e la domanda viene ripetuta. Neppure essi sono l’Io.
Naturalmente il lettore capirà che non ci si trastulla con semplici (automatiche) domande avendo in tasca la facile risposta. Faccio un esempio: la risposta intellettuale non vale nulla. Occorre realizzare quanto profondamente ci identifichiamo nelle sensazioni corporee, come ci riconosciamo allo specchio e nelle foto, come tutti ci riconoscono vedendo il nostro modo di camminare, la nostra figura, i nostri lineamenti che sono unici…
Occorre realizzare tutto questo, conficcarcisi dentro, prima di realizzare che tutto questo non è l’Io. Perciò si medita, si medita a lungo (io, credendo di fare chissà cosa, meditavo per mezz’ora due volte al giorno. Lessi poi che Ramana, consapevole dei tempi limitati dei suoi affacendati discepoli occidentali, consigliava loro il minimo sufficiente: due ore al mattino e altre due alla sera). E si deve giungere ad una persuasione assoluta.
Ho parlato del corpo sensibile, poi le difficoltà aumentano e raggiungono l’apice con il pensiero, sebbene il vicāra e il meditare svolgano un ruolo non secondario. Perché non sono solo i pensieri erratici a turbare la condizione dell’operatore ma soprattutto il pensiero dell’Io: l’Io come pensiero radice e tutte le radici di pensiero andrebbero divelte, rimanendo nell’anima soltanto l’interrogativo implacabile, ormai del tutto privo di parola e forma.
A questo punto possono essere auspicabili degli aiuti per penetrare in una condizione di enstasi attiva. Per me furono utili due esercizi collaterali: il controllo del respiro e la fissazione oculare. E prima di venir lapidato lasciate che mi spieghi in cosa essi consistevano.
Il “controllo del respiro” non era parente del prānāyāma. Aveva una minima affinità formale con il Qigong cinese, breve e semplificato. Si trattava solo di un rallentamento della respirazione che si fa dolce e lieve (dicono i Testi che il respiro non dovrebbe smuovere una piccola piuma). Indipendente dalla meditazione, lo praticavo per una decina di minuti giornalieri. Porta una maggiore calma nel corpo ed acquieta la mente (diversi studi hanno dimostrato che la pratica del Qigong è positivamente terapeutica in diverse malattie).
Il secondo esercizio menzionato, fuori da una desta coscienza meditante e se prolungato oltre ad un minimo, può essere senza dubbio pericoloso. Senza la dedizione completa all’impulso profondo innestato dal vicāra, esso rischia di trascinare a visioni medianiche, al medianismo (credo che il valoroso dott. R. Moody con esperimenti simili abbia imparato cose oscure a proprie spese). Scrivo con spassionatezza di discipline ma non le indico come suggerimenti da imitare: spero che ciò sia chiaro.
Detto questo, la fissazione oculare (guardare nel silenzio un punto luminoso) va fatta per pochissimi minuti. Talvolta basta un attimo.
Il mondo, il corpo, il respiro, le tracce di pensiero: tutto pare congelarsi, tutto si arresta in virtù di “fiamma fredda”. Su questo delicato tema, il Dottore parla di un nesso tra il nervo ottico ed il fuoco kundalini nella O.O. 54 del 1906 . Poi, se la dynamis del vicāra non si arresta, il suo informale dardo prosegue il viaggio oltre la muraglia del sonno (il potente impulso ad un sonno non naturale mi parve l’ostacolo più grande e penoso).
E poi cosa succede? A questo punto, per me che stavo vivendo una serie di fenomeni come vengono descritti da G. Meyrink, niente di più, poiché un tale mi scrisse di abbandonare – in pratica – questa via: ”Ma, caro amico, una volta nella corrente del pensiero vivente, si sa quale asana o tecnica psicosomatica ci può essere utile. Le posso assicurare che si sa tutto, a questo punto si possono buttare i libri. Si può tutto, ma occorre ravvisare la condizione vera, il vero sādhana di questo tempo: è decisiva per la civiltà la distinzione tra pensiero somatico e pensiero vivente: per il pensiero vivente passa tutta la magia antica. Se le è necessario si giovi ancora dei supporti ramaniani ma metta al centro la magia del pensiero e i 5 esercizi come correttivo di tutto. Nel pensiero incorporeo c’è la potenza della folgore. E’ la via dei forti e dei risoluti. (da una lettera di M.S. all’autore, del 9 gennaio 1970). Per conoscenza e ragione essenziale sapevo che Scaligero diceva il vero: così dovetti combattere una breve e feroce battaglia tra inclinazione istintiva e coerenza logica. Non a gradi: abbandonai drasticamente il precedente lavoro con una crisi da contraccolpo (mi parve di essere vuoto in un vuoto senza appigli) per poi dedicarmi all’assurdo pensiero concentrato su una ridicola, insignificante matita. Una disciplina talmente estranea dalla mia condizione animica, tale da dover essere aiutato: da un lampo che conteneva tutto.
Ma l’amore per questo lontano Maestro rimane in me intatto, anche se credo di aver trovato qualcosa di grandemente diverso che, se mi è permessa una battuta, sembra chiedere moltissimo per dare pochissimo.
Ora, per terminare questa nota, trascrivo qualche parola del grande nato-due-volte. Volontariamente evito ciò che piace di più: le fulminee battute, quasi socratiche, che si svolgevano tra Ramana e i devoti. Scelgo piuttosto qualcosa di costruttivo che riguarda cosa sia e cosa non sia la ricerca del Sé, trascritte da un discepolo occidentale a cui va un pensiero di gratitudine: A. Osborne. E rammento di non fermarsi alla semplicità delle frasi: quale sarebbe il senso di farle più complicate?
“Quando la mente indaga incessantemente sulla propria natura, trapela la constatazione che non c’è quella tal cosa detta “mente”. Questa è la via diretta ed è per tutti.
La mente non è che un coacervo di pensieri. Di tutti i pensieri, quello dell’io è la radice. Quindi, la mente è solo il concetto io. Donde nasce? Cerchiamo entro di noi: sparisce. Questo è perseguire la Saggezza. Quando l’io svanisce, appare, da solo, un Io-Io. Questo è l’Infinito (purnam).
Quando l’ego è, ogni cosa è. Se l’ego non è, le altre cose non sono: invero l’ego è tutto. Perciò la ricerca di quello che veramente è l’ego è il solo modo di abbandonare tutto.
Lo stato in cui l’io non emerge è lo stato in cui si è QUELLO. Se, non si cerca questo stato nel quale l’io non emerge più è lo stato in cui si è QUELLO. Se non si ricerca, nel quale l’io non emerge più e non lo si raggiunge, come è possibile raggiungere la propria estinzione, dalla quale l’io non rivive? Senza questo raggiungimento, com’è possibile prendere dimora nel vero stato nostro, nel quale si è QUELLO?
Così come, per ripescare qualcosa che è caduto in acqua, occorre tuffarsi, così ci si deve immergere nel nostro intimo, con coscienza acuta e ben concentrata, controllando parola e respiro e trovando dove si origina l’io. La sola ricerca che conduce all’Auto-Realizzazione è quella della fonte della parola io. La meditazione “io non sono questo”, “io non sono quello” è di aiuto nella ricerca ma non è la ricerca. Se uno si chiede “chi sono io” nella mente, il mentale cade umiliato appena si raggiunge il Cuore, e immediatamente si manifesta la Realtà spontaneamente, come Io-Io, e per quanto si manifesti come Io, non è l’ego ma l’Essere Perfetto: il Sé assoluto.
I concetti di legame e di liberazione non sono che modificazioni della mente. Non hanno realtà propria e non possono funzionare per proprio moto. Essendo modificazioni in qualcos’altro, ci deve essere una entità da essi indipendente che ne è sorgente e sostegno comune e se cerchiamo in quella sorgente per sapere di chi è la liberazione o il vincolo, troviamo che essi sono attribuiti a me.
Se si cerca davvero “chi sono io” si vedrà che non esiste nulla che sia io o me. Al vedere che l’io non esiste, rimane qualcosa che è conosciuto immediatamente ed inequivocabilmente come auto-luminoso e sussistente soltanto come Sé. Questa viva presa di Coscienza, che è una diretta e immediata esperienza della Verità Suprema, giunge in modo del tutto naturale, senza alcun aspetto straordinario, a chiunque rimanga com’è, e ricerchi introspettivamente senza permettere alla mente neppure un momento di esteriorizzarsi o di perder tempo in chiacchiere inutili. Non vi è quindi il minimo dubbio riguardo alla certa conclusione che, per coloro che hanno raggiunto questa Realizzazione ed in tal modo risiedono nel nel Sé, ad esso identici, non v’è né legame, né liberazione.
Il Sé è pura Consapevolezza. E tuttavia l’uomo si identifica col corpo, che è insenziente e che di per sé non dice: “io sono il corpo”: chi lo dice è qualcun altro. E neppure lo dice l’illimitato Sé. Chi lo dice allora? Tra la pura Coscienza ed il corpo insenziente sorge un io spurio, che si immagina di essere limitato dal corpo. Cercatelo ed esso svanirà come uno spettro. Quello spettro è l’ego, la mente, la personalità. Tutti gli insegnamenti di saggezza trattano di questo fantasma ed il loro scopo è la sua eliminazione. Lo stato presente è pura illusione, che deve dissolversi.”
Oh Isidoro, mirabilissimo uomo!
Mai come ora ho assaporato il Fuoco dell’Invito a Nozze: di Lui e Lei…. sì, Amore e Conoscenza.
Mai come ora mi si è dis-velato il mistero dell’avversione al “morire prima di morire, senza morire”.
Riecheggiano in me le parole di un caro amico:
“Per quanto possa sembrare strano, dunque, sentire “Io sono” annulla l’io e imparare a “essere” conduce a “non-essere”. Ma solo se tutto va bene.”
Semper gratus!