UN GIOVANOTTO ESEMPLARE

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Attila (detto Etzel nella canzone dei Nibelunghi) è, storicamente una figura misteriosa. Vediamo di seguirlo con l’aiuto del Dottore.

Già le rappresentazioni storiche sono contraddittorie: le saghe e le epopee di popoli diversi danno di Attila una visione che contrasta col terrore con cui viene ricordato nel sud dell’Europa. Infatti presso i Germani e gli Ungheresi (per non parlare di Prisco, ambasciatore bizantino che lo conobbe) Attila viene descritto come un nobile eroe, un grande re, degno di sposare la vedova del sommo Sigfrido e chiamato a compiere un’alta missione per l’umanità.

Nei paesi meridionali invece e ancora oggi la parola “Unni” è sinonimo dei più inumani, spietati distruttori. Attila è il mostro orrendo del genere umano, la crudeltà e la barbarie fatta carne.

Veniva detto che gli Unni passavano la vita sul dorso dei cavalli: giorno e notte, staccati dal suolo e in moto quasi perpetuo. Pare anche che non possedessero leggi o ordinamenti, né scritti né orali e tuttavia nella loro azione, nel combattimento regnava una perfetta unità, un “disegno” impercepibile, simile a quello che guida gli uccelli migratori.

La scienza dello spirito ci dice che essi non avevano una coscienza diurna troppo dissimile da quella notturna e, non mettendo piede in terra, era come se vivessero nei moti dell’aria e con una possente organizzazione istintiva che nessun altro esercito poteva contrastare.

Gli Unni rubavano, massacravano, sterminavano: la sola notizia del loro giungere diffondeva una paralisi di terrore negli animi: così si moriva prima di morire.

Steiner li caratterizza dicendo che erano avanzi atlantidei: senza ordinamenti né leggi poiché ancora immersi in una coscienza chiaroveggente, quasi identica di giorno e di notte, non delimitata. La possibilità di operare con gli spiriti della natura cavalcava insieme all’ignoranza del senso del dolore e persino la morte fisica era per essi diversa da ciò che intendiamo comunemente.

Gli altri uomini avevano subito una grande trasformazione dall’epoca atlantica al IV e V secolo dc, mentre gli Unni, rimasti in parte nella coscienza atlantica (quindi luciferizzati) erano come una sorta di corpo estraneo per la restante umanità.

Tutte le leggende sugli Unni e su Attila confermano l’indole atlantica di questo popolo: in tempi assai remoti viveva nel centro dell’Asia una meravigliosa regina di nome Eneh. Essa aveva due figli: Hunor e Magyar (dunque capostipiti di due popoli: gli Ungheresi e gli Unni).

I due fratelli, appassionati cacciatori – così racconta la storia – inseguirono un cervo meraviglioso, sino ad un paese “ove il sole non tramontava più ad Occidente ma a Oriente”. Smarrito il cervo, trovano un boschetto dove due figlie di re imparano a diventare fate. I fratelli rapiscono le fanciulle e successivamente le sposano. Il luogo dove avvenne il rapimento divenne la seconda patria degli Unni: l’Ungheria, la grande pianura tra gli Urali del Sud e il mar Caspio.

Qui essi svolsero la loro vita nomade ma nel IV secolo questo immenso paese non basta ed iniziarono le scorrerie verso Occidente: questi primi urti spingono a loro volta, verso Occidente, popoli germanici e slavi: è fatto storicamente riconosciuto che la migrazione dei popoli fu iniziata dagli Unni ed ebbe termine con gli Ungheresi, loro popolo fratello, sul finire del IX secolo.

Rudolf Steiner parla dello sfondo spirituale di questa migrazione di popoli. Egli dice che essa fu inserita nella storia dell’umanità a causa del romanesimo che erigeva un carattere mondiale di uniformità, nemico dell’Io. Questa tendenza arimanica divenne pericolosa quando l’Impero iniziò a trasformare l’impulso cristiano in organismo esteriore.

Molto era già compiuto in questa direzione: gli gnostici erano stati sterminati, così i Manichei in Oriente: a Roma i superstiti venivano perseguitati orrendamente: nato fin d’allora, il concetto di eresia uccideva i più alti e nobili impulsi spirituali dell’umanità.

Secondo il disegno spirituale del mondo, la migrazione doveva combattere la base arimanica del decadente potere romano.

A mio parere è impossibile stabilire se gli Unni avessero consapevolezza della loro missione, però le leggende narrano che i sacerdoti avessero indicato, con precisione, che un grande re sarebbe sorto ed avrebbe avuto tra le mani “la spada di Dio” e la considerazione tra le genti come “flagello”.

Sappiamo che Attila fu consapevole del suo compito e per suo mezzo anche il popolo unno: ciò appare nella obbiettiva relazione di Prisco, ambasciatore bizantino. Secondo la scienza dello spirito, Attila possedeva una iniziazione atlantica che lo aveva dotato di forze e capacità occulte, così che i contemporanei vedessero in lui non solo un re e condottiero ma anche un mago. La leggenda racconta che il suo sguardo e la sua spada – la spada di Dio – sempre tenuta in mano, erano sufficienti per morire all’istante.

Si ritiene che Attila fosse nato in riva al Volga (Athlys). Il punto di partenza delle sue imprese fu l’odierna Ungheria che divenne la sede principale del suo regno che si estese dalla Scandinavia al Mar Nero. Divenne re nel 435.

La disciplina di iniziato, delle cui manifestazioni esteriori ci informa ancora Prisco, lo differenziavano molto dal carattere generale del suo popolo. Attila dominava costantemente la focosità, l’impulsività: i suoi tratti non si atteggiavano mai né al riso né al pianto: taciturno e impassibile, la disciplina esaltava queste sue qualità. Era immune da ogni sfarzo, indossava una semplice veste nera e beveva da rozzi recipienti di legno.

Sin dalla gioventù, Attila venne riconosciuto dal popolo come il predestinato e la missione del popolo unno era totalmente congiunta alla sua individualità. Convinzione fortissima e tale che nonostante avesse figli carnali, non vi sarebbe stato alcun successore e persino che, alla sua morte, sarebbe perito tutto il suo popolo.

Tale convincimento era diffuso in tutte le classi del popolo: Prisco ne parla nella sua sobria esposizione: Attila, come Wotan in attesa del Crepuscolo degli Dei, guardava giornalmente e consapevolmente la morte, sapendo che, adempiuta la missione, tutta la sua comunità sarebbe passata per l’annientamento.

La leggenda ungherese narra di un giovane toro ferito ad una zampa. Il pastore esamina allora il luogo dell’incidente e vede una punta di spada sporgente dalla terra: tra fuoco e fiamme questa spada cresce fulmineamente fuori dalla terra. Viene subito portata ad Attila. Questi traccia con la spada quattro segni nell’aria nella direzione dei venti e così si unisce con le correnti aeree per conseguire il futuro dominio sul mondo.

La storia, in (raro) accordo con la leggenda, conferma il fatto che Attila intraprende il compito di essere il flagello di Dio soltanto dopo aver trionfato su se stesso. Dovette sciogliere i legami affettivi più importanti: con Honoria, figlia dell’imperatore romano, col proprio fratello maggiore Buda (fondatore della futura capitale ungherese Buda-pest) e con Ezio, l’amico più intimo e profondo. Così strappò dal suo cuore amore, gratitudine e fedeltà: così poté intraprendere la sua missione.

E’ ancora fatto storico che Attila fu riconosciuto e considerato dalla maggioranza dei popoli germanici. Accanto agli Unni, le sue schiere furono colmate da numerosi Germani. Il fatto storico fu adombrato nelle epopee in cui si narra del matrimonio di Attila con Crimilde, come ho citato all’inizio.

Attila passò di vittoria in vittoria. Roma, quando se ne accorse, raccolse tutte le sue forze per fermare la sua avanzata con le truppe guidate da Ezio, l’amico di gioventù tradito. La battaglia decisiva fu combattuta nella attuale Francia, sui campi Catalauni sul fiume Marna (là dove, nell’autunno del 1914 ebbe luogo lo scontro tra l’Intesa e le Potenze centrali).

Sui campi Catalauni avvenne una delle più spaventose battaglie della storia mondiale: l’esercito romano fu sterminato e quello unno fortemente indebolito. Fu chiamata “la battaglia dei morti”.

Attila tornò in patria a raccogliere nuove schiere e ben presto marciò verso Roma per giungere alla vittoria finale.

L’esercito romano non esisteva più: fu comandato ad Ezio di riformare un nuovo esercito, ma con chi? Infatti Ezio rifiutò l’incarico.

Nel momento della estrema disperazione, il vescovo di Roma, Leone il Grande, mise a disposizione la propria vita e si offerse di andare da Attila insieme a due inermi compagni per chiedere la grazia…e la storia si vela di mistero poiché Attila si ritrasse con le sue schiere e tornò in patria.

La leggenda, rappresentata da Raffaello in un affresco del Vaticano, vuole che, all’incontro con Attila, oltre al vescovo Leone si presentassero al suo sguardo interiore una o due figure librate nell’etere e munite di spade:   queste figure dissero ad Attila che anche le loro spade erano di Dio e più alte e possenti della sua e con queste spade avrebbero combattuto a fianco di Leone e avrebbero vinto. Attila riconobbe la verità di queste parole e immediatamente si ritirò.

Gli storici sorridono davanti a questa narrazione, poiché nell’indole crudele e impavida di Attila, coerente lungo tutta la sua vita, non si riscontra alcun tratto di timore o paura. Però non trovano alcuna soluzione razionale per un accadimento così inspiegabile.

Rudolf Steiner ci dice che al momento dell’incontro di importanza mondiale, Attila effettivamente riconobbe che l’individualità di Leone si presentava con i caratteri sovrasensibili del nuovo Iniziato, di fronte al quale le forze atlantiche non potevano più affermarsi. Il compito del re unno si era adempiuto con l’annientamento dell’esercito romano. E poiché, come Iniziato, egli seguiva le norme date dalle potenze dello spirito, il nuovo fatto che ravvisò lo determinò a retrocedere.

Dopo il ritorno in patria la vita di Attila si chiude e con essa il regno degli Unni. Si narra che innumerevoli persone del seguito di Attila lo abbiano accompagnato nel sepolcro acqueo e con ciò fossero “morti da vivi”. La salma fu posta in un triplice feretro d’oro, d’argento e di ferro. Il Theiss (fiume dell’Ungheria) fu deviato dal suo letto naturale: in un punto fu posta la bara e coloro che vollero (o dovettero) morire col re. Poi l’acqua del fiume fu fatta scorrere nuovamente nel suo letto.

Una bella leggenda racconta che un grande numero di unni, sopravvissuti a tutte le battaglie, sotto la guida di Csaba, figlio minore di Attila, entrarono vivi nel mondo spirituale, attraverso la Via Lattea (denominata ancora ai tempi nostri, in Ungheria come “Via di Csaba”). Questo morire da vivi degli Unni, questo vivente passaggio nell’Invisibile ci indica che essi conservavano ancora qualcosa dell’antica Atlantide: morte come metamorfosi assai più che come trapasso.

La migrazione dei popoli, sostenuta da Attila, indebolì la coltre arimanica, le forze propulsive trovarono la strada e già nel VIII secolo cominciò a splendere la luce del Graal.

6 pensieri su “UN GIOVANOTTO ESEMPLARE

  1. Ah, caro Isidoro, quanto ci manca il nostro Attila, buon’anima!
    quanto al “morire da vivi”, il morire prima di morire senza morire, degli Antichi e Nuovi Misteri, per raggiunger da vivi la Via Lattea, è oggetto di profonda e struggente nostalgia di coloro che si votano alla Concentrazione e alla Meditazione! E se gli Unni erano sempre dinamicamente in movimento, a cavallo per di più, evidentemente non avevano bisogno di alcun “rilassamento” per iniziare quell’ eccezionale stato di coscienza, al contrario di quel simpaticissimo burlone che consiglia di ben rilassarsi prima della pratica interiore! E siccome il destino mi ha condotto a passare un’agitata vita su bus, tramvie e treni, ho imparato da subito – per praticare Concentrazione e Meditazione – a fare a meno di tale rilassamento mentre ero scarrozzato dai “cavalli vapore” del moderno nomadismo. Del resto Massimo Scaligero, in “Yoga, Meditazione, Magia”, scrive parole di fuoco contro quella “american relaxation”, che tutti i moderni sistemi psicosomatici di meditazione d’accatto fortemente consigliano. Anzi, la mia esperienza dice che le condizioni più avverse, condite di rumori, scomodità, fatica corporea e psichica, sono particolarmente propizie all’esercizio interiore, se affrontate con energica volontà. Una personalità di rango spirituale mi raccontava come suo padre (grande amico di Massimo Scaligero) – un “Asceta d’Altra Dottrina”, lo definirebbe il Buddha Shakyamuni – durante la Prima Guerra Mondiale portava avanti esercizi e cammino iniziatico nelle trincee del Carso e del Cadore, che non erano precisamente degli alberghi a cinque stelle. “Ogni volta era uno ‘scatto di reni’, una subitanea ed energica accensione della volontà, ciò che rendeva possibile quotidianamente la pratica interiore”.
    Penso che dovremmo apprendere da quegli Unni, passati da vivi a dimorare sulla Via Lattea, l’Arcano della travolgenza interiore, necessaria ad abbattere ogni giorno la resistenza e l’arroganza di quella vita istintiva, che ci ridurrebbe facilmente a quella “uniformità senza Io”, contro la quale gli intrepidi Unni scatenavano tutta la loro capacità di impeto esteriore.
    Il nostro Maestro ci direbbe: “Meglio Unni che borghesi!”.
    Pensa, Isidoro, che H.W., discepola di Marie Steiner, la quale per me è veramente una “sorella d’armi”, abita in un paesino svizzero alla Etzelstrasse, 7: ossia in Via Attila, e che per Elleni e Romani il 7 era il numero di Athena-Minerva, Dea guerriera della Sapienza! Nomina sunt omina – i nomi sono fatali!

    Hugo, amicissimo di Attila,
    che ritiene che per essere dritti,
    occorre far molta Concentrazione,
    altrimenti siamo tutti fritti.

  2. Caro Hugo, confermo e sottolineo l’elemento di cui parli: anzi, in generale fu per me una specie di scontro continuo con Scaligero: che durò per oltre un anno. Lui sosteneva che occorre “entrare” nella concentrazione con immediatezza, senza alcun “prima” psicosomatico, io che sino a un momento prima seguivo discipline orientali, seppure al minimo sostenevo che trovare le condizioni migliori era un’azione logica, naturale. Magari liberando il naso intasato. Scaligero mi ribatteva che sia simbolicamente sia nel concreto bisognava dare, IN QUALUNQUE CONDIZIONE, la precedenza all’atto interiore del pensare voluto. Lui insisteva tranquillamente, io dovetti, per rispetto e coerenza verso il suo insegnamento, fare e rifare (fortuna che facevo molto), finché il superamento alla grande di ogni difficoltà fisica (con un “surplus” di disperata energia) mi fece capire cosa intendesse.

    Però, vedi, è sempre la stessa storia: sapere in astratto serve poco o niente, fare troppo poco o male è anche peggio: e la moltitudine di pessimi vorrebbero insegnare agli altri disgraziati.
    Buona regola è fare come gli Unni: essere sempre in movimento e scegliere le prove più difficili: se uno si sente soddisfatto, è perduto!

  3. Sembra che nuovi Unni si stiano risvegliando nel mondo islamico! Si dichiarano amanti della morte e pertanto vincenti su quelli che amano la vita.
    Il mondo occidentale, ammansito dal benessere e da un Cristianesimo completamente frainteso, rimbecillito dal distacco dallo Spirito, beotamente dormiente, soccomberà nuovamente alla furia che viene dall’est. Forse per qualcuno sarà un bene, perché solo nel fragore di nuove battaglie, troverà il terreno adatto al “risveglio”…..
    Se l’uomo non è in grado di trovare le soluzioni ai suoi problemi “pensando”, allora dovrà necessariamente sbattere contro la “percezione”…e saranno dolori!

  4. Cara Marzia: i genitori del giornalista decapitato sono due ma valgono più di tutti gli spostati mondiali che corrono al richiamo di sangue dell’Isis.
    La funzione del Male è sovente quella di sollecitare il Bene: ho fiducia!

    (Raccontava John Boorman, regista di vari film come ad esempio Excalibur, che i più bei anni della vita sociale furono per lui quelli vissuti a Londra, sotto bombardamento: lì vide emergere le qualità migliori dei suoi connazionali)

  5. …inoltre non lasciarti traviare da chi so io per l’immagine da Bmovie messa in testa: Attila era un bell’uomo, dal nobile tratto. Vuoi confrontarlo con Abu Bakr Al Baghdadi (e gli Unni coi Salafiti)?

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