IL FILO DEL RASOIO

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उत्तिष्ठत जाग्रत
प्राप्य वरान्निबोधत ।
क्षुरस्य धारा निशिता दुरत्यया
दुर्गं पथस्तत्कवयो वदन्ति ॥ कठ उपनिषद् ॥

Sorgete! Svegliatevi! Avendo accostato i Maestri, imparate! Poiché quel Sentiero è come il filo del rasoio, difficile da percorrere, arduo da superare! Così dice il Sapiente.  Katha-Upanishad, 1.3.14

 

Domanda: è pericoloso il Sentiero spirituale? Assolutamente sì! Se non ci si vuole illudere con narcotiche favole consolatrici e se si vuole, invece, guardare spartanamente, stoicamente, romanamente in faccia la realtà, si scorge bene come il Sentiero spirituale sia pericoloso e quanto lo sia.

Ma perché il Sentiero dell’Iniziazione ad una più alta vita spirituale è pericoloso? È pericoloso perché cercare l’Iniziazione è cercare la morte, è cercare di morire: morire prima di morire, senza morire. Ossia, è volere provocare volontariamente e sperimentare attivamente durante la vita – dunque prima di morire – quelle esperienze – normalmente devastanti – che l’uomo comune (che non è l’uomo normale, ossia non è l’uomo interiore, l’uomo a norma dell’autentico essere spirituale) subisce involontariamente, e di conseguenza passivamente, all’irrompere della morte la quale dissolve il composto umano, e dissolve pure l’apparente consistenza di quello illusorio scenario esteriore, che lo stordito essere umano, in quella sua consunzione ch’egli scambia per vivere, ritiene essere obbiettivo e autoesistente e che è l’oggetto del suo inesausto bramare.

La differenza tra la morte iniziatica e la morte naturale o biologica è che la morte biologica, venendo subita passivamente, oltre che devastante non è reversibile, non avendo normalmente colui che la sperimenta alcuna possibilità di dominio su di essa, mentre la morte iniziatica, essendo stata volontariamente cercata e attivamente causata, è reversibile perché l’essere umano domina ciò che lucidamente conosce e che attivamente provoca. E, circa la morte iniziatica, o mors mystica, o mors philosophorum, sono ammonitrici le parole di Platone nel XIII cap. del suo Fedone:

«Inoltre io non credo che siano stati uomini dappoco quelli che istituirono i Misteri i quali, sotto il velo dell’enigma, ci hanno pur detto, fin dai tempi più remoti, che chi giungerà nell’oltretomba, come un profano, senza esserne iniziato, giacerà immerso nel fango, mentre chi vi giungerà purificato e consapevole, abiterà con gli dei. Perché, vedi, come dicono gli interpreti dei Misteri, ‹molti portano il tirso ma pochi sono i veri iniziati›. E solo questi ultimi, a mio avviso, son quelli che si son dedicati nel vero senso della parola, alla filosofia. E per essere anch’io dei loro, nulla ho trascurato nella mia vita ma anzi, per quanto ho potuto, vi ho messo tutto lo zelo e, se ho agito rettamente, se ho ottenuto qualche risultato, lo sapremo quando, a dio piacendo, saremo di là, come io credo».

Come preparazione a un sì tanto speciale morire, poco prima, nel XII cap., Platone, per bocca di Socrate, che si apprestava a compiere l’ultimo passo al quale lo condannavano i giudici ateniesi, indica come assolutamente necessaria una “purificazione”, κάθαρσις – kàtharsis, che è un’operazione tutt’altro che semplice e indolore:

«E, allora, amico mio,» proseguì Socrate, «se questa è la verità, quale grande speranza per chi giunga dove ora io sto per andare perché, più che in qualsiasi altro luogo, potrà ottenere pienamente quello per cui tanto tribolammo quaggiù, nella nostra vita trascorsa. E, quindi, questo viaggio che oggi mi si comanda, non è senza una lusinghiera speranza che si compie, per me, come per chiunque altro abbia disposto l’anima sua alla purezza[…] E questa purificazione non la si raggiunge, come dice anche l’antica tradizione, separando, più che sia possibile, l’anima dal corpo, esercitandola a restarne staccata, tutta in sé raccolta, nella presente come nella vita futura, libera dal corpo che è il suo carcere? […] E non è questa la morte, questo liberarsi, questo separarsi dell’anima dal corpo? […] E questa separazione, come abbiamo detto, dell’anima dal corpo, la desiderano soltanto e soprattutto quelli che si occupano rettamente di filosofia perché questo è, appunto, l’impegno dei filosofi: separare e riscattare l’anima dal corpo. Non è così ?».

È noto come questo accostamento, polarmente simmetrico, tra l’esperienza della Iniziazione e quella della morte, sia oggetto di frammento mirabile, e illuminante, di Plutarco, frammento riportato nel florilegio di Stobeo, che trascriviamo dalla traduzione che ne fece Arturo Reghini, l’ermetico e pitagorico amico di gioventù di Massimo Scaligero:

«E veniamo alle importanti testimonianze di Plutarco e dello scrittore delle Metamorfosi, attribuite ad Apuleio. Riportiamo qui per intero il passo di Plutarco: «L’anima al momento della morte prova la stessa impressione (πάσχει πάθος – pàschei pàthos) di quelli che sono iniziati ai grandi misteri (οἱ τελεταῖς μεγάλαις κατοργιαζόμενοι – hoi teletàis megàlais katorghiazòmenoi). La parola e la cosa si rassomigliano; si dice τελευτᾶν [teleutàn]  e τελεῖσθαι [telèisthai]. Sono dapprima delle corse a caso, dei giri penosi, un camminar inquietante e senza fine attraverso le tenebre. Poi prima della fine (προ του τέλους – pro tou tèlous – fine, morte, iniziazione) il terrore è al colmo, brividi, fremiti, sudore freddo, spavento. Ma poi una luce maravigliosa si offre agli sguardi, si passa in luoghi puri ed in prati dove le voci e le danze risuonano, delle parole sacre e delle sante apparizioni inspirano un rispetto religioso. Allora l’uomo, da quel momento perfetto (παν-τελης –pan teles – tutto compiuto) ed iniziato (μεμυημένος – memyeménos), divenuto libero (ἐλεύθερος – elèutheros) e passeggiando senza legami, celebra i misteri con una corona sulla testa, vive cogli uomini puri e santi; egli vede sulla terra la folla di quelli che non sono iniziati e purificati schiacciarsi e pigiarsi nel fango e nelle tenebre; e per paura della morte, attardarsi nei mali, non volendo prestar fede alla felicità di laggiù» (Cfr. Stob. Florileg. T. IV, pag. 107 edizione Meineke).

Osserviamo che Plutarco paragona l’impressione che si prova durante l’iniziazione a quella che si prova durante la morte. Per potere instituire questo paragone occorre avere avuto esperienza dell’una e dell’altra, tanto più che Plutarco emette qui un suo giudizio e non riferisce dei sentito dire. E poiché Plutarco era vivo quando scriveva queste righe, conviene dedurre che egli si sentiva in grado, certo per la conoscenza ottenuta coi misteri, di conoscere in che consista la morte e quali siano le impressioni che la coscienza prova, nelle due crisi che egli assimila. Se non si vuole supporre che Plutarco faccia della letteratura, occorre concludere che il semplice spettacolo del dramma mistico non poteva provocare brividi, fremiti, sudore freddo, spavento; eppoi il senso della luce maravigliosa, eppoi la perfezione, la liberazione, la felicità. […]

Notiamo infine come già Plutarco si soffermi a rilevare la mirabile concordanza delle due parole τελευτᾶν [teleutàn] e τελεῖσθαι [telèisthai], morire ed essere iniziato. Simile sotto molti rispetti a questo passo di Plutarco è il famoso passo di Apuleio in cui, dopo avere detto al lettore che egli parlerebbe se gli fosse lecito parlare, ed il lettore apprenderebbe se glifosse lecito udire, così si esprime: «Per tanto odi, ma credile, le cose che sono vere. Mi accostai al limite della morte, e calcata la soglia di Proserpina, viaggiai tratto attraverso tutti gli elementi; a mezzo la notte vidi il sole coruscante di un candido lume; mi accostai di presenza agli Dei inferi e superi e li adorai da vicino. Ecco ti ho riferito le cose che, quantunque tu le abbia udite, pure è necessario che tu le ignori» (Cfr. APUL. – Met. XI 23). È evidente che Apuleio si rende conto dell’effetto sconcertante che debbono fare sul profano le sue rivelazioni; ed infatti l’esperienza personale di Lucio, il protagonista delle Metamorfosi, non può essere intesa che da chi la prova. Altrove egli parlando della iniziazione di Iside (traditio, sarebbe a rigore l’iniziazione per comunicazione) dice che essa si celebra in guisa di una morte volontaria e di una salvezza precaria (Cfr. APUL. – Met. XI, 21: ad instar voluntariae mortis et precariae salutis), e chiama questo: contrarre nozze mortali, perché nelle mani della dea sono poste inferum claustra et salutis tutelam. […]Non basta udire queste cose per apprenderle, dice Apuleio, occorre accostarsi al limite della morte, calcare la soglia di Proserpina; e questa, non è impresa da pigliare a gabbo; è un poco più rischiosa che sfogliare volumi ed eseguire degli scavi. Per quanto Apuleio parli qui dell’iniziazione isiaca che era individuale, e si riferisca ad un evento svoltosi a Ceucrea sull’Egeo nel 2° secolo d. c., mentre Plutarco parla della iniziazione eleusina cui prendeva parte un grande numero di spettatori, il confronto tra i due scrittori può farsi legittimamente perché, secondo quanto dicono Diodoro e lo stesso Plutarco, i misteri egiziani di Iside erano perfettamente corrispondenti a quelli greci di Eleusi; e, come si vede, davano la medesima impressione di morire. Lucio si sente tratto a viaggiare per tutti gli elementi, ed anche egli come Plutarco vede una luce maravigliosa; le sante apparizioni di Plutarco diventano qui gli Dèi inferi e superi».

 

Per quanto tutto ciò non abbia affatto un aspetto consolante, pur tuttavia è quanto di più realistico – e bisogna proprio dirlo: di “salutarmente” realistico – che si possa proporre alla riflessione meditativa dell’audace cercatore spirituale. E perché mai? Perché, a parte il provocare attivamente, dominare e superare la crisi della morte, vi è da affrontare la  κατάβασις, ossia quella katàbasis o discesa agl’Inferi nella quale si incontrano, nel loro aspetto obbiettivo, tutte le emozioni, passioni e bramose pulsioni istintive alle quali, nello stordimento dell’immedesimazione passiva, normalmente durante la vita subìta senza residui, con l’illusorio apparire sensibile l’anima umana – in quella lenta, inesorabile, consunzione che ad essa sembrava essere vita ed era in realtà morte – si era data come in uno stato di ebbrezza, o di mania, di oblio. Ma l’espressione «nel loro aspetto obbiettivo», pur essendo in sé assolutamente giusta, non rende granché giustizia all’esperienza stessa, perché in quel mondo – che per la Sapienza d’Oriente, induista, buddhista e taoista, è esattamente il mondo nel quale ordinariamente si vive, ma che per lo stordito essere umano è coperto da un provvidenziale velo d’illusione, il velo di Mâyâ – emozioni, istinti, brame e passioni, sono esseri distruttivi, esseri astrali o dèmoni, che assalgono l’uomo per asservirlo e divorarne la vitalità spirituale. Questi esseri, la cui azione distruttiva viene passivamente subìta dal profano uomo ordinario, devono essere affrontati e vinti da colui che voglia da vivo sperimentare l’Iniziazione, ossia il morire prima di morire, senza morire.

Quel mondo di arsione, di ardente sete – che il Buddhismo chiama Kâmâdhâtu o “sfera della brama” – è esattamente il mondo nel quale ordinariamente si vive, ossia è quel mondo incessantemente scosso, agitato e arso da quella che il Buddha Shakyamuni chiama appunto tanha, “sete” continuamente alimentante ed alimentata dalla brama, che sospinge come ebbri gli storditi esseri umani. Il Buddha Shakyamuni invita il discepoli a liberarsi di tale sete, ad estinguerla, perché tale ardente sete, una tale brama ardente, è presente nei pensieri, negli stati d’animo, nei moti della volontà. Una tale sete, presente nell’ordinaria attività dei sensi, degrada la purezza delle percezioni a sensazioni animali, per cui – come disse il Sublime ai tre fratelli Kashyapa, che erano brahmana, maghi e sacerdoti del fuoco vedico – «il mondo intero e i sensi sono in fiamme». Anzi si può ben dire che tutto l’essere esteriore e interiore dell’uomo, la sua stessa «personalità» (della quale peraltro egli, stoltamente, va oltremodo orgoglioso), sia intriso, plasmato, costituito da una tale «brama ardente», per cui si può realisticamente affermare che  la vita – quella che gli umani chiamano «vita» – non sia altro che il divampare di un tale fuoco, che consuma l’«esistere» dell’uomo sino all’ultimo suo istante, sino al devastante dramma della morte.

Onde è possibile affermare che se il Sentiero dell’Iniziazione, il Sentiero della Conoscenza e della Liberazione, è pericoloso, la vita che conduce lo stordito uomo ordinario lo è molto di più. Una vita, spesa nella inesorabile, oscura, consunzione psichica e biologica, è una vita cieca: è la vita di esseri ciechi che camminano inconsapevoli sull’orlo di uno spalancato abisso, che in qualsiasi momento li può inghiottire e nel quale possono sfracellarsi. Prendere conoscenza di un tale scenario spirituale indubbiamente spaventa molti, ma una tale «salutare» conoscenza – per quanto per molti sia invero «terrificante» – non è che di per sé aumenti il pericolo, anzi: semmai lo diminuisce. Mentre è indubbiamente molto più pernicioso il rimanere inconsapevoli in una condizione di estremo pericolo: nel nostro caso di un pericolo «mortale». È davvero poco consigliabile camminare allegramente distratti sull’orlo di un tale abisso. Forse a tale proposito è il caso di invitare il cercatore spirituale a ben meditare alcune parole – salutarmente scuotenti – che è possibile leggere nella Scienza Occulta di Rudolf Steiner, parole non molto diverse da quelle che si possono leggere nei testi dell’eterna Sapienza d’Oriente e d’Occidente:

 

«Se un godimento fisico si conforma allo spirito, dura finché durano gli organi fisici, ma se l’io lo ha creato senza porlo al servizio dello spirito, esso rimane dopo la morte come desiderio che invano cerca soddisfazione. Ci facciamo un’idea di ciò che si prova in quelle condizioni, raffigurandoci qualcuno che soffra di sete ardente in una regione in cui per lungo e per largo non sia possibile trovare una stilla d’acqua. Così succede all’io dopo la morte, in quanto nutre in sé desideri non ancora spenti per i piaceri del mondo esteriore, e non possiede più gli organi atti a soddisfarli. Naturalmente quell’ardentissima sete, presa a paragone per lo stato dell’io dopo la morte, dobbiamo immaginarla intensificata a dismisura, e rappresentarcela estesa a tutti i diversi desideri ancora esistenti per i quali manca ogni possibilità di appagamento. Il passo successivo dell’io consiste nel liberarsi dal legame di attrazione con il mondo esteriore. L’io deve operare in sé a questo riguardo una purificazione, una liberazione. Devono essere espulsi da lui tutti i desideri creati nel corpo che non hanno diritto di cittadinanza nel mondo spirituale».

 

Questo rende comprensibile perché negli Ordini ermetici e nelle Fratellanze iniziatiche di secoli addietro l’indispensabile «purificazione», la kàtharsis appunto, venisse apertamente chiamata «morire al secolo», «morire al mondo», e perché nei suddetti antichi Ordini e Fratellanze usassero affermare che mentre «gli uomini comuni lavano con l’acqua e bruciano col fuoco, noi bruciamo con l’acqua e laviamo fuoco». Questo perché per l’Iniziato l’abbeverarsi con la salmastra «acqua» della brama è «bruciare» e aumentare la «sete», non estinguerla, mentre ardere col «fuoco» della Conoscenza è «lavare», «purificarsi». Sempre nella Scienza Occulta, poco oltre, leggiamo:

 

«Come un oggetto viene afferrato e arso dal fuoco, così il mondo dei desideri ora descritto viene dissolto e distrutto dopo la morte. Ci si trova allora di fronte a un mondo che la conoscenza soprasensibile può indicare col nome di “fuoco spirituale divoratore”. Questo “fuoco” divora i desideri dei sensi che non sono espressione dello spirito. Le descrizioni che la conoscenza soprasensibile dà a questo riguardo possono sembrare terribili e sconfortanti. Può apparire invero spaventevole che una speranza, la cui realizzazione richiede organi sensori, dopo la morte debba trasformarsi in disperazione, e che un desiderio che può appagare soltanto il mondo fisico debba diventare una privazione torturante. Ci si può attenere a questa opinione soltanto finché non ci si renda ben conto che tutti i desideri e le aspirazioni afferrati dal “fuoco divoratore” dopo la morte, in senso superiore non rappresentano forze benefiche alla vita, bensì forze distruttive. A mezzo di queste forze l’io si lega al mondo dei sensi molto di più di quanto non sia necessario a raggiungere il giusto scopo di trarre da detto mondo tutto quanto può riuscirgli giovevole. […]  Nondimeno l’io di tanto si allontana dalla vera realtà spirituale del mondo, per quanto nel mondo sensibile tende  a desideri da cui lo spirito è assente. Mentre il piacere sensorio, come espressione dello spirito, significa elevazione, evoluzione dell’io, il piacere che invece non è espressione dello spirito significa decadenza e immiserimento. Se si appaga un desiderio di tal natura nel mondo sensibile,il suo effetto nocivo sull’io tuttavia permane; soltanto, prima della morte, esso non è percettibile all’io. Nella vita, perciò, la soddisfazione di tali desideri può creare nuovi desideri simili, e l’uomo non si accorge affatto che si va avviluppando in un “fuoco divoratore”. Dopo la morte diventa visibile semplicemente ciò che già durante la vita lo circondava, e nel rendersi visibile si palesa al tempo stesso nelle sue conseguenze efficaci e benefiche».

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Ed è bene sottolineare come queste stesse esperienze drammatiche vengano passivamente subìte dall’essere umano, che giunge alla catastrofe della morte inconsapevole, disarmato, e terrorizzato da quel che sperimenta ma che non conosce né tampoco comprende, e come, invece, le medesime esperienze vengano attivamente suscitate e liberamente affrontate da colui che, nel dramma dell’Iniziazione, sperimenta morte e rinascita, con esito diametralmente opposto rispetto alla vita e al destino nel post-mortem della coscienza e dell’essere dell’Io del non iniziato.

 

«Dopo la purificazione incomincia per l’io uno stato di coscienza del tutto nuovo. Mentre prima della morte le percezioni esteriori dovevano affluire verso di lui, perché la luce della coscienza le potesse illuminare, ora invece dall’interiorità scaturisce per così dire un mondo che giunge a coscienza. l’io vive in questo mondo anche nel periodo fra nascita e morte, ma esso gli si presenta rivestito dalle manifestazioni dei sensi. Soltanto quando l’io, abbandonate le percezioni sensorie, percepisce se stesso nella sua “interiorità più sacra”, gli si palesa nella sua forma diretta ciò che di solito gli appariva solo attraverso il velo dei sensi. Come la percezione dell’io si svolge prima della morte nell’interiorità, così dall’interiorità il mondo spirituale li si manifesta nella sua pienezza dopo la morte e la purificazione. Tale rivelazione avviene di fatto subito dopo l’abbandono del corpo eterico; ma i desideri ancora rivolti al mondo esteriore formano come una nube oscura che ne ottenebra la vista. È come se a un mondo beato di esperienze spirituali si frammischiassero nere ombre demoniache, sorte dai desideri che vanno “consumandosi nel fuoco”. Invero quei desideri non sono semplicemente ombre, ma entità reali; questo risulta evidente quando l’io liberatosi dagli organi fisici, può percepire ciò che è di natura spirituale. Questi esseri appaiono come contraffazioni e caricature di quello che si era prima conosciuto mediante la percezione sensoria. l’osservazione soprasensibile scorge l’ambiente del fuoco purificatore popolato da esseri, la cui vista può riuscire orrida e dolorosa all’occhio spirituale; esseri per i quali il piacere sembra consistere nella distruzione, e le cui passioni sono improntate a male così grande che quello del mondo dei sensi è un nulla a confronto. I desideri del genere di quelli descritti, che l’uomo porta seco in quel mondo, sono considerati da quegli esseri come un nutrimento per mezzo del quale la loro potenza acquista sempre nuova  forza e vigore. […] Ora, gli esseri del fuoco purificatore esistono bensì per si la coscienza soprasensibile e non per quella sensibile; la loro azione però risulta evidente e consiste nella distruzione dell’Io, se questo dà loro nutrimento. E quest’azione diventa chiaramente visibile, quando un piacere consentito giunge fino all’eccesso e alla dissolutezza. Perché ciò che è percettibile ai sensi dovrebbe attrarre l’Io soltanto, in quanto il piacere tragga origine dalla sua natura stessa.[…] Ma se l’Io cerca soddisfazioni dirette non alla conservazione ed allo sviluppo della sua natura, ma alla sua distruzione, tale tendenza non può provenire né dall’azione dei suoi tre corpi, né dalla propria sua natura, ma soltanto da quella di entità, la cui forma reale rimane celata ai sensi, ma che possono appunto avvicinarsi nascostamente alla natura superiore dell’Io, ed eccitare in essa desideri, non dipendenti dai sensi, ma appagabili solo da organi sensori. Esistono appunto degli esseri che si nutrono di passioni e desideri di natura peggiore di quelli degli animali, perché non si esplicano nel campo dei sensi, ma si attaccano all’elemento spirituale, abbassandolo al livello di quello dei sensi. Le forme di tali esseri appaiono perciò orribili allo sguardo spirituale, più brutte e spaventevoli assai delle forme degli animali più feroci, nei quali s’incarnano soltanto passioni radicate nel sensi ; e le forze distruttrici di questi esseri superano di molto qualsiasi violenza dei mondo animale percettibile. La conoscenza soprasensibile si trova perciò costretta a dirigere lo sguardo degli uomini verso un mondo di entità inferiori, sotto molti riguardi, è al disotto del mondo animale visibile degli animali distruttori.

Quando l’uomo dopo la morte ha attraversato il mondo appunto descritto, si trova di fronte ad un mondo colmo di spiritualità e che crea in lui soltanto desideri appagabili a mezzo di ciò che è spirituale».

 

Questo è il mondo che a tutta prima, inevitabilmente, si presenta all’uomo: o nell’esperienza della morte o durante l’Iniziazione. E le entità malvagie ed ostili di tale mondo devono essere conosciute, affrontate e vinte dal candidato all’Iniziazione medesima. E ciò non è una cosa semplice, non è comodo come un giuoco di ruolo, o un divertissement. È una lotta, un combattimento: per la vita o per la morte. Ciò spaventa coloro che si attaccano alla vita apparente. Ma proprio questo li conduce a perdizione:  per paura della morte, rimangono esseri umano-animali, esseri mortali. Tale combattimento non viene risparmiato, perché – piaccia o no all’uomo – la morte incombe: nasciamo con una condanna a morte. Nostra libertà è scegliere di affrontarla e come affrontarla. Oppure – ed è quello che fanno i più – ci si  può illudere di evitarla, vivendo nello stordimento, o edulcorandone la fiacca consapevolezza con le dolcezze sentimentali e le sognanti speranze delle fiabe religiose, con i vari narcotici di un moralismo anch’esso sentimentale, con il surrogato di un intellettualismo dialettico che, se potesse, annegherebbe l’Universo e lo Spirito in un oceano di chiacchiere. Dietro i sentimentalismi e le sognanti speranze, dietro l’intellettualismo dialettico e il moralismo virtuista e “buonista”, vi è una sola cosa: la paura della morte, il terrore di fronte al venir meno dell’illusorio sostegno corporeo, l’angoscia di fronte alla presentita inquietante realtà del post-mortem.

 

Cercare l’Iniziazione è risolversi – sine spe ac metu – ad affrontare da vivi l’evento cruciale della morte, diventando – come ricorda Massimo Scaligero – “lottatori contro la morte”. È necessario donarsi alla Via con sincerità totale, con abnegazione assoluta, calpestando quegli impostori che sono speranza e timore, rinunciando senza misericordia alcuna a tutte le illusioni consolatorie, a tutti i surrogati pseudo religiosi e pseudo esoterici: rinunciare ad ingannare se stessi con favole “religiose” e atteggiamenti moralistici. Perché quello che è richiesto in tale lotta contro la morte è molto, anzi moltissimo di più che non l’esser “buoni” o conformi ad un mero modello “morale” di comportamento: sono richiesti energia e slancio eroici di volersi portare oltre la condizione umano-animale, oltre la condizione della labilità mortale umana. Molte volte, nella nostra giovinezza, udimmo Massimo Scaligero declamare con energia i versi del Buddha Shakyamuni nell’Anguttara-Nikâyo:

 

«Oggi è da dare battaglia,
forse domani non saremo più:
per noi non vi sia tregua
con la grande Armata della Morte!»

 

Non è che la paura, della quale parlavamo più sopra, non si annidi nel trepidante cuore e nella tremula anima – quella che l’imperatore Adriano chiamava anima vagula blandula – degli ardenti (molto poco…) spiritualisti, degl’intrepidi (ancor meno…) esoteristi, tant’è che vi è di continuo il patetico tentativo di “ammorbidire” la radicalità della Via spirituale, attenuandone la dirompenza, smorzandone la virulenza, riducendola al fiacco livello “umano-troppo umano”, che permette all’ego un comodo rimanere bestiale e mortale, sia pure con tutti i crismi della “cultura”, le speranze della “religione”, le consolazioni della “morale”. Per cui l’audacia della Via del Pensiero, la Via solare dello Spirito, viene sovente tacciata di “unilateralità”, di essere o di poter facilmente diventare una “via del sublime egoismo”, tentando persino di far dire a Massimo Scaligero il contrario esatto di quel che disse e scrisse, e cercando di introdurre surrettiziamente, come “via sostitutiva”, una  lunare “via dell’anima”, la quale sarebbe più “adatta” (così dicono…) a individualità per le quali una completa austerità non sarebbe sopportabile. Come se anch’esse non dovessero poi affrontare un giorno – lo dovranno: è l’unica certezza – il dramma della morte. Forse è il caso di ricordare le parole del nostro Dante:

 

« ‘Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ‘l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’.

Queste parole di colore oscuro
vid’ ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».

Ed elli a me, come persona accorta:
“Qui si convien lasciare ogni sospetto;
ogni viltà convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben dell’intelletto”».
Inf., III, 13 e segg.

 

E quelle dell’Iniziato Virgilio:

 

Felix, qui potuit rerum cognoscere causas
Atque metus omnes et inesorabile fatum
Subjecit pedibus, strepitumque Acherontis avari!

 

Felice, colui che delle cose
poté conoscer le cause,
e tutti i timori e l’inesorabile fato
calpestò coi piedi, e lo strepito
dell’avaro Acheronte!

 

Cfr. Verg. Georg. II, 490-492.

 

 

Come ebbe modo di affermare Marie Steiner-von Sivers, fedele compagna e collaboratrice di Rudolf Steiner, la quale fu oggetto delle medesime calunniose accuse, che vennero e vengono rivolte a Massimo Scaligero e a coloro che con tutto se stessi si sforzano di essere fedeli alla Via da lui indicata: «La rovina delle Comunità spirituale sono il sentimentalismo e il falso misticismo. Da essi nascono l’ambizione, la vanità, l’insincerità, l’arrivismo, la menzogna».

 

Questa è una Via di Sapienza e d’Amore che richiede a colui che, risoluto, la vuole percorrere: coraggio, coraggio, coraggio e Intelletto d’Amore.

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19 pensieri su “IL FILO DEL RASOIO

  1. In effetti vi sono cose che non vanno sottomesse alle categorie del piacere e dispiacere. Solo la tremenda testardaggine contemporanea ostenta traduzioni riduttive nei confronti delle Vie allo Spirito. Gli accomodamenti personali potrebbero essere “comprensibili” in un primo e confuso inizio, anzi in un pre-inizio. Divenendo poi ingiustificabili persino al rigore logico. Nonostante possa essere compresa e commiserata la debolezza e la fragilità che costantemente assedia l’umana vita.

    • Isidoro, il fatto è che molti – quasi tutti – vogliono andare in paradiso in carrozza: con l’aria condizionata, con i-pod, i-pad, tablet, l’ultimissima versione dell’i-phone e frigo-bar. Lottare contro l’accidia dell’anima, avida di torpida inerzia, non è cosa gradita all’ego, che mobilita ogni argomentazione dialettica, ogni forma di agitazione dell’emotività, ogni scatenamento dell’istintività, pur di non dover morire. E’ la comodità interiore un’altra turpitudine dell’anima che si è fatta psiche egoica, contro la quale ebbe parole di fuoco Marie Steiner-von Sivers.

  2. Buon giorno,
    a commento di quanto letto e per un senso di corretezzan nei confronti del vero debbo comunque ricordare come Scaligero ammonisse contro le unilateralità e come ci ricordasse il pericolo insito nel fatto di voler “picconare” con troppa energia il tessuto psichico-biologico col rischio di farsi spazzar via dall'”acqua a pressione” evocata con eccessiva smania.
    Per questo esistono, ammoniva, i mezzi per equilibrare la vita dell’anima, vale a dire la coltivazione di positività,equanimità, spregiudicatezza come “basso continuo” a fronte dell’atto volitivo della concentrazione che in sè è “puntiforme”(si fa e poi si ritorna all’ordinario circuito “percezione-sensazione-rappresentazione”.
    Ora non so se rammentare questo offenda qualcuno o se rientri nelle casistiche negative indicate in modo vibrante ed immaginoso nell’articolo, ma tanto dovevo per la correttezza del ricordo di un Maestro che i piu’, fra utenti e visitatori di Eco, non hanno conosciuto personalmente. (Tutti sappiamo che possiamo fare bellissime concentrazioni, ma se poi sfanculiamo rabbiosamente l’autista della macchina davanti che gira senza metter la freccia, il frutto dell’esercizio è bello che svanito….)

  3. I did drive no car, but I drink milk very often. So I can be as a child, as a babe, and I’m gaining the Kingdom of the Heaven. I never separate myself from my nursing bottle, my “biberon”!
    Hugo senza sugo ma col biberon.

  4. Sentiteli: battibeccano come i beduini dell’Arizona (appunto: “terra di sogni e di chimere”).

    E un po’ di papà Dante? Non sia mai! Dialetti barbari sì! 🙁

    • O Isi d’oro, d’incenso e di birra, io non sono un beduino dell’Arizona, semmai sono un predone delle sconfinate steppe (non della stoppa) asiatiche, e poi non ho il becco (neppure il becco d’un quattrino), quindi come potrei battibeccare. In effetti, più che col becco, preferirei battere con la 木剣 bokken, spada lignea, molto usata nell’合気道 Aikidō, o la 竹刀 shinai usata nel 剣道 Kendō, nobilissime Arti Marziali del 大日本帝國 Dai Nippon Teikoku, largamente ispirate dallo 禪 Zen. Del resto, secondo la tradizione, lo stesso Bodhidharma, fondatore del Chan nel Celeste Impero del 中國 Chung-Kuo, ad avere altresì creato nel monastero di 少林寺 Shaolin-Tsu la pratica del 功夫 Kung-fu.
      Nella lingua di Dante, quanto sopra scritto nella barbara lingua della terra di Albione, tradotto da un abile dragomanno etrusco, così suona: “La Via de ll’Iniziazione, la Via in su lla quale e dèe procede i’ ddiscepolo de ll’Iniziazione, la un ci ha punto latte pe’ poppanti. Eppòi io un guido miha la macchina, però e mi garba di morto i’ llatte, che mmi béo di morto spesso. Così e rimang’un bimbetto e mmi guadagn’i’ Rregno de’ Cèli. Un mi separo mai da i’ mmi’ biberònne, e qquando e ci ho bbisogno d’ispirazione e mi faccio ‘na beutìna! Ll’etrusco e unn’è un dialettaccio barbaro, home quelli che bbocian’in Arizzona! Ovvìa!

  5. ma si,accontentiamo l’italostrogoto, una chiusa nell’idioma di Dante (inteso Dante Sciuommariello guardamacchine a Via Caracciolo) ci puo’ stare “ognun’ sape ‘ìccose soie…”

    • Isidoro, hai dimenticato il meglio, e nella Pampa sconfinata di là dall’Atlantico si perdono il bello e non capiscono:
      Laggiù nell’Arizona, terra di sogni e di chimere, una chitarra suona, cantano mille capinere!
      Hugo en sauce tartare.

  6. Hi veeraji, la difformità di opinioni e di punti di vista è lecita in ogni “umano loco”, se poi questo porti o meno con sè una certa quantità di “avversione” non è semplice da decifrare, specie sul web.
    Ma anche questo fa parte dell'”human condition” ( se eravamo angelicamente perfetti…sai che noia, altro che blog!)

    • Hola Mittel,
      ragassi, (fò per dire…) se mi dite questo mi ritiro in buon ordine, niente da dire e niente da obbiettare, claro…era solo una sensazione, e sappiamo come le sensazioni possano ingannare,specie sul web e sopratutto dall’anticamera della fin del mondo…
      adesso comunque, se la luminosa sapienza del saggio Isidoro e dell’Hugo in salsa tartara è pari alla conoscenza delle lingue…
      stiamo freschi…se ne parla alla prossima vita…:-)

        • E’ quella che si chiama una sana baraonda, una sarabanda, una chiassosa disquisizione metà-fisica e metà-spirituale per disincantare un po’ il velo di Maya, che ci fa sembrare un po’ seriosi!
          Quanto a quello che diceva Veeraj, Hugo ne ha da mangiare ancora tanta di polenta e pane duro – naturalmente in “salsa tartara” – prima di arrivare alla “luminosa sapienza”.
          Hugo che è rimasto senza sugo.

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