MASSIMO SCALIGERO – LA CONCENTRAZIONE DEL PENSIERO. L’IO E LA TECNICA CELESTE (di P. Pistoletti)

OLTRE

Massimo Scaligero – La concentrazione del pensiero. L’Io e la tecnica celeste

 

Riportiamo qui le indicazioni per un primo approccio alla Concentrazione del pensiero – quindi il primo paragrafo per intero del libro di Scaligero. E poi, la prima parte del secondo, che contiene, in senso stretto, il metodo [la tecnica]. Non si aggiunge altro, per ora. La prosa dell’autore è piana, estremamente logica, rigorosa, priva di qualsiasi suggestione facile. Insomma il contrario di ogni modalità a cui, nell’ordinario, siamo abituati.

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Da Tecniche della concentrazione interiore, di Massimo Scaligero (Edizioni Mediterranee 1975), pp. 9-12; 13-15

 

I. L’identità sconosciuta

L’uomo conosce e in qualche modo domina il mondo, mediante il pensiero. La contraddizione è che egli non conosce né domina il pensiero. Il pensiero permane un mistero a se stesso. La filosofia, la psicologia, traggono alimento da esso, ma, da quando esistono, non mostrano di aver afferrato il senso del suo movimento, il contenuto ultimo del processo logico, del quale si giovano per le loro strutture dialettiche. Ritengono che il pensiero sia la dialettica, coincida con la dialettica: nasca e finisca come dialettica.

Ai fini del Sapere, l’oggettività esteriore sorge come sistema di valori nella coscienza umana, ma questa ignora di istituire il fondamento di quella e di determinare l’oggettività come concetto, prima della consapevolezza dialettica del concetto medesimo. Logicamente l’uomo sa che cosa è un concetto, ma ignora che cosa esso sia come forza e come nasca e quale il suo potere di compimento nel reale: che è più che il suo apparire dialettico e logico: il potere medesimo della Vita.

Anche se non esistesse il Materialismo, come metafisica del tempo presente, l’attitudine materialista, come incapacità del pensiero a conoscere se medesimo, non potrebbe non essere la misura dell’attuale coscienza: che, mediante il conoscere, decreta reale il mondo esteriore, e tuttavia lo crede esistente fuori del conoscerlo: mentre è il mondo che sorge dalla presenza dell’Io nel percepire e dalla simultanea correlazione con il pensiero.

Una delle prime esperienze del Sovrasensibile dà modo di scoprire che, se l’Io non si estrinsecasse corporeamente, sino a ≪ toccare ≫ il fisico, mediante gli organi dei sensi, non sorgerebbe percezione, né coscienza dell’Io: la percezione si presenterebbe come nell’animale, secondo reazione senziente impersonale, trascendente, propria a un Io di gruppo, non secondo reazione di un Io individuale, immanente. L’individuale, come presenza dell’Io nel percepire, è il segreto del pensiero, ma parimenti del superamento della natura umano-animale.

Il mondo fisico sta dinanzi all’osservatore, come una massiccia realtà: una realtà che invero appare preesistente all’osservazione, alla ricerca, a colui stesso che la contempla. Appare potente come e s s e r e, ma di una potenza che in realtà gli è conferita dall’intima essenza della coscienza, dove il pensiero è forza di correlazione e, come tale, uno con l’essenza del mondo. ≪ L’essere è ≫, è l’assenso del pensiero alienato, che simultaneamente assume e lascia dominante quella realtà: simbolo di un dominio non posseduto, anzi perduto, dell’Io.

Certo, egli non può attraversare un muro o non poggiare sulla terra per camminare: tuttavia, tale preesistenza materiale e la sua massiccia alterità, sono la correlazione dovuta al fatto che egli è inserito in una corporeità non dominata dal pensiero originario: corporeità costituita della stessa sostanza della massiccia alterità, suscitante il concetto della correlazione: ma il concetto alienato. La Materia invero nasce come realtà obiettiva, in conseguenza di una alienazione dello Spirito: segretamente però dominata dallo Spirito. Tali dominio e alienazione coesistono parimenti nel mentale umano. Se nel pensiero fosse in atto la forza originaria, il corpo non costituirebbe alterità al pensiero: sarebbe sua manifestazione. L’ i d e n t i t à, che si attua nel momento originario del pensiero, si realizzerebbe, con il suo illimitato potere, a ogni grado della coscienza, cioè a ogni grado della ≪ manifestazione ≫.

Il concetto alienato al proprio contenuto originario, epperò smarrente l’identità superatrice della dualità, non può non avere come opposto a sé il proprio supporto corporeo, simbolo dell’alienazione, e tuttavia necessario all’iniziale superamento dell’alienazione: non può concepire l’attraversare il muro con tale essere corporeo o il non poggiare sulla terra per incedere in essa: può imaginarlo, ma come un irreale. E tuttavia in questo imaginare e l’embrionale inizio del superamento della dualità. La correlazione con la massiccia realtà del mondo, muterebbe, se il concetto della correlazione cessasse di essere alienato: l’osservatore non potrebbe attraversare con il corpo la materia fisica, il muro, o la roccia, ma ne intuirebbe la possibilità, in relazione a una restituibile potenza originaria del Pensiero. La correlazione attuale, come concetto, non gli viene imposta dal mondo, ma si svolge soltanto in lui: non gli giunge dall’esterno, movendo a lui dall’essere, ma muove da lui. L’essere che gli appare, è già la correlazione in atto.

Tutto lo sforzo dell’antico Yoga consisteva nell’afferrare come forza sopramentale la correlazione. Il moderno uomo razionale l’ha immanente ma non cosciente nell’esperienza matematica del mondo fisico. La correlazione si svolge in lui, secondo un’edificazione interiore del mondo, improntata ai limiti delle ≪ leggi di natura ≫, che non sono la natura, ma appunto la correlazione del pensiero alienato con il mondo. I limiti appaiono all’esterno, ma appartengono al pensiero correlato al percepire: appartengono a un rapporto di lui con il pensiero estraniato al proprio momento intuitivo. Momento originario in cui si attua una identità con l’essere, di cui l’indagatore moderno, malgrado il suo empirismo, non mostra di percepire l’esistenza. E l’identità per la quale non potrebbe esistere alterità.

La conquista cosciente di questa identità e il senso ultimo dell’esperienza terrestre dell’uomo, in quanto, realizzata la coscienza della terrestrità, può cessare la direzione della ≪ caduta ≫, aver inizio la riascesa. L’antico Yoga ha preparato occultamente questa possibilità: che può essere realizzata dall’uomo pervenuto allo stadio della completa immedesimazione nel fisico, ossia dall’uomo moderno: la cui autocoscienza si desta là dove l’identità dell’Io con il sensibile è compiuta. In questa identità, da cui sorgono il percepire e il pensiero, si esprime l’Io: da essa simultaneamente nasce l‘ego, la forza riflessa dell’Io avversa allo Spirito. La medesima identità e simultaneamente l’atto profondo, organico, dell’Io mediante la corporeità, e la forza dell’ego ignara della propria radice metafisica.

L’asceta moderno deve andare alla radice di questa identità, se vuole ritrovare l’Io: essere l’Io di cui di continuo pronuncia il nome.

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II. La concentrazione

Delle tre facoltà, pensare, sentire, volere, che l’uomo moderno ha unicamente riflesse dal fisico, una sola può essere da lui ripercorsa a ritroso sino alla radice metafisica: il pensare. Il sentire e il volere, ripercorsi, lo riportano comunque a una radice fisica, non perché la loro essenza non sia metafisica, ma perché questa viene estromessa dal loro risonare nell’anima secondo il vinco-lamento della coscienza pensante alla corporeità fisica. Il vincolamento dell’anima alla cerebralità, epperò alla corporeità fisica, riguarda il pensiero, non il sentimento né la volontà, che semplicemente subiscono le conseguenze di tale necessità del pensiero: la ≪ caduta ≫ del pensiero nella cerebralità, necessaria alla formazione della coscienza individuale e al processo inferiore della libertà. Il pensiero può ripercorrere il proprio processo: con ciò attua il proprio autentico movimento, il m o v i m e n t o  p u r o, indipendente dalla cerebralità: restituisce al sentire e al volere le rispettive legittime connessioni metafisiche. Nella sfera sopramentale, pensare sentire volere costituiscono una unità, normalmente smarrita nella sfera mentale.

Mediante la conversione del pensiero, tale unità viene restituita. Il pensiero riacquisisce il potere dell’automovimento, in quanto venga concentrato su un tema semplice, facilmente dominabile. Non è il tema che importa, bensì il pensiero impegnato in esso: che e sempre l’identico pensiero, sia che pensi la sedia, sia che pensi l’Apocalisse. Inizialmente il tema deve essere un oggetto costruito dall’uomo, o un contenuto matematico, in quanto l’impersonale pensiero che ne e alla base, rivissuto, ha il potere di liberare il principio cosciente dalla psiche soggettiva, legata alla corporeità: dà la garanzia di non deviare nell’inconscio, o nel medianico, o nel mistico. Questo pensiero è il concetto, indipendente dall’oggetto medesimo. Il concetto, ricostituito, diviene, a conclusione dell’esercizio, oggetto di contemplazione.

I. Concentrazione. Il discepolo si concentra su un oggetto, del quale considera la forma, la sostanza, il colore, l’uso, ecc., la serie delle rappresentazioni che ne esauriscono la struttura fisica, sino a che al suo luogo rimanga il contenuto di pensiero. Questa operazione non deve impegnare l’attenzione cosciente del discepolo meno di cinque minuti: al termine di essa, l’oggetto deve essere dinanzi alla coscienza di lui come un simbolo, o un segno, o una sintesi, avente in sé indialetticamente tutto il contenuto di pensiero elaborato.

Questo e l’esercizio tipico della concentrazione, il cui processo, esigendo la cooperazione — sia pure momentanea — dei principi costitutivi dell’uomo, Io, anima, corpo sottile, corpo fisico, secondo gerarchia originaria, e fondamentale per lo sperimentatore moderno. Come esercizio tipico, esso è completo e può da solo, se rigorosamente praticato, condurre al reale equilibrio interiore e in seguito all’esperienza sopranormale.

L’importanza di questo esercizio consiste nella sua semplicità, che consente la massima intensità del pensiero cosciente. Il materiale chiamato alla costruzione di esso — rappresentazioni, ricordi, nozioni, forma discorsiva, ecc. — non è la forza-pensiero, ma ciò di cui questa normalmente si veste per esprimersi, senza mai lasciar afferrare se stessa.

L’esercizio tende a far affiorare nella coscienza questa i n a f f e r r a b i l e forza-pensiero.

Ci si porta del tutto entro l’oggetto, considerandolo in sé, secondo le determinazioni che esso contiene, correlate all’unità che il pensiero già in se possiede e perciò può ricostruire. Colui che crede di compiere un esercizio più aristocratico, pensando un simbolo sacro, o un deva, o un mantram, o un ≪ mistero ≫, non si avvede di non sfuggire alla propria personale natura, in quanto e già vincolato con il sentire subconscio al tema evocato: mentre può rendersi realmente indipendente dalla natura, ove muova con pensieri non imposti da questa, ma dalla impersonale obiettività del tema.

Massimo Scaligero, Tecniche della concentrazione interiore (Edizioni Mediterranee 1975)

foto di Patrizio Yoga su Pixabay

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per gentile concessione de

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