PRIMI APPROCCI AGLI ESERCIZI (di F. Giovi)

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Se i primi approcci agli esercizi fondamentali, alludo principalmente alla concentrazione, sono difficili o molto difficili  e burrascosi, gli ostacoli successivi sono più subdoli e sottili.
Ho già riportato qui in forma integrale la lettere che in data 2 marzo ’72 Massimo  scriveva al nostro gruppetto (e  volentieri la ripropongo altre cento volte):
«…la concentrazione deve essere un’operazione assolutamente semplice, inintellettuale, indialettica (pur servendosi della mediazione delle parole, la più parsimoniosa possibile): è una concentrazione di forza e nient’altro. Ho notato che amici non intellettuali, semplici operai, riescono nella concentrazione perché ne fanno solo una pratica d’intensità di pensiero o di attenzione portata al massimo (e questo è invero tutto), meglio di amici colti, preoccupati di teoriche modalità…
Quando ci si concentra occorre dimenticare tutte le regole e avere una sola direzione, l’oggetto. Prima come rappresentazione del sensibile, poi costruito di pensiero. Occorre servirsi di parole e immagini, altrimenti non si costruisce nulla: certo, quando la sintesi è conseguita, si desiste dal richiamare immagini e parole…».
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Sono righe che valgono ancora per tutti, anche per gli operatori di lungo corso, e le riporto per ricordare la semplicità dell’azione, essendo ogni problematica già un attacco frontale degli Ostacolatori.
Dunque cerchiamo di separare le ‘problematiche’ dalle reali difficoltà che incontriamo poco tempo dopo ogni piccola vittoria.
Qualcuno qui, con Messenger, mi ha espresso una reale difficoltà, parlando dell’automatismo. Come risolverlo? Le indicazioni dei Maestri possono aiutarci e gli aiuti sono tanti, ne cito alcuni: il più radicale è il fermarsi, rivedendo sinteticamente il livello interiore da cui si prendeva l’avvio, chiedendo a se stessi con obiettiva severità se il lavoro interiore già svolto era per noi o per lo Spirito (si scoprono sempre egoismi e brame irriconosciute) Allora inizia un doloroso processo di combustione animica (interiore semplificazione), che ci ferisce ma che va alimentato con desta equanimità. Esso realizza la nera croce della nota meditazione. Poi, un poco arsi, si ricomincia tutto daccapo con semplicità.
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Un accorgimento meno drastico ma tecnicamente più arduo è quello di sparigliare le carte, modificando e rendendo oggettivamente più difficili gli esercizi, come ad esempio per la concentrazione è l’invertire il percorso del costrutto o prolungare il tempo di contemplazione dell’immagine finale (a brevissima scadenza può servire il cambiamento del tema, ma dopo poco ci si accorge che la difficoltà è stata solo sospesa e in breve ricompare). Oppure, se gli esercizi venivano svolti sempre ad occhi chiusi, iniziare a farli ad occhi aperti.
A mio parere vale il metodo meno suggestivo, che è quello di continuare imperterriti e consci, senza drammi, della propria inadeguatezza: continuare sopportando in interiore silenzio l’apparente invalicabilità dei limiti personali, pur tenendo nel cuore una intima, segreta speranza nel potere dell’Io e del Logos. Poiché è una Volontà sovrumana che deve venir estratta dalle profondità.
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«Realizzando una volontà pura sono sulle soglie dell’Iniziazione. Io non esisto perché ora lo voglio, ma perché lo volli in uno stato che trascende quello in cui esisto: la vera potenza della volontà, a cui si può dire che sono estraneo, è quella che si afferma all’origine del mio essere corporeo, sino ad esprimersi attraverso tutti i processi organici rispetto ai quali la mia coscienza è dormiente.
Il compito, in definitiva, è ritrovare all’origine questa volontà, da prima, mediante la ricerca delle energie profonde che sono entro il pensiero: indi innestarsi in essa così da trarla fuori della sfera della brama, così da farla essere in me ciò che essa veramente, divinamente, è.
Allora essa si rivela come la potenza del Logos in me; perché ciò si verifichi, occorre che l’io contingente sia completamente controllato se non ancora risolto» (tratto da una breve “Sintesi iniziatica” scritta da Scaligero, non datata e fatta circolare tra gli amici).
L’operatore non dovrebbe mai cercare di afferrare l’inafferrabile durante l’esercizio. Anzi!
L’attenzione dovrebbe essere completamente rivolta all’oggetto e mai orientata verso l’inconoscibile (per il livello normale della coscienza) da cui i pensieri fluiscono, che non è l’astrale ma, al contrario, è la forza che conduce l’operatore oltre i limiti dell’astrale. V’è una sola attività che, pur svolgendosi nella sfera astrale-eterico-fisica, giunge da fuori di questa: è il Pensiero.
Se gli esercizi venissero fatti dall’astrale (così è quando, durante l’esercizio, si cercassero suggestivi sentieri verso la Sorgente) , il soggetto dell’azione sarebbe Lucifero e non l’Io. L’esercizio, ripetuto e prolungato ci porta nel silenzio. Compito del silenzio mentale è  restituire l’astrale alla pura quiete, attendendo che il Pensare, liberato dai pensieri, divenga esperienza dello Spirito che in noi pensa.
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E’ benefica l’insistenza:  senza temere difficoltà e aridità. Quando, nel fare gli esercizi, verrà avvertita una inusitata, intima gioia sgorgare dal cuore, molto diversa dai sentimenti comuni si sperimenterà anche il senso degli sforzi precedenti e dove essi ci stanno portando: a ciò che da sempre ci appartiene e che fu nostro fino dal tempo che precedette l’Esilio.
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Franco Giovi

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