LA VIA ASSOLUTA

La Via dello Spirito è, e non può essere altro, che la ‘Via Assoluta’. Assoluta perché lo Spirito è l’Assoluto, l’Incondizionato, e come tale è disciolto da tutto ciò che, essendo solo relativo e manifestazione, potrebbe condizionarlo. Ciò che è relativo, ossia la manifestazione, dipende dallo Spirito che la genera, dipende dall’Assoluto, il quale, invece, non dipende affatto da essa. Lo Spirito, l’Assoluto non dipende da niente, se non da se stesso.

Facciamo un esempio, al fin di esser più chiari, per così dire di natura ‘ottico-astronomica’: il Sole è la sorgente della Luce. La Luce ha nel Sole la sua sorgente, perché da essa ‘sorge’, ed essa ha nel Sole la sua ‘scaturigine’ perché solo dal Sole essa, appunto, ‘scaturisce’. Anche la Luna, il bell’Astro della Notte che tanto allieta e commuove le anime delicate e i poeti, ci invia nelle ore notturne la sua pallida luce, ma quella lunare è luce solo ‘riflessa’, ossia essa non sorge originariamente dalla Luna, non scaturisce dalla Luna, non viene generata dalla Luna. La luce lunare, in realtà, è solo – dovremmo dire ‘era’, perché essa è ‘posteriore’ alla originaria scaturigine  – Luce solare oramai solo ‘riflessa’ e non più originariamente ‘sorgiva’. Come tale, essa dipende dalla Luce solare –  in definitiva dal Sole – dalla cui esistenza è ‘condizionata’. Infatti, durante la Neomenia, come la chiamavano gli Elleni, ossia durante il Novilunio, la Luna non c’invia nessuna luce, perché essa non la ‘genera’ affatto, non è l’originaria sorgente di quella bella luce ch’essa ci riflette durante il Plenilunio. Quindi la luce lunare, in quanto manifestazione, dipende ed è generata dal Sole e dalla Luce solare, che è Luce sorgiva, generante e manifestante, e non viceversa.

Lo Spirito, in quanto Assoluto, è – direbbero la platonica Scuola di Chartres e l’aristotelica Scolastica medievali – l’Ens realissimus, l’Essere supremamente reale,  il quale è – per dirla con Benedetto Spinozacausa sui, ossia unica, esclusiva, causa di se stesso, ossia Ente che ha unicamente in se stesso, e non in altro, la causa della propria esistenza. O, per dirla più esattamente, nell’Assoluto, e solo nell’Assoluto, ‘essenza’ ed ‘esistenza’ coincidono. Questo perché – secondo la prima proposizione dell’Ethica more geometrico demonstrata del coraggiosissimo filosofo olandese «per causam sui intelligo id, cujus essentia involvit existentiam, sive id, cujus natura non potest concipi, nisi existens», ovvero, per dirla nella bella lingua del nostro Dante, «per causa di se stesso intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, cioè la cui natura non può essere concepita se non come esistente». Va da sé, che  essendo l’Assoluto un qualcosa ha la causa esclusivamente in se stesso, e non in altro, non può essere limitato da qualcos’altro, anche per la ragione che, a rigor di termini, fuori dello Spirito, dell’Assoluto, nulla veramente è, e non potendo essere limitato da nulla, esso è per sua stessa natura infinito.

Questi possono sembrare pensieri ‘filosofici’, ossia meramente ‘speculativi’, mentre in realtà non lo sono affatto. Essi comportano, come vedremo, conseguenze pratiche di notevole importanza. Conseguenze che il discepolo della Scienza dello Spirito, che abbia la temerarietà di voler realizzare lo Spirito, ossia di voler realizzare l’Iniziazione ad una vita spirituale più alta, farebbe bene a prendere moltissimo sul serio. Il non farlo, sia pure in buona fede, può dare origine a vari equivoci – come purtroppo è molte volte, anzi troppe volte, accaduto – equivoci che possono portare a situazioni contraddittorie, dolorose, e financo al totale fallimento della tentata impresa spirituale. Le conseguenze di una tale incomprensione di questo punto fondamentale, e degli equivoci che ne scaturiscono, sono all’origine – anzi ne sono state per un secolo abbondante, e ne sono tuttora, purtroppo, la causa specifica – della sciagurata crisi del movimento spirituale antroposofico, dello snaturamento totale della Società Antroposofica, del fallimento della missione che a quest’ultima era stata assegnata da Maestro dei Nuovi Tempi, da Rudolf Steiner, nonché delle prove dolorose e drammatiche che ha attraversato, e che tuttora attraversa, quella Comunità Solare, che Massimo Scaligero ha creato, ha impulsato, e alla quale sino alle ultime ore della sua esistenza terrena egli ha donato sacrificalmente tutte le sue forze.  

Ora, la Via dell’Iniziazione, la Via che coraggiosamente – anzi oltremodo temerariamente dal punto di vista ‘relativo’ e ‘condizionato’, che è fatalmente un punto di vista meramente ‘umano’, ‘umanotroppo umano’, in definitiva ‘umano-animale’ – intende percorrere chi voglia realizzare l’Assoluto, è una ‘Via dello Spirito’, e non una ‘via dell’anima’, come abbiamo, invece, visto troppo spesso propugnare da chi come – tanto per ritornare, una volta di più, su una vexata quaestio – l’Innominato si sforza, con varie opportune tattiche, di attuare, tentativo che, del resto, più volte su questo audace blog abbiamo nominato, apertamente denunciato, ed ogni volta rintuzzato, come una insidiosa quanto esiziale forma di ‘trasbordo ideologico inavvertito’. La ‘Via dello Spirito’ è una ‘Via di Conoscenza’, e non la via di un mero infinito e indefinito ‘miglioramento morale’, che non esce, né può mai uscire, in quanto semplicemente tale, dai ferrei limiti di una natura radicalmente dominata dalle Deità ostacolatrici. La ‘Via dello Spirito’ non è una forma di ‘pietismo’ ad uso di quelle che il poeta tedesco Wolfgang Goethe chiamava ‘die schöne Seelen’, ossia le ‘anime belle’, ‘Pietismo’ che nei secoli XVII e XVIII – in epoca ancora gabriellita – pur ebbe la sua ragion d’essere, i suoi momenti luminosi, ed in taluni casi persino il suo esoterismo, ma che oggi – in epoca michaelita – è ormai del tutto superato ed esaurito.  

La ‘Via dello Spirito’ è, necessariamente, una ‘Via del Pensiero’: quella ‘Via del Pensiero Vivente’, che Massimo Scaligero ha riposto, come un filone aureo, al centro della Scienza dello Spirito. La ragione per la quale la ‘Via dello Spirito’ è necessariamente una ‘Via del Pensiero’, la chiarisce lo stesso Rudolf Steiner nella sua Die Philosophie der Freiheit, ossia nella sua La Filosofia della Libertà, là dove nel primo capitolo, Das bewusste menschliche Handeln, L’azione umana cosciente, citando G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften (la di lui classica Enciclopedia delle scienze filosofiche), Vorrede zur 2. Ausgabe. Werke, Bd. 8, Frankfurt 1970, S. 25, così scrive, alle pp. 24-25 dell’edizione tedesca:

«Wenn wir erkennen, was Denken im allgemeinen bedeutet, dann wird es auch leicht sein, klar darüber zu werden, was für eine Rolle das Denken beim menschlichen Handeln spielt. «Das Denken macht die Seele, womit auch das Tier begabt ist, erst zum Geiste», sagt Hegel mit Recht, und deshalb wird das Denken auch dem menschlichen Handeln sein eigentümliches Gepräge geben»,

ossia, come, appunto, possiamo leggere ne La Filosofia della Libertà, Editrice Antroposofica, trad. di Dante Vigevani, Milano, 1966, p. 21:

«Quando sapessimo che cosa significa il pensare in generale, ci sarebbe anche facile comprendere l’ufficio che esso adempie nell’agire dell’uomo. «Il pensare fa sì che l’anima, di cui anche l’animale è dotato, divenga spirito», dice Hegel con ragione, e perciò il pensare darà la sua impronta caratteristica anche nell’agire dell’uomo». 

Eppure, da parte coloro che propongono in varie forme, palesi o occulte, il suddetto esiziale ‘trasbordo ideologico inavvertito’, viene sovente propugnata una ‘via dell’anima’ come unica regolare e tuttora attuale ed efficace per l’uomo di questo tempo, e più o meno sommessamente, talvolta persino apertamente, da costoro viene sottolineato come una ‘Via dello Spirito’, in quanto ‘Via del Pensiero’ possa, invece, essere – a loro dire, naturalmente – insufficiente, e persino sovente pericolosa, e citando da un paio opere di Massimo Scaligero una frase, opportunamente staccata dal contesto, affermano che «la via del pensiero può diventare la via del sublime egoismo». Vi sono stati vari casi – da chi scrive constatati e verificati personalmente – di praticanti alle quali da persona ‘autorevole’, alcuni decenni fa, venne sconsigliata la pratica della Concentrazione: tanto per rammentare un singolo caso, a mo’ di esempio, ad una energica praticante tergestina venne addirittura consigliato di sostituirla col tricot-tricot, col lavorare a maglia, cosa che la praticante, asceta moltissimo impegnata, si guardò bene dall’accogliere e dal seguire. In altri casi, purtroppo, un cotale sciagurato consiglio, o per ingenuità o per inesperienza, venne accolto, paralizzando per sempre lo sviluppo interiore: anche in questo caso ho dinanzi un evento specifico. Ripeto: purtroppo! Sarebbe meglio, molto meglio, che io asinescamente mi sbagliassi, perché in cotal caso io riderei di me stesso, ed il mondo sarebbe migliore, ma purtroppo non è così. Coloro che riportano, strumentalizzandola furbescamente, la suddetta citazione, dimenticano quel che lo stesso Massimo Scaligero scrive in un’opera, da essi indubbiamente poco conosciuta (altrimenti non direbbero e non scriverebbero certe sciocchezze), del tutto incompresa, e ancor meno amata, La logica contro l’uomo. Il mito della scienza e la via del pensiero, Tilopa, Roma, 1967, là dove nel primo capitolo della seconda parte, intitolato La ricerca dell’Io, alle pp. 156-157, così apertamente afferma che:

«L’impulso che amministra il sapere nel mondo attuale opera ormai ovunque a tagliare fuori lo spirito dalla cultura, nonostante che questa si formi grazie a conoscenze prodotte dallo spirito. Peraltro facilmente si scambia per presenza dell’Io nella cultura la tensione individualistica, che si esprime mediante ideologie tendenti ad assicurare il crisma etico-religioso all’indisturbato dominio degli istinti; mentre, per altro verso, si crede che un appello alla fondamentalità dell’Io e alla necessità di un’esperienza cosciente del suo principio, sia una via di sublime egoismo. La realtà è che proprio l’«individualista» di tipo moderno manca di individualità».

La Conoscenza spirituale – quella autentica, non quella sciagurata parodia di essa che circola in tanti ambienti a pretese esoteriche – è ben diversa dalla conoscenza meramente intellettuale, la quale non supera i limiti ferrei dell’anima razionale-affettiva, legata ai sensi corporei, al sistema nervoso, alla mediazione cerebrale. Su questo punto Massimo Scaligero è instancabilmente ritornato innumerevoli volte, mostrando come una tale ‘conoscenza’, pur espressa spesso in termini colti, filologicamente ineccepibili, sia in realtà una conoscenza apparente, una conoscenza fondamentalmente illusoria. E lo stesso Rudolf Steiner, parlando a coloro che erano stati accolti nella Scuola Esoterica, da lui rifondata dopo il Convegno di Natale del 1923, parla con totale chiarezza circa il carattere meramente apparente, e quindi illusorio, dal punto di vista spirituale, della conoscenza profana, di tutta la conoscenza profana, e persino della stessa conoscenza scientifica, che pure egli apprezzava pienamente, quando questa non era quel dilettantismo che, già da allora, sempre di più andava diffondendosi tra le corporazioni universitarie, oggi ovunque universalmente imperanti. Egli, sin dalla prima ‘lezione di Classe’, tenuta a Dornach, il 15 febbraio 1924, parlando delle esperienze che il discepolo dell’Iniziazione deve affrontare allorché giunge alla Soglia del Mondo Spirituale, vigilata da un severo Guardiano, così dice:  

«Ma per tutti coloro che sentono di essere membri di questa Scuola dovrebbe essere del tutto chiaro che quanto non viene raggiunto con questo atteggiamento d’animo [sc., con l’atteggiamento della conoscenza profana, originata dal pensiero riflesso] non è vera conoscenza, ma soltanto parvenza di conoscenza; che in quanto viene in genere considerato scienza – accolta dall’uomo prima di essere cosciente dei moniti del Guardiano della Soglia che conduce alla conoscenza spirituale – che in tutto ciò non vi è che la parvenza del sapere. Non occorre che essa rimanga tale. Noi non disprezziamo l’esteriore parvenza del sapere. Dobbiamo però renderci chiaramente conto che essa esce dallo stadio di apparente sapere solo quando si trasforma attraverso quanto l’uomo può apprendere intorno alla purificazione e alla metamorfosi del suo essere.[…] Chi non giunge a conoscere che fra la dimora nei campi dei sensi, dove dobbiamo vivere nella nostra esistenza terrena fra nascita e morte, e quel che c’è nel mondo spirituale si spalanca una voragine; chi non raggiunge un’adeguata conoscenza di questo fatto non può pervenire a una vera, reale conoscenza. Poiché solo con tale coscienza l’uomo può entrare in una vera, reale conoscenza».

Se mi è consentito, sempre al fine di essere il più chiaro possibile in un campo nel quale, oggi di chiarezza – malgrado tutto quello che Massimo Scaligero limpidamente ha scritto e detto  tra gli appartenenti alla Comunità Solare da lui fondata e instancabilmente impulsata, ve n’è molto poca, fare un esempio, a mo’ di illustrazione, tratto ancora una volta da campo dell’Ottica, accennare alla formazione di una immagine così come viene generata da una superficie catottrica, come viene chiamata in ottica geometrica, o più esattamente – secondo la denominazione usata dal Prof. Vasco Ronchi – nella geometria della radiazione ottica, ossia da uno specchio. Uno specchio piano dà di un oggetto, posto dinanzi ad esso, una immagine ‘riflessa’. Le leggi dell’Ottica definiscono un tale oggetto come ‘oggetto reale’, posto in un ‘reale spazio oggetto’, anteriore rispetto allo specchio, mentre l’immagine riflessa che di esso ne dà lo specchio sarà una ‘immagine virtuale’, situata in uno ‘spazio immagine virtuale’, sito posteriormente rispetto alla superficie dello specchio stesso. Avendo potuto studiare, per oltre cinque decenni, l’Ottica, come scienza della visione, secondo l’insegnamento di essa inaugurato, all’Istituto Nazionale di Ottica di Arcetri, dal Prof. Vasco Ronchi, posso assicurare il candido lettore, che non è sempre facile, in certe condizioni, per molti distinguere l’immagine ‘virtuale’ dall’oggetto ‘reale’, così come, invece, è facilissimo per molti, in certe condizioni, scambiare e sinceramente credere ‘reale’ l’apparente spazio immagine ‘virtuale’ dello specchio riflettente, e ciò che esso contiene. Il capitolo delle cosiddette ‘illusioni ottiche’ è un capitolo di estrema importanza nell’Ottica come scienza della visione, specificamente riguardo a quel fenomeno che viene denominato dal Prof. Ronchi, con una esatta definizione, ‘genesi del mondo apparente’, cui egli dedicherà del resto l’importantissima ed ultima delle sue opere scientifiche.

Ora immaginiamo di vedere nell’apparente spazio immagine virtuale dello specchio piano, opportunamente mascherato, l’immagine ‘riflessa’ di un cibo particolarmente gustoso, e di non essere nelle condizioni di scorgere l’oggetto ‘reale’ del quale lo specchio dà, nel fenomeno della riflessione, una ‘immagine virtuale’. Quella ‘immagine virtuale’, da chi non conosca le leggi dell’Ottica, potrà esser facilmente scambiata per un ‘oggetto reale’, e potrà persino suscitare la brama di voler afferrare e gustare quel cotal seducente cibo. Ma – come direbbe Wolfgang Goethe – i sensi non ingannano mai, semmai inganna il ‘giudizio’, ossia inganna un pensiero inetto, inesperto e incapace: un pensiero che, in realtà, non è reale, concreto, vivo pensiero. Ed è logico che sia così, perché in una condizione di ‘ignoranza’ – di avidyâ direbbero gli indiani, ossia di ‘non visione’, di ‘non retta visione’, contrapposta a vidyâ, la retta visione’, la ‘visione penetrante’ – l’essere umano, vittima del suo debole, distorto, ed offuscato conoscere, col suo incerto, anemico, assottigliato pensare, scambia facilmente per realtà ciò che reale non lo è affatto, e giunge a bramare, talvolta con una forma di sete divorante, ciò che non è reale, e che, per tale ragione, egli non potrà mai veramente cogliere e possedere. E, come insegna il Buddha Shakyamuni, da questa cieca ‘ignoranza’ nascono le sue tre male figlie: la brama, la paura e l’avversione. 

Ora, se la causa di tanto male è la cieca ‘ignoranza’ – la avidyâ, cieca appunto perché il distorto, soggettivo, assottigliato, fiacco e anemico pensare non ‘vede’ – il farmaco della guarigione non può essere altro che la ‘Conoscenza’, la Vidyâ che dona la ‘retta visione’, la ‘Gnosi folgorante’, che scuote e risveglia il pensare, liberandolo dalla sua paralisi, dal suo narcotico sonno, dalla sua debolezza, dalla sua cecità, dalla sua distorta visione, restituendolo alla sua realtà. Ma, a questo punto, occorre chiedersi quale tipo di pensare risorge dalla condizione di tramortimento, di offuscamento, di mortale paralisi. È fondamentale rendersi conto di questo punto cruciale, altrimenti non è affatto possibile comprendere perché il pensiero ‘profano’, anche il più ‘onesto’, ‘intelligente’ e ‘colto’ può dare unicamente una conoscenza ‘apparente’, non una conoscenza ‘reale’

La ragione di ciò sta tutta nella condizione di ‘riflessità’ del pensiero ordinario, del pensiero ‘profano’. Infatti, Massimo Scaligero già nel primo capitolo del suo Trattato del Pensiero Vivente. Una via oltre le filosofie occidentali, oltre lo Yoga, oltre lo Zen, 2° ediz., riveduta e ampliata, Tilopa, Roma, 1979, p. 7, così scrive:

«L’Io che l’uomo dice di essere non può essere l’Io, se non nel pensiero vivente: ancora da lui non conosciuto. Egli conosce solo il pensato, o pensiero riflesso, ma non sa come lo conosce. Deve prima pensare, per conoscere il proprio pensiero: non conosce il pensare». 

Così come la luce lunare, anche la più splendente e bella come quella del Plenilunio, non è luce ‘sorgiva’,  non è luce ‘originaria’, ma solo luce ‘riflessa’ rispetto alla vivente Luce che scaturisce dal Sole; così come l’immagine, che si forma nello ‘spazio immagine’ di uno specchio piano, è ‘virtuale’, in quanto non ‘reale’, perché ‘riflessa’, così anche il pensiero ordinario è mero ‘pensiero riflesso’, perché legato alla percezione sensoria, alla mediazione del sistema nervoso centrale, e soprattutto alla mediazione del cervello, che rispetto all’atto del pensare funziona come un ‘catottro’, ossia come uno ‘specchio riflettente’. Un tale pensiero non è dunque ‘pensiero sorgivo’, non è ‘pensiero reale’ ma solo ‘apparente’, non è ‘pensiero vivente’. E, se non è ‘pensiero vivente’, attualmente, concretamente, ‘vivente’, allora è ‘pensiero morto’, o ‘morente’. Un tale ‘pensiero riflesso’, per quanto possa essere ‘intelligente’, culturalmente ‘valido’, scientificamente ‘esatto’, manca di interna vitalità, manca di reale sostanza, di concretezza, e, per quanto possa essere intellettualmente seducente, fornisce solo una ‘conoscenza apparente’, quindi, dal punto autenticamente spirituale, è ‘irreale’. Il grande Śaṅkarâcârya, l’Ādi Śaṅkarâcârya fondatore nell’India dell’VIII secolo della Scuola dell’Advaita Vedânta, dell’audace ascesi  o sâdhanâ hindù, che vuole superare ogni dualità, definirebbe un tale apparente conoscere mâyâ, ossia una ‘illudente irrealtà’.

Ma se l’ordinario pensiero riflesso, che dà della realtà solo una ‘immagine virtuale’, priva di vivente sostanza reale e di concretezza, è ‘pensiero morto’, ‘pensiero disanimato’, significa, che prima di esser tale, esso necessariamente era ‘pensiero vivente’, così come la riflessa luce lunare, prima di tale riflessione, era necessariamente sorgiva, irradiante, vivente,  Luce solare. Infatti, Massimo Scaligero nel capitolo sesto del Trattato del Pensiero Vivente, pp. 19-20, così scrive:

«Il pensiero pensante, che può far risorgere dall’astrattezza il pensiero riflesso, riattivando il momento dinamico della riflessità, non è ancora, dunque, l’interiore vita che lo fa essere pensante, spegnendosi questa ogni volta che esso si attui come tale. Questa vita è bensì presente nel pensiero pensante, ma ogni volta per dileguare. […]

Quel che era metafisico un tempo si fa ora, negandosi, sostanza della individualità: è la disanimazione del pensiero che, come pensiero riflesso, proietta il mondo nell’astratta oggettività.

Ma la disanimazione presuppone il momento dell’animazione, o della vita, e la logica stessa del pensiero che pensa, sperimentata compiutamente, conduce a intuire il momento intemporale e incorporeo del pensiero, o pensiero vivente: intuizione che, tuttavia, è soltanto lampeggiare del pensiero vivente. Non è ancora il suo essere. Il suo reale essere è il Logos da cui discende, a cui segretamente è volto, e che sempre è pronto a darglisi come presenza della sua forza, identità, perennità».

È necessario, assolutamente necessario, veder ben chiaramente, per esempio, qual è il tipo di conoscenza e di pensiero che, per la sua compromissione mondana è disomogeneo, addirittura ostacolante il cammino spirituale del discepolo dell’Iniziazione. Per l’antico asceta d’Oriente o d’Occidente, la Via della Sapienza – della Sapienza, non la deragliante via della ‘cultura’ parolaia, vuota e narcisistica, oggi ovunque invadente e tirannicamente imperante, anche in ambienti ‘esoterici’ – era, e per il discepolo della autentica Scienza dello Spirito ancor oggi è, un processo pugnace, combattivo, faticoso, spesso doloroso, di autoconoscenza, di autocoscienza, di consapevolezza, di liberazione dai limiti umano-animali, che mal si concilia, anzi non si concilia affatto, con le aspirazioni, e la prassi, di arrivismo, di manipolazione politica, ideologica, psicologica, intellettuale, giornalistica, confessionale e religiosa. E non si concilia neppure – come qualcuno, con aspra sagacia, ha fatto osservare – «con l’umana troppo umana carriera da intellettuale-filosofo o professore universitario»

La ‘Via’ che deve condurre alla Conoscenza dell’Assoluto, naturalmente, non può essere un ‘via’ qualsiasi, una ‘via’ pur che sia: deve avere  caratteri omogenei con quelli dell’Assoluto stesso, perché solo il simile conosce il simile. È noto come di una figura grandiosa e tragica come quella del Conte di Cagliostro, nel XVIII secolo, venisse affermato – ut traditur – che: Pour savoir ce qu’il est, il faudrait être lui-même, ovvero, per sapere quello ch’egli è, bisognerebbe esser lui stesso. Ed è noto, altresì, come lo stesso Conte di Cagliostro amasse dire: Per conoscere una cosa, bisogna diventare quella cosa, per sapere che cosa sia l’amore, bisogna amare. E cioè, che per conoscere iniziaticamente qualcosa – ossia: veramente, e non dialetticamente, illusoriamente – è necessario, assolutamente necessario,  diventare,  e tramutarsi in quella stessa cosa nella immedesimazione contemplativa. Ciò, ovviamente, non è affatto comodo, né tampoco facile. Deve essere superata quella condizione per la quale l’esangue pensare ordinario è meramente ‘riflesso’, e come tale, incapace di cogliere la realtà, ed ‘irreale’ esso stesso. Per cogliere autenticamente la realtà, e non solo una sua inconsistente ombra, un mero ‘riflesso virtuale’, deve – assolutamente deve – essere superata la dualità che separa soggetto e oggetto. Ma questo superamento della dualità è un volitivo interiore atto ascetico, non un discorso ‘filosofico’, non una brillante performance da ‘chiacchieroni dello spirito’, come li definiva Giovanni Colazza, l’adamantino, austero e severo Maestro e amico di Massimo Scaligero.

Una tale ‘Via’ deve essere ‘omogenea’ all’Assoluto che vuole ‘conoscere’, anzi che vuole ‘realizzare’, perché la ‘conoscenza’ è ‘realizzazione’, o non è nulla. Non sono concesse approssimazioni di sorta. Quindi se l’Assoluto è l’Incondizionato, disciolto da ogni ‘condizione’, anche la ‘Via’, che conduce ad esso, deve essere tale, ossia deve essere ‘incondizionata’, libera da ‘pre-condizioni’ di qualsivoglia specie, che un tempo – per esempio, nelle antiche ‘Vie’ d’Oriente – erano richieste come ‘qualificazioni’ necessarie. In India, un Maestro, un Guru, accettava o rifiutava – rifiutava irremissibilmente, senza appello – un postulante come discepolo a seconda che questi possedesse o meno gli adhikâra, le necessarie ‘qualificazioni’, perché vigeva, e in Oriente vige ancor oggi, l’adhikâra-vidhi, ossia una ingiunzione vincolante ad una severa verifica, la quale determini se una persona abbia il diritto o meno a intraprendere o ad essere coinvolta nel sâdhana, nell’ascesi realizzativa. Quindi l’adhikâra-vidhi si riferisce ad un esame, ad uno scrutinio per constatare se il postulante abbia o meno le qualificazioni richieste per essere uno yogin. Ma una tale ‘Via’ che pone simili ‘qualificazioni’ come ‘pre-condizioni’ al cammino spirituale, è ancora una ‘Via’ che si basa su una ‘natura’ spirituale, non sullo Spirito nella sua assolutezza: è ancora una ‘Via lunare’, e come tale condizionata: non è, né può essere, la ‘Via Assoluta’, la ‘Via Solare’

Con l’esaurirsi dell’età oscura, dell’esiodea età del ferro, della nordica età dell’ascia e del lupo, del più che temuto kali-yuga indiano, tacciono tutte le voci degli oracoli e delle tradizioni. Quel che ne sopravvive sono residui involuti e largamente degenerati della ‘tradizione lunare’. Oggi, rimettersi ad essa, ad una qualsivoglia autorità sedicente ‘spirituale’, ad una ‘organizzazione tradizionale’, è rinunciare ad essere l’Io che pur sempre si è. Nel momento in cui, nel venir meno degli oracoli, tace la voce degli Dèi, l’essere umano può comunque – anzi deve – fare appello all’Assoluto che è in lui, e che gli è consustanziale. L’Assoluto è l’Io Sono del suo stesso Io: è l’Io ch’egli, comunque, e malgrado ogni offuscante illusione, pur sempre è, ma che ancora egli non ha  coscienza, né il coraggio di essere.  

Non è il livello immorale dell’anima la causa della mancanza di ‘conoscenza’, la causa reale della ‘cecità’ e della ‘ignoranza’ della realtà spirituale: semmai il contrario. Per chi, sagacemente, sappia ‘guardare’, e non solo ‘guardare’, ma anche ‘vedere’, è la cecità spirituale, la offuscante ‘ignoranza’ – che Siddhârtha Gautama, il Buddha Śâkyamuni, affermava essere la ‘radice di tutti i mali’ – a provocare la fatale corruzione delle forze originarie dell’anima, e non viceversa. Ciò è ampiamente dimostrato dalla usurante, sfibrante, lotta contro istinti, brame, passioni, emozioni, che intraprende colui che crede poterli affrontare unicamente sul piano dell’anima, colui che crede poterli affrontare con un mero ‘pensare riflesso’, condizionato dalla sua soggezione alla mediazione cerebrale e sensoriale. Vi sono casi – ne ho alcuni esempi davanti agli occhi – di persone capaci di fare una ‘analisi’ onesta, sincera, intelligente, perspicace del proprio modo di esistere, di vivere, che esse giudicano essere ‘immorale’, ma questa ‘analisi’ non dà loro neppure un briciolo di forza per sottrarsi a quel modo ‘immorale’ di esistere, perché alla loro intelligentissima ‘analisi’ sfugge la reale causa della loro ‘immoralità’: la ‘ignoranza’, la ‘cecità’ spirituale, che fatalmente provoca la corruzione delle forze dell’anima, e la obbliga ad una sfibrante, e in definitiva inutile, lotta contro le emergenze emotive ed istintive, che periodicamente la travolgono. È dalla ‘Conoscenza’, dalla ‘visione penetrante’, dalla ‘vidyâ’, che scaturiscono forze morali, e non viceversa. 

Mettiamo il caso – casi del genere sono realmente accaduti sia nella storia antica che in quella recente – di una persona che il destino abbia spinto a percorrere la oltremodo pericolosa via della criminalità. Può accadere – ma ciò, sia pure raramente, è realmente accaduto – che un simile criminale si trovasse, improvvisamente e in maniera inattenuata, di fronte alla conoscenza dello stato di abiezione morale nel quale è precipitato, ed intraveda una ‘conoscenza liberatrice’, radicalmente trasformatrice del suo immorale modo di esistere. Egli potrebbe intraprendere, con una audacia senza pari, un sentiero di ‘Conoscenza’ che trasformerebbe le sue forze ‘cadute’ in basso in novelle forze dell’Io. La storia di Aṅgulimâla, spietato brigante assassino, il quale – come raccontano le scritture buddhiste nelle fonti sia pâli che sanscrite – fu convertito dal Buddha Śâkyamuni mediante la ‘Conoscenza’, e che giunse alla stessa Illuminazione. Un altro esempio è quello di Paolo di Tarso, il quale era partito da Gerusalemme con quaranta ceffi suoi pari, per impadronirsi dei cristiani di Damasco, tradurli davanti al Sinedrio, e far fare loro, molto probabilmente, una fine poco raccomandabile. Eppure, dalla folgorante ‘Conoscenza’ del Logos venne anch’egli radicalmente trasformato. Ed anche nel nostro Medioevo si hanno esempi di simili radicali trasformazioni provocate da una subitanea, folgorante, ‘Conoscenza-Visione’. Ciò dimostra come avesse molte ragioni Massimo Scaligero a dichiarare che: «il Logos ama chi si compromette», e che «è meglio essere  delinquente che borghese». Naturalmente – è bene dirlo, a scanso di spiacevoli equivoci, a chiare lettere – qua non si sta facendo affatto l’apologia della criminalità e del reato. 

Ora, se la Via dello Spirito è la Via Assoluta, essa deve essere indipendente da ‘pre-condizioni’ di qualsiasi tipo e sorta. Giacché l’Assoluto è presente e, di conseguenza, comunque sempre ritrovabile, alla base di ogni essere, e, in particolare di ogni essere umano: dell’uomo ottuso e di quello intelligente, del saggio e dello sciocco, dell’uomo morale e del criminale, del forte guerriero volitivo e del fiacco borghese, del diligente conformista e dell’audace anticonformista, del pacato pensatore e dell’uomo sentimentale e istintivo, del santo e del peccatore. Leggendo gli stessi Vangeli, è evidente come il Signore sovente si rivolga non tanto ai ‘sapienti’, agli ’iniziati’, ai ‘qualificati’ eredi della antica, veneranda, sapienza lunare, ossia ai sacerdoti, agli scribi, ai dottori della legge mosaica, ai farisei, i quali allora sicuramente non erano tutti degli ‘ipocriti’, dei ‘sepolcri imbiancati’, quanto piuttosto ai derelitti, ai decaduti, ai disprezzatissimi ‘pubblicani’, odiatissimi servitori dell’occupante potere romano, addirittura a dei ‘gentili’, ossia dei ‘pagani’ estranei alla tradizione spirituale d’Israele, a delle adultere, a delle pubbliche peccatrici, com’erano le prostitute, ad un centurione romano, ad una ‘cananea’, agli ‘smarriti’, come vengono chiamati nei Vangeli, che rischiavano di perdere lo stato umano, scivolando pericolosamente nel subumano.

Per cui, la Via dello Spirito, la Via dell’Assoluto, oggi, è illimitatamente aperta a chiunque coraggiosamente voglia affrontarla – quale che sia il suo punto di partenza – a chiunque voglia seriamente percorrerla con volontà risoluta, e ad essa si consacri. Certo, la ‘Via’ non è affatto facile, altrimenti Massimo Scaligero non avrebbe scritto, sin dalle prime parole del suo Trattato del Pensiero Vivente, che:

«Il presente trattato, anche se logicamente formulato e accessibile, propone un compito attuabile forse da pochissimi».

Oppure, lo stesso Rudolf Steiner non avrebbe scritto nella sua Scienza Occulta nelle sue linee generali, Bari, Gius. Laterza e Figli, 1947, pp. 251-252, che:

«La via che conduce al pensiero libero dai sensi per mezzo delle comunicazioni della scienza dello Spirito è completamente sicura. Ve ne è un’altra anche più sicura, e specialmente più esatta, sebbene sia per molti uomini più difficile e sta descritta nei miei libri: «La teoria della conoscenza nella concezione goethiana del mondo» e la «Filosofia della libertà». Questi libri espongono i risultati a cui il pensiero umano può arrivare, quando invece di abbandonarsi alle impressioni del mondo esteriore fisico-sensibile, esso si concentra soltanto in se stesso. Soltanto il pensiero puro, come un’entità di per sé vivente, esplica allora la sua attività nell’uomo. I libri sopra citati non hanno tratto niente dalle comunicazioni della scienza dello Spirito; nondimeno in essi viene dimostrato, che il pensiero puro concentrato in sè stesso può arrivare a spiegazioni del mondo, della vita e dell’uomo. Quei due libri rappresentano un gradino intermedio molto importante fra la conoscenza del mondo sensibile e quella del mondo spirituale, e offrono ciò che il pensiero può conseguire quando si eleva al di sopra dell’osservazione sensibile, sebbene ancora eviti l’accesso all’investigazione dei mondi superiori. L’uomo che impregna completamente la propria anima con le idee esposte in quei libri già si trova nel mondo spirituale, sebbene questo gli si palesi come un mondo del pensiero. Chi si sente capace di attraversare questo gradino intermedio segue una via più sicura, più pura, e può acquistarsi in tal modo dei sentimenti riguardo al mondo superiore che gli arrecheranno bellissimi frutti per l’intiero avvenire».

Ma errerebbe moltissimo errerebbe – chi obbiettasse di non poter percorrere una simile audace ‘Via’, perché ‘debole’, perché ‘indegno’, o ‘immorale’, o ‘immaturo’, o ‘ottuso’, o ‘non qualificato’, perché la ‘Via’ è, di per sé, ‘qualificante’, è ‘purificatrice’, ‘maturante’, ‘dignificante’, ‘rafforzante’, radicalmente trasformatrice di tutto l’essere: ne ho avuto diretta, esemplare, esperienza in moltissimi casi. In Oriente vi è il detto: «Là dove è una volontà, là è una via». Non vi è mèta che non sia raggiungibile a chi veramente voglia, e non vi è temeraria realizzazione che non sia attuabile da chi – pur partendo dalle condizioni più sfavorevoli e meno propizie – si impegni con volontà tenace e risoluta. Anche chi avesse una volontà debole e fiacca, oggi, nella ‘Via Assoluta’, può costruirsi e conquistarsi una volontà che – come afferma il mio amico C., asceta d’altra dottrina, e mio  spirituale compagno d’armi di tante aspre battaglie – è «ghiaccio-diamante: fredda come il ghiaccio, e dura come il diamante». Anche di questo ho davanti agli occhi esempi eloquenti e illuminanti. Per cui, bando alle perplessità, bando ai dubbi e alle esitazioni!  

Sin dalla mia ormai lontana adolescenza, ho avuto modo di conoscere se non tutte, almeno la maggior parte delle ‘Vie’, antiche e moderne, simboliche e rituali, o prive di qualsivoglia forma cerimoniale, magiche, mistiche, yoghiche, ermetiche, sapienziali, gnostiche e via dicendo. Tipologicamente, penso di averle in qualche modo conosciute proprio tutte, perché anche quelle a me non direttamente note, erano e sono analoghe, affini e simili a quelle già note.  Esse tutte patiscono il limite proprio ad una ‘via lunare’; esse tutte non sono scevre di ‘presupposti’; esse tutte esigono ‘pre-condizioni’ e particolari ‘qualificazioni’ per essere percorse. Esse tutte presuppongono un particolare tipo umano: non sono ‘universalmente umane’. Esse tutte sono ‘condizionate’: non sono, quindi, la ‘Via Assoluta’

Ma ciò di cui necèssita – urgentemente, tragicamente, necèssita – l’uomo di questa epoca è proprio una ‘Via incondizionata’, percorribile da ogni tipo umano sapiente o ottuso, volitivo o sentimentale, idealista o istintivo, maturo o immaturo, morale o carente di moralità. Se l’Assoluto è alla base – e lo è realmente sempre – di qualsivoglia tipo umano, quale che sia il suo carattere, il suo temperamento, la sua personale maturità, allora Esso deve essere conosciuto come tale da ogni essere umano, e su di Esso – oggi solo su di Esso – si deve potere, ma soprattutto volere, far leva per una compiuta realizzazione spirituale.

Ma una tale ‘Via Assoluta’, una tale ‘Via incondizionata’, è la ‘Via del Pensiero’ indicata da Rudolf Steiner nella sua Filosofia della Libertà e nelle altre sue opere ‘filosofiche’ (ch’io preferisco chiamare ‘filosofali’), e da Massimo Scaligero in tutte le sue opere, in particolare nel Trattato del Pensiero Vivente e nella Logica contro l’uomo. Quella che viene indicata è la ‘Via immediata’, non necessitante di ‘pre-supposti’, o di ‘mediazioni’ di nessun tipo. Infatti, Massimo Scaligero, così scrisse nella seconda di copertina dell’Avvento dell’Uomo Interiore. Lineamenti di una tecnica dell’esperienza sovrasensibile, Sansoni, Firenze, 1959, con parole che più chiare non potrebbero essere:

«Chiave del senso della presente epoca e del valore attuale della Iniziazione, quest’opera è dedicata a coloro che hanno ancora il coraggio di volere l’uomo. Viene indicata una «via spirituale»  che, mentre è di là dalle tradizioni, attinge a un segreto e imperituro insegnamento: che un tempo agì attraverso le metafisiche dell’Oriente, oggi opera, inconosciuto, nell’anima dell’occidente, per chi giunga a scorgerla. La tecnica dell’esperienza soprasensibile descritta in questo volume già reca in sé quanto di essenziale operò nello Yoga, nel Taoismo, nella « via » del Buddha, nello Zen nel Tantrismo, ma si trae precipuamente dall’attivazione di un ulteriore elemento interno, che può sorgere soltanto nello svincolamento del pensiero razionalistico e astratto dai contenuti finiti e sensibili, valsi unicamente alla sua formazione. Per l’uomo moderno, è questo pensiero disanimato, che, risorgendo come magica forza, diviene veicolo della resurrezione cosciente del «sopranaturale» in lui, epperò virtù risolutrice degli urgenti problemi del tempo»

La ‘Via Assoluta’, la ‘Via immediata’, la ‘Via’ che può fare a meno di ogni ‘pre-supposto’, di ogni ‘pre-condizione’, di ogni ‘mediazione’, è quindi la ‘Via del Pensiero Vivente’, quella ‘Via’ «oltre le filosofie occidentali, oltre lo Yoga, oltre lo Zen», che Massimo Scaligero ha instancabilmente indicato sino alle ultime ore della sua vita, e la Concentrazione «l’esercizio a sé sufficiente», com’egli lo chiamava – è la ‘tecnica’ audace, efficace, realizzativa, risolutiva, non necessitante di ‘mediazione’ veruna, del ‘glorioso stato assoluto’, come lo chiamava molti decenni fa V., una eletta anima di coraggiosa asceta.   

La ‘Via del Pensiero Vivente’, la ‘Via’ della ‘Concentrazione Assoluta’ è – parlo per esperienza diretta: l’unica che, in definitiva, è Regina sovrana in quest’ordine di cose – la ‘Via’, più sicura, più veloce, la ‘Via immediata’, la ‘Via diretta’, la ‘Via senza appoggi’, quella più efficace – anzi, oggi, l’unica veramente efficace – più magicamente potente. E data la gravità dei tempi, data la precarietà dell’attuale condizione umana, la sua estrema pericolosità, non è più lecito perdere tempo e forze in esaurite ‘vie’ del passato, in sopravviventi ‘vie’ della ‘tradizione lunare’. Non è più lecito, né quindi concesso, perdere tempo e forze in ‘approssimazioni’, in tentativi sfilacciati e improvvisati di una volontà fiacca volubile e incostante, o nella ricerca di consolanti, quanto pericolosamente illudenti, narcotici sentimentali, mistici, magici, o intellettuali, che lasciano intoccato il dominio delle Deità Ostacolatrici sulla nostra natura inferiore.

La ‘Via’ oggi non può, ormai, essere altro che una ‘Via’ dello Spirito ‘oltre’ l’anima, una ‘Via’ dello Spirito ‘malgrado’ l’anima caduta, e – se necessario – anche ‘senza’ l’anima, ossia ‘senza’ le forze corrotte di una tale anima, perché solo lo Spirito può ricreare, rigenerare, l’anima stessa. La ‘Via Assoluta’ è la ‘Via’ del coraggio assoluto, ossia di quello che Massimo Scaligero chiamava il «coraggio dell’impossibile».     

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