Talora accade – quasi fosse a caso – che una serpentina musicalità, anche una sola, vibrante nota, suoni nel cuore e nel sangue di un uomo e lo renda dolorosamente sensibile alle catene a cui si tiene asservito. In queste catene egli ha creduto di amare molte cose di sé o del mondo, anche se per esse ha dovuto sempre complementarsi con la morte.
Piagato dalle catene egli inizia ad aspirare ad una liberazione: è come se una candela venisse accesa nel buio. Attira nella sua aura una genia di maestri, seguaci e succubi: avidi di ghermirlo con le catene ulteriori dello spirito contraffatto che giganteggia nell’obbedienza, nel sacrificio, nel simbolismo, nella rituale osservanza.
Non tutto resta buio: nelle anime sane o segnate, il male incita il bene e una frase remota o un breve incontro sono i minuti veicoli di grandi scelte: in chi porta il segno dello spirito l’ostacolo non prevale.
Però sono (e sono state) non poche le creature irretite nel metafisico campo di prigionia allestito da mediocri orientalisti o disinvolti manipolatori di sacri simboli, ombre meccaniche dei tanti strutturalisti e comparativisti che imperano nelle Università e nelle Associazioni culturali.
Per usare umida metafora, le anime appaiono, di questi tempi, semi sommerse nell’informe di acque che mareggiano a moto continuo, spruzzi e riverberi scivolosi di spiagge sassose, quasi che gli uomini non meritassero neppure i cimenti rocciosi che hanno caratterizzato buona parte del secolo scorso.
La pletora di ciarpame umidiccio esiste, è pure abbondante: iniziati imprenditori, divulgatori di pseudo digesti, blasonati ciarlatori: ominidi bidimensionali astutamente assurti in veste di mirabili mentori di piccole folle avide di follia.
Il ricercatore dotato di tormento interiore o di discriminazione conoscitiva, sente, intuisce o sa che un vero esoterismo inizia con la percezione diretta delle Forze, ossia da una posizione dinamica del tutto estranea alla cultura esoterica, al romanticismo esoterico ed al bazar dell’occulto, i quali non smuovono alcun limite al desolato quotidiano, ma anzi ingravidano il sordido e l’abbietto – nascosto in statiche e languide rappresentazioni – di cui è capace l’anima nelle sue lande crepuscolari.
E’ possibile dire che dietro lo scenario ingenuamente consolante di un vasto e rinnovato interesse per le antiche vie sapienziali (vedi Yoga e Tantrismo) non ci sia nemmeno una esigenza di tipo mistico-religioso ma piuttosto una larvale tensione psichica verso un mondo trasognato, intermedio – potremmo chiamarlo “junghiano” – che pare sufficiente a fornire quelle evasioni a cui altri disgraziati si dedicano esaltando o deprimendo funzioni organiche con la chimica delle sostanze psicotrope.
Il ricercatore sveglio attraversa e supera o evita tali malsane contrade. Se animato da attitudine più alta ed orientato ad Oriente, giunge alle indicazioni sorgive dello zen, dello yoga e parimenti ai più limpidi testimoni contemporanei di tali sentieri: Sri Aurobindo, Ramana Maharshi, Paramansa Yogananda, ecc.
V’è un mondo o un sopramondo in cui i giganti dello Spirito possono incontrarsi? Credo di sì: hanno tutti qualcosa in comune: una ricerca individuale senza filologie del Sacro, una illimitata audacia, attinta all’inesauribile siderea sostanza dell’Essere.
“Il samadhi è un’evasione…” scrive Aurobindo (Guida allo Yoga, pag.58. Roma 1975). In Aurobindo il suo “Yoga integrale” non si fonda sulle note tecniche del Hatha yoga, Jnana yoga, ecc. con la panoplia di pranayama, asana, mudra, mantra.
Yoga integrale è yoga non frammentato, yoga della consacrazione della coscienza, della vita e del corpo alla universale potenza della Vita Divina. Qui, dove l’uomo si trova, incarnato nella fisicità più densa, deve penetrare la Luce: fino alle oscure potenze della vita organica. Tutto va rovesciato e reso strumento della vita supermentale: impresa non contemplata nell’ortodossa ascesi yoghica, né dai coronamenti del Nirvikalpa samadhi né dalla liberazione Kaivalya mukti. “Il fine dello yoga è sempre difficile da raggiungersi, ma il nostro è ancor più difficile di ogni altro; esso è solamente per coloro che…sono risoluti ad affrontare tutto e a correre tutti i rischi...” (Op. cit. pag. 74). “Il fine del nostro yoga non è solo l’unione con la coscienza superiore, ma la trasformazione, tramite il suo potere, della coscienza inferiore, compresa la natura fisica” (Op. cit. pag. 83).
F. Hiebel, (tradotto senza alcuna utilità o virtù, in italiano) che fu formale presenza nell’Edificio, dalle pagine del “Das Goetheanum” da soldatino attento alla propria funzione di astratto teorico dello Spirito, attenendosi all’analisi della terminologia dell’asceta bengalese, contestò ad Aurobindo un indirizzo estatico, dunque incapace di cogliere le esigenze individualizzate dell’uomo “cosciente”. Contento lui che aveva visto subito in A. Steffen il continuatore dell’opera del Dottore.
Lasciamo parlare Aurobindo: “ Ciò che noi intendiamo quando parliamo di Vita divina è il compimento spirituale dell’impulso alla perfezione individuale e alla pienezza interiore dell’essere. E’ la prima condizione essenziale di una vita veramente umana sulla terra e ciò giustifica di fare della perfezione individuale la nostra prima preoccupazione. Se la verità del nostro essere è spirituale e non meccanica, allora deve essere il nostro stesso essere a determinare la propria evoluzione. La legge del karma è solo uno dei processi di cui a tal fine si serve. Il nostro Io deve essere più grande del karma. E’ inconcepibile che il nostro spirito sia una macchina nelle mani del karma.” E, aggiungerei, delle traduzioni inanimate della tradizione in Occidente.
Su tali parole anche l’occidentale cosciente potrebbe riflettere, laddove l’idea del karma (così necessaria all’uomo moderno!) porti ad un passivo (e naturalmente virtuoso) abbandono di sé a quanto succede e trascina quando l’Io venga scartato.
Indubbiamente è vero che luminose figure come Aurobindo o Ramana si muovono nello spazio dell’uomo orientale che però non sempre coincide con gli ambiti geografici attribuiti a questi o a quelli. Vi sono discepoli che non sopportano le contraddizioni culturali e metodologiche tra l’opera di Aurobindo e quella del dott. Steiner, ma ciò rimanda solo alla mancanza di esperienza e all’incapacità di sentire fiducia nell’azione provvidenziale del Mondo spirituale: mai unica e uniforme ma piuttosto articolata secondo necessità e rispondenze diverse.
Il problema di una comprensione vera con simili ascesi non sta tanto nella loro eterodossia ma piuttosto nell’ampia incapacità umana di trovarsi in possesso di talune qualità elementari ed imprescindibili a tali vie.
Però è anche vero che col samadhi non si risolve l’enigma che la coscienza normale offre attimo dopo attimo: tra il conto della spesa e il samadhi non v’è filo che l’Oriente sia in grado di tendere.
Autorevoli indicatori quali l’Evola, il Guenon e, su diverso piano Mircea Eliade, Aldous Huxley e altri ancora, hanno scelto il metafisico Oriente abbandonando l’Occidente alla sua compiuta desacralizzazione.
Inclini alle manifestazioni culturali dello spirituale, non hanno neppure sospettato che lo Spirito, ridotto da essi ad apparato o cosa, sia presente e vivente. E che non va o viene ma presenzia tutta la realtà e persino quanto in essa sembri esterno ed estraneo. Quando esso venga ridotto a identificarsi in sistemi o rituali, in mancanza dei quali pare non esserci, è questo il metro realistico della profondità di simili indicatori.
Nel più eccezionale dei casi il limite interiore di tali anime si riassume nel sintetico assunto che la via sarebbe l’arresto delle funzioni mentali. Condizione plausibile prima di Buddha e del Cristo. Poiché evitando le funzioni si evita l’esperienza del loro determinarsi nella conoscenza del mondo esteriore.
Infatti il mondo greco, la nascita della filosofia, lo studio matematico, lo sguardo artistico del corpo divengono sviluppo delle determinazioni: la logica, la filosofia della natura non si estinguono nella funzione conoscitiva ma sono formative di un’autocoscienza che nasce e cresce da una premessa e verso direzione opposta al senso intimo dell’antico yoga. Ora è la forza della determinazione che deve essere posseduta.
In quanto occidentali, sarebbe solo ignoranza prendere posizione contro lo yoga, mentre sarebbe vitale rendersi conto che la dinamica pensante a cui si attinge ora, sia per l’ordinario che per l’iniziale passo nella ricerca spirituale è polare rispetto all’antico conseguimento yoghico di liberazione e alla basale struttura dell’asceta antico.
E’ un dato facilmente sperimentabile (specie per anime che già furono operanti in Oriente) il fatto che attualmente con il sādhana di un tempo si possa scivolare agevolmente ad una “trance” povera di coscienza e ricca di fenomeni extrasensibili. I tanti che godono di questa condizione dovrebbero riflettere su quanto può valere una coscienza desta, anche se apparentemente priva di esperienze speciali (è questo il fondamento delle strane paure che poi vengono addebitate alla concentrazione: può succedere che durante i primi tempi della pratica, l’operatore non si accorga minimamente di scivolare dalla destità al trasognamento, situazione superabile con uno sforzo giornaliero e con la moralità intrinseca al pensare).
Tutto questo non inficia l’altissimo valore di asceti del calibro di Aurobindo o Ramana: essi hanno intuito (sperimentato) il mutato assetto della coscienza umana e, di conseguenza, di rinnovate modalità operative: per diretta esperienza individuando nell’Io il senso delle discipline o percependo che una vera liberazione non dovrebbe eludere la sfera dell’incarnazione.
E’ auspicabile, per l’occidentale moderno, un sentiero che parta dalle sue peculiari condizioni di coscienza, estranee alle nobili forme dell’antica tapasyâ, temporaneamente valide per l’asceta in ritardo o come ricapitolazione di remoti percorsi. Rintracciare in Occidente il filo di insegnamenti autentici può sembrare vano se si è sonnambolicamente aderito al ripiego orientalistico degli orientatori professionisti: occorre non cadere nell’errore di confondere la Tradizione perenne col prodotto dei sistemologi (è quasi divertente assistere a dibattiti accesi in cui, all’esaurirsi delle raffinatezze, uno accusa l’altro di essere meno tradizionale di lui).
Le vere scelte non sono solo problema di logica e acuto giudizio, rimandano piuttosto al presentimento di una antica volontà o scelta che si spiega lungo le azioni della vita terrestre. Ciò non dovrebbe essere smorzato!
“non è necessario dapprima che tale evento sia consapevole: l’importante è che esso sorga nell’anima del discepolo nella forma di un intento profondo: di fedeltà alla propria Tradizione interiore, intuita in rari momenti, di cui non gli può essere abituale il ricordo. Come pura Tradizione interiore…essa esprime la sua assoluta indipendenza rispetto alle espressioni riflesse della Tradizione formalmente regolari” (Scaligero, La Tradizione solare. Pag. 66).
Chi è debole, perciò bramoso di integrarsi in strutture formali (perpetuando il materialismo interiore), finisce nelle putrescenti braccia dell’apparato cattolico o magistico o nello sensualismo mistico.
In ciò alcuna critica: non c’è scelta per carenza di libertà del soggetto. Però nel nostro Paese ciò avviene in forma grave, condizionante: al punto da esigere un lungo e radicale lavoro interiore, non sempre coronato da una vera indipendenza (ho visto tante brave persone trasferire il loro cattolicesimo nella Classe esoterica). E ciò vale per i substrati dell’agnostico o dell’ateo: tanto superficiali da essere immuni solo a parole.
Inoltre potenze avverse distolgono l’anima dai pochi ispiratori che garantiscono con l’esperienza diretta le indicazioni elargite. In negativo vale come prova la patente di maestro (realisticamente insensata) elargita a Evola e Guenon, che sono stati indicatori non banali ma interpreti fuorvianti dei testi tradizionali.
Maître Philippe, Rudolf Steiner, Massimo Scaligero: quanti salami di sacrestia (tradizionalisti o meno) hanno torto occhi e cervella davanti questi nomi: raggelando ogni impulso conoscitivo con un apriorisma che sconfina nella patologia della psiche. Inaccettabili e basta e…così sia!
Ma non sono nemmeno pochi quelli ai quali il destino aveva combinato l’incontro con queste figure e che poi hanno scelto di retrocedere verso una mistica personale, perciò limitata ad una impossibile ascesi dell’anima su sé stessa, laddove questa richiede severamente la direzione opposta, cioè di essere dominata, equilibrata e vinta: come condizione necessaria per dare un varco all’obbiettiva potenza dello Spirito. Viste le difficoltà inevitabili è comprensibile che ciò sia avvenuto…lo è molto meno il fatto che ci si vanti di tale regressione e se ne faccia verbo, più o meno assoluto, presso altri ricercatori.
A tale proposito, veniamo costantemente accusati di unilateralità ed è vero. Spesso ci poniamo su un solo binario: quello della disciplina interiore e dell’esperienza diretta. Forse perché riteniamo insensato e un po’ folle tenersi per tutta la vita aggrappati alla giostra dei temi metafisici ed alle chiacchierate sentimentali su cose non sperimentate. Esiste un gruppo che, ritenendosi molto importante, non può non credere che qui (e da altre parti) non ci si dia altrettanta importanza. E’ inutile spiegarsi con chi dipende in toto dalle proprie rappresentazioni marmorizzate nel sentimento. Il mondo è più vasto di quanto quel gruppo stima. Riporto le parole di un esoterista d’oltralpe a cui venne chiesto della sua amicizia con Scaligero: “Spiace che la sua grandezza non sia stata adeguatamente compresa anche a causa dello scempio fatto del suo insegnamento da alcuni suoi congiunti e discepoli romani. Comunque le sue opere parlano per lui e sono onorato di averlo fatto conoscere in Francia“. Ecco che il giudizio negativo, basato su documentazioni inequivocabili, verso chi si sente prosecutore e che pare invece persecutore, è assai più vasto di chi crede che fuori Roma finisca il mondo. Noi veniamo costantemente bollati come pagani o non-cristiani o patologici egoisti: mai attraverso una sensata critica sui contenuti ma sempre con livore manifestato o camuffato.
Criticando noi in quanto persone mostrano di avere vista corta, criticando la nostra indicazione verso la Concentrazione, sottomettono i Maestri e la Filosofia della Libertà alle loro tendenze personali. Ma il mio parlare di questi melliflui sgherri di un “partito spirituale” (poiché tra ipocrisie, intrighi, intrallazzi e connivenze è proprio un partito), non serve a niente.
Dato che il loro pallino, un po’ ossessivo, è il freddo egoismo in cui caderebbero quelli che fanno ciò che (invece) loro non fanno o fanno assai male o hanno tentato di fare con anima morta, fallendo, chiudo citando due testimonianze di poche righe.
La prima è di un amico lettore e costante operatore che, in un breve saluto scrive: “…e ti posso dire che, al di là di tutte le cose, la Devozione cresce, cresce”.
La seconda appartiene al colloquio di Scaligero con un discepolo della Via del Pensiero: “ Non ti preoccupare del risultato, il Cristo è già presente nella descrizione iniziale dell’oggetto, perché è un movimento nuovo che la tua volontà/pensiero opera, ed il lento cambiamento che genera in te è ciò per cui il Cristo si fece Uomo”.
Ambedue si riferiscono a quello che risulta dalla pratica verace della Concentrazione.