L’ importanza del II dei VI è, fino ad un certo punto, difficilmente comprensibile, proprio perché la corrente della Volontà si muove sotterranea e lontana dai margini della coscienza ordinaria.
Finché non se ne fa esperienza diretta è difficile anche riconoscere il modo giusto, in quanto il punto non è “fare l’esercizio” ma volerlo in tutta la sua interezza; non è agirlo come un compitino da svolgere e spuntare in una ipotetica “lista della spesa”, ma volerlo fare mentre lo si fa, immettendo consapevolmente volontà nell’ azione che si è, preventivamente, scelto di compiere.
L’ azione costantemente ripetuta fa decadere, poco a poco, anche le ultime fisime circa il cosa fare, che azione scegliere, per quanto tempo compierla. Quel che conta è fare, fare volitivamente e incessantemente, con un moto che può immergersi sempre di più nell’azione, sempre più strenuamente. Paradossalmente, per la coscienza ordinaria almeno, questo volere l’azione lo si riporta, in maniera diversa, nel I esercizio, laddove si smette di attendere un risultato qualsiasi e si agisce attraverso le immagini, permanendo nella volontà di agirle per se stesse, per il compito che ci si è posti.
In tempi come quelli odierni in cui impera la ricerca del risultato imemdiato, in cui non deve esistere nemmeno uno iato tra azione e riconoscimento esteriore, pena la nullità esistenziale, un esercizio come questo è pressoché incomprensibile, oltreché avversato, anche perché mette di fronte alla incapacità di agire per coerenza interiore e non aspettandosi la pacca sulla spalla ad ogni passo.
Fondamentalmente siamo un’ umanità ancora adolescente, nella perenne attesa di qualcuno che risolva i nostri piccoli e grandi problemi, ancora tenacemente attaccati alle gonnelle di qualcuno che ci nutra e, perlopiù, incapaci di nutrirci da noi stessi.
Gli esercizi ti cambiano, gli esercizi svellono e scardinano le certezze e le fossilizzazioni, ti mettono di fronte ai limiti, alle possibilità e alle potenzialità. Gli esercizi ti pongono di fronte alla responsabilità di ciò che puoi e vuoi portare nel mondo. Sono la lama attraverso cui vieni trafitto, fin nelle fondamenta della incoerenza quotidiana. E perciò sono temuti, dimenticati, edulcorati.
Ecco un proficuo esempio di una nota breve in cui riesce a starci dentro tutto l’essenziale.
In effetti chiudere gli esercizi nei recinti degli “esercizi” è un depauperamento più che ingiusto per forti (scandalose) azioni dell’anima che prende sostanza e forma cosciente proprio con queste.
Qualcuno, proprio dall’interno della S.A., ha l’impudenza di affermare una evoluzione in cui le discipline fondamentali vengono considerate come sorpassate o superate. Sarebbe interessante conoscere, oltre le nebbie, quale sia – netta e chiara – la concreta fisionomia di quello che, per logica, dovrebbe sostituire positivamente ciò che evidentemente si è voluto abbandonare.
Oppure si abbandona quello che non è stato né compreso né attuato.
Le righe dell’articolista, a mio parere, mostrano invece la realtà e la vivezza
delle discipline, in quanto fatte operare nell’anima.
La descrizione dell’atto di volontà di Kiarodiluna, nella sua scarna nudità, ha veramente tutto ciò che essenzialmente serve all’asceta che si impegna in maniera consacrata nell’esecuzione dell’esercizio.
Come per la trasmissione dell’esercizio della Concentrazione, NON servono descrizioni dettagliate, e volgarmente spiegate, di quello che deve essere per l’asceta un Rito sacro, bensì brevi cenni essenziali di una pratica interiore che esige, più che essere capita, eseguita: la ripetuta attuazione di esso donerà quella comprensione interiore profonda, che non può scaturire da nessuna analisi intellettuale.
L’ascesi attuata è la migliore – anzi l’unica – dimostrazione di se stessa. Come dice Giovanni Colazza in “Ur”, noi ricaviamo la teoria dall’esperienza e non viceversa. E questo perché anche lo “studio” – rosicrucianamente inteso come primo gradino dell’Iniziazione – non è, come purtroppo ritengono molti intellettuali che si credono “esoteristi”, un glossare, un commentare, un ridire con altre parole le parole dei testi della Sapienza Santa, bensì è un Rito sacro – anch’esso – nel quale ci si immerge concentrativamente e volitivamente in ogni pensiero: sino a poter sperimentare il rivivere originario, lo scaturire di quei pensieri nella nostra coscienza ben sveglia, come nel loro momento primigenio: ossia è il Rito sacro dello sperimentare coscientemente il momento genetico di quei pensieri.
Lo stesso è nella Concentrazione: sperimentare coscientemente e volitivamente la corrente di forza del pensare primigenio dal quale scaturiscono i pensieri o il pensiero della concentrazione.
Lo stesso è nell’ascesi della Volontà: sperimentare coscientemente la corrente di forza del volere primigenio, che normalmente scorre in maniera incosciente nei singoli moti dell’umano volere.
E’ la stessa corrente di forza spirituale: volere pensante o pensiero volente, che divengono una sola travolgente e folgorante corrente di forza spirituale.
Hugo de’ Paganis,
con animo grato,
saluta Kiarodiluna,
che diamanti ha donato!
Hugo, il debito di gratitudine ce l’ho io con te. Senza il tuo orsolupesco zampino, questa esperienza non sarebbe avvenuta ora.
A riprova che conta fare e meditare sul fare, ma fare e rifare ancora e ancora e che essere “cani sciolti” paga. Grazie.
Sì, certo. Come scrive il dott. Colazza “noi ricaviamo la teoria dall’esperienza e non viceversa” e come lo sottolinea Hugo…
Eppure sembra che nemmeno questo basti. Ho letto su di un Sito, ricco di critiche verso Eco ed i suoi collaboratori (a me pare che non ne centrino una, ma ad ognuno la sua opinione), che la quasi totalità dei suoi scriventi ha sulle spalle decine e decine di anni di disciplina interiore e, nel particolare, di concentrazione. Eppure sembra che si reggano su vaste quantità di fideismi e icone rappresentative ben inchiodate. Al punto che subentra l’impressione o il sospetto di un niente svolto costantemente per 30 o 40 anni.
Fenomeno già visto dalle mie parti e che davvero mi porta ad una costante riflessione. Mi chiedo, in parole povere, cosa queste persone facciano per davvero.
Allora Hugo ha ragione da vendere quando scrive che NON servono descrizioni dettagliate. Mi par di ricordare che, sul Sito menzionato, c’è chi scrive che tutti i discepoli di Scaligero fanno da allora la concentrazione: mai sentita una sciocchezza così fragorosa.
Una cosa è però certa: Eco non scrive per quel tipo di discepoli.
Cose come l’articolo di kiarodiluna sono indirizzate a chi, magari discepolo di nessuno, fa o tenta realmente un lavoro interiore con “gli esercizi che svellono e scardinano certezze e fossilizzazioni” e impara a camminare con le proprie gambe senza santini in tasca.
Se ciò fosse facile e naturale non lo ripeteremmo ogni settimana, tutti i mesi e negli anni. E, grazie al cielo, QUESTO, i lettori di Eco lo hanno capito.
“Non vi è verità che sia vera, se questa non viene realizzata in una pratica interiore: se non si giunge, nell’intuirla e viverla, a modificare ontologicamente la nostra costituzione interiore e se questa verità non si riversa poi nella nostra ulteriore azione esteriore e interiore.”(Hugo de’ Paganis)
Tra le frasi più mirabili, belle, vere di sempre, per sempre!