Nell’uomo, in ogni uomo, è insito l’impulso umano alla conoscenza, come viene chiamato, già nel titolo, nel secondo capitolo della Filosofia della Libertà. Sì, ma conoscenza di che cosa? Conoscenza della realtà: della realtà “così com’è”, yathâbhûtam, come affermano, per esempio, i buddhisti di tutte le Scuole, ma anche tutta intera la tradizione iniziatica d’Oriente e d’Occidente.
Ma già qui sorge una grandissima difficoltà, e viene da chiedersi: l’uomo conosce, o è capace di conoscere, la realtà “così com’è”, yathâbhûtam, ossia oggettivamente, senza distorcerla, senza trasformarla tutta intera in un sogno soggettivo, o addirittura in una illusione, nella Grande Illusione, la Mahâ Mâyâ delle metafisiche e delle “Vie di liberazione” di tutta l’India, in definitiva in una immane una menzogna?
La risposta, ben amara per molti, non potrebbe non essere altro che molto poco confortante. Perché se è certo che l’uomo, ogni uomo, è capace di conoscere, giacché l’impulso alla conoscenza è insito in ogni uomo, è altrettanto certo che, generalmente, l’essere umano sfugge una tale conoscenza. Sfugge la conoscenza del mondo e di se stesso. Anzi prima, e più di tutto, egli sfugge – si dovrebbe dire ch’egli, addirittura a gambe levate, fugge – di fronte alla conoscenza di se stesso. L’essere umano non ama la conoscenza di se stesso, la evita in tutte le maniere possibili, e su se stesso si fa, e ama farsi, le illusioni peggiori.
E questo spiega il monito del Dio di Delphi: γνῶθι σεαυτόν, gnôthi seautón, ossia “conosci te stesso”, e aggiunge: “e conoscerai l’Universo e gli Dèi!”. Infatti, è detto:
τὸ γνῶναι ἑαυτὸν οὐδὲν ἄλλο ἐστὶν ἢ τοῦ σύμπαντος κόσμου φύσιν γνῶναι,
to gnônai heautòn oudèn àllo estìn e tou sýmpantos kòsmou phýsin gnônai,
«conoscere se stesso non è altro che conoscere la natura dell’universo».
Ma raramente e difficilmente l’uomo si lascia sedurre da un così savio e benefico consiglio del Dio luminoso. Spesso, troppo spesso, l’essere umano, per turpe viltà, piuttosto che la Conoscenza, brama e preferisce l’oscurità dell’ignoranza e l’inerzia più pigra e ottusa.
Per sfuggire ad una salutifera conoscenza di sé – e di conseguenza delle cose, della vita e dei suoi reali valori, del mondo – l’essere umano fa accompagnare l’ignoranza, la brama, e la torpida inerzia, ossia gli âsava, i tre veleni intossicanti dei quali parla il Buddha Śâkyamuni, dalle loro solerti figlie e ancelle: la paura e l’avversione. Paura e avversione nascono dall’ignoranza, dalla avidyâ, e portano a temere non solo l’ignoto, bensì qualsiasi cambiamento che scuota dalla turpe inerzia, e ad avversare violentemente tutto ciò che possa ostacolare l’appagamento della brama, della inestinguibile “sete”, come la chiamano i buddhisti, o addirittura rischi di portare alla sua “estinzione”, al nirvâṇa, e spinga quindi all’azione liberatrice, dissolvendo la paralizzante inerzia.
A questa Conoscenza liberatrice, che è la folgore del Pensiero Vivente, l’uomo resiste, avvinghiandovisi come nello spasmo di un tetanico crampo, con ogni pensiero possibile, con tutti i suoi stati d’animo, con ogni suo istinto più virulento. In queste condizioni davvero disperanti, l’impresa di realizzare una tale Conoscenza è davvero una impresa “eroica”, perché tale impresa deve con energia titanica, “prometeica”, disciogliere il crampo tetanico, che tiene dolorosamente avvinti alla inconsistente, ma insinuante e travolgente sfera delle soggettive illusioni, precipitando così, ottusi e ipnotizzati, nello spalancato abisso della Mâyâ.
Uno dei più frequenti narcotici cui si dànno molti di coloro che, pur sentendo l’attrazione dello spirituale, voglio sottrarsi alla Conoscenza dello Spirituale stesso, presentendo che una tale Conoscenza sia dissolvitrice della ignorante, ignave, ottusa condizione, è il mito, l’idolatrico feticcio, del moralismo. Si pensa, e ci si vuole convincere, che sia sufficiente essere delle “brave persone”, “comportarsi bene”, per realizzare lo Spirito. Naturalmente senza il faticoso incomodo di doverlo conoscere. Ovvero, si può rimanere in uno stato di coscienza trasognato o dormiente, e tuttavia mettere in atto, in maniera meccanica o vegetativa, comportamenti “morali”. E questo, per usare il linguaggio di matematici e geometri, a loro dire, sarebbe “condizione necessaria e sufficiente” per la realizzazione dello Spirito. Cioè, oltre al comportarsi bene, magari sforzandosi pure di comportarsi sempre meglio, non vi sarebbe altro da fare. O poco altro, perché troppa Conoscenza – a loro dire – può far male, anzi malissimo. Quanto alla Concentrazione, questa, poi, fatta troppo, farebbe malissimo. Sempre a loro dire.
A volte questo atteggiamento di ottusa e passiva resistenza, può accompagnarsi ad un’ aperta e virulenta azione di contrapposizione rabbiosa e di contrasto più o meno bellicoso nei confronti della Via del Pensiero, della intensa pratica della Concentrazione, dalle quali soltanto, oggi, può scaturire autentica Conoscenza liberatrice. E i metodi adoprati contro gli ostinati, pertinaci seguaci della Via del pensiero – a onta della “virtuosa moralità” proclamata ed esaltata addirittura con idolatrico culto – possono essere davvero sudicetti assai.
Il moralismo non è la moralità: né è, anzi, la caricaturale contraffazione. Moralità autentica può scaturire solo dalla Conoscenza, e non dal conformarsi a comportamenti “virtuosi”. Verace moralità scaturisce unicamente dalla Conoscenza, perché essa è atto attivo dell’Io, e non può scaturire dalle passive movenze dell’anima stordita, poco consapevole, o sognante. Moralità è espressione dell’autocoscienza dell’Io, ossia atto producente dell’Io spiritualmente sveglio nell’anima cosciente, mentre il moralismo “virtuoso” è un fatto prodotto che si verifica nell’anima, ma non un atto coscientemente, attivamente, volitivamente operato dall’ anima. Quando poi non è soltanto ipocrita e interessata recitazione – a profitto degli illusi – da parte di sepolcri imbiancati.
Nella Filosofia della Libertà vien detto che non può essere libera un’azione se colui che la compie non sa perché la compie. Il bello – o, se si vuole, il brutto – è che, il più delle volte, quello che dovrebbe essere il soggetto cosciente dell’azione, non solo non conosce il perché la compie, o le forze che lo spingono all’azione stessa, ma neppure sa che la compie. È proprio il caso di dire che gli umani vivono alquanto distratti e che nesciunt quod faciunt!
E se ascoltiamo la parola del principe Siddhârtha Gautama, il Buddha Śâkyamuni nel Dhammapada, l’Orma della Disciplina, come limpidamente traduce Eugenio Frola, ove nell’Appamâda-vagga, vien detto :
La vigilanza è la via per non morire, la distrazione strada alla morte.
I vigilanti non muoiono, i negligenti son come morti. […]
Attraverso la vigilanza, l’attenzione, la restrizione e il controllo
Il saggio si costruisce un’isola che i flutti non sommergeranno. […],
Come chi vada cogliendo fiori, così la Morte coglie la vita degli uomini distratti,
come un’inondazione che si abbatte su un villaggio addormentato,
forse dovremmo prendere molto sul serio, ancor dopo 2600 anni, le parole ammonitrici dell’Asceta degli Śâkya. Anzi, forse, lo si dovrebbe fare oggi più che allora.
Nella condizione estracorporea, sperimentabile nella Concentrazione portata sino all’assolutezza, si attua quel morire prima di morire, senza morire, che è al contempo una condizione di immortalità e di innatalità. Perché, da una parte, nel fuoco dell’attenzione volitiva – in quello che Massimo Scaligero chiama calor cogitationis – “ardono” e si consumano tutte le tare, le storture, le deformazioni che l’anima ha accumulato in quello che a lei pareva un vivere, ed invece è l’inesausta consunzione di un logorante morire. Questo volitivo “ardere” attua attivamente e volitivamente quel devastante processo che, normalmente, l’essere umano sperimenta, passivamente, solo dopo la morte. In questo volitivo e cosciente “ardere”, attuantesi nella Concentrazione, il morire del mero vivere biologico si trasforma nel rivivere di un elemento di luminosa immortalità. Per altro verso, nella Concentrazione portata a radicalità, si ritrova quella condizione pura dell’anima, anteriore alla nascita che, appunto, è tale prima che le esperienze della vita abbiano impresso su di lei traumi, ferite e cicatrici, ossia quella condizione che, in Estremo Oriente, gli audaci e luminosi asceti del Ch’an o dello Zen chiamavano: “il tuo volto prima di nascere”.
In tale esperienza di innatalità ed immortalità, conseguente alla Concentrazione profonda, l’asceta si apre alla forza-folgore del pensiero vivente, nella quale pensare, sentire e volere sono, come mostra Massimo Scaligero nel Trattato del Pensiero Vivente, un’unica forza, un’unica fulgurea corrente di vita. Il bene è questa forza una, integra come corrente di forza e di vita, veste di Luce e di Calore del Logos. Il male è la frantumazione di questa forza di Luce-Vita in un pensare riflesso, che è smorzata ed evanescente luce senza vita, e in una volontà, che è oscura vita bramosa senza luce, e in mezzo un sentire continuamente dilaniato nell’oscillazione tra l’anemico e disanimato pensare e l’insorgere ingovernabile del volere istintivo. Il bene è che l’uomo si innalzi al livello di coscienza dell’Io, ritrovi la forza una del pensiero vivente, il male è che l’essere umano tramortito sia alla mercé nell’anima del fatuo accendersi del pensiero riflesso, del divampare incontrastato delle pulsioni della volontà istintiva, della consunzione del sentire emotivo.
Perduta l’esperienza vivente del pensiero-folgore, l’essere umano perse la comunione con lo Spirituale, e perse altresì la capacità di essere spontaneamente in armonia col sopramondo, con l’ordine cosmico o, come direbbero i Cinesi, col Tao. Perduta tale comunione spontanea con lo Spirituale, e le Gerarchie, l’essere umano è stato travolto dalle caotizzate forze dell’anima caduta. Semplicemente per arginare la travolgenza di tale chaos istintivo, l’essere umano – incapace di ritrovare la comunione spontanea con l’essere uno del pensiero-folgore – ha cercato un “surrogato” in una serie di comportamenti “virtuosi”, in conformità rituali, che sono un ben misero surrogato dello stato primordiale smarrito, ed anche, col volger delle età, un sempre meno efficace rimedio. Sino ad esser giunti oggi al “virtuismo” o al “moralismo”, ossia ad una vera e propria caricatura di quel che, ancor secoli fa, con qualche dignità poteva essere forza minimamente ordinatrice.
Che l’essere umano di questa meravigliosa e sciagurata epoca non debba farsi molte illusioni circa la facile “virtù”, la quale sarebbe, more geometrico, condizione assolutamente necessaria quanto sufficiente per una realizzazione iniziatica, è mostrato ad abundantiam dalle parole di Massimo Scaligero alle pp. 179-180 dell’Avvento dell’uomo interiore, nell’edizione di Sansoni, Firenze, 1959, che mi è particolarmente cara, dove parlando dello svincolamento interiore, conseguente all’ascesi della Via del Pensiero, dice:
«E’ un guardare che può essere meritato e che, a un dato momento, diviene condizione di una precisa visione trasfigurane, in quanto si sia abbastanza svincolati dalla propria natura da poterne vedere il guasto radicale […]
Occorre aver conseguito la «stabilità» insieme con la indipendenza dalle consuete «velleità», per poter contemplare in se stessi, senza venirne sconvolti, le profondità della «natura malvagia»: la tortuosità, l’odio, l’amore di sé, la paura, l’invidia, dominanti dal profondo di una loro «sede», che al suo rivelarsi, mostra il carattere della irresistibilità, quasi di un’assolutezza contro cui sembra impossibile reagire. Eppure il «guardare» è già il principio del superamento. E’ un guardare che si forma con l’esercizio dell’«osservazione pura», con la capacità di guardare i pensieri: è un guardare che libera, perché fa riconoscere ciò che non si è.
L’uomo ordinario non avrebbe forze sufficienti per sopportare un simile scenario e ciò gli evita di vederlo: egli deve potersi illudere circa virtù e principî morali che gli diano una qualche sicurezza e il senso della buona coscienza per muoversi agevolmente in quella esistenza che egli assume come realtà. L’educazione metafisica ha il compito di formare l’uomo sino a fornirgli l’interna saldezza perché, a un dato momento, posa sostenere la visione di questa realtà, mai sospettata. Contemplare tale scenario libera e rapporta al centro le facoltà in colui che contempla: la coscienza ora si estende per l’Io a una realtà con la quale era confusa e si riduceva quasi sempre anch’essa a «fenomeno».
Queste parole di Massimo Scaligero mostrano, con una chiarezza che non ha pari, che la possibilità di una autentica «moralità» dipende dalla liberazione del pensiero conseguibile attraverso la intensa e fervida pratica della Concentrazione, e che forze morali scaturiscono dalla Conoscenza, ossia dall’esperienza del Pensiero Vivente, e non viceversa. A queste considerazioni vogliamo accostare quanto Massimo Scaligero dice nell’articolo, che è stato pubblicato recentemente su questo blog, Che cosa l’Ottuplice Sentiero può ancora significare per l’umanità (https://www.ecoantroposophia.it/2015/06/scienza-spirito/hugo-de-pagani/lascesi-del-risveglio-e-lottuplice-sentiero-del-buddha-shakyamuni/), ove dice:
«A questo punto appare evidente come l’Ottuplice Sentiero non agisca in quanto imperativo morale o sociale, ma per il fatto che esso sia intessuto di una serie di atti interiori, condotti sempre mediante un particolare modo di pensare, che è retto pensiero o pensiero puro. La sorgente dell’intuizione è chiamata sempre a scaturire nell’anima sì da generare le varie attitudini indipendentemente dagli antichi vâsanâ, epperò persino oltre il limite della conoscenza o della sapienza acquisita. Per l’uomo moderno, la chiave dell’intero processo è nella riconquista del pensare in quanto uguale all’essere. Fuori di un “pensiero vivente”, gli otto sentieri non possono restare altro che astratte direttive etiche, le forme esteriori di una saggezza, intesa a celare l’egoismo umano sotto la cornice di una qualche dignità.
Qui la moralità in realtà non è il presupposto, bensì una conseguenza, che non viene neppure posta come un fine, e quindi non è neppure voluta, in quanto l’Ottuplice Sentiero ed il pensiero trasparente, non più legato ad alcuno strumento fisico, divengono il sentiero verso la realizzazione di ciò che la filosofia moderna designa intuitivamente come il “fondamento”: quello che non ha altro supporto che se stesso».
L’esperienza del Pensiero Vivente, dal quale scaturiscono retto pensiero, retto giudizio, e retta visione, attraverso il superamento dello stato di cadavericità del pensiero riflesso, costituzionale per l’uomo moderno, è il presupposto del sorgere di una moralità vivente. Si è morali perché si è liberi, e non viceversa, perché – come è scritto nella Filosofia della Libertà – «la libertà è la maniera umana di essere morali». E la prima libertà che l’uomo può conquistare è la liberazione del pensiero dal cervello, dal sistema nervoso, dall’abietto servaggio alla vita somatica, che è un vivere per la consunzione e per la morte. Altrimenti parole come «virtù», «moralità», sono soltanto flatus vocis, mere parole, dialettica, retorica, recitazione ed autoinganno. Infatti, sempre nel medesimo articolo, Massimo Scaligero scrive:
«Una virtù, una qualsiasi attitudine interiore, per l’uomo moderno è anzitutto e soprattutto un qualcosa di astratto, quasi uno slogan. L’esperienza razionale è quella che rende l’uomo capace di edificare la scienza e la visione scientifica del mondo. Ma il metro di misura della mera conoscenza non può in alcun modo essere applicato alla visone dell’uomo antico. […] L’uomo antico, un essere prerazionale e prefilosofico, non sperimentava astrattamente il pensiero, in quanto la corrente vivificatrice della volontà scorreva direttamente nel suo pensare. Una virtù non avrebbe potuto essere pensata astrattamente – là dove l’uomo moderno, invece, può essere razionalmente persuaso, con ottime ragioni, a condannare un modo di vivere nei confronti del quale, in effetti, egli non è abbastanza forte da liberarsene – ma una volta introdotta nell’anima come pensiero, quella virtù avrebbe mostrato sin dal principio la sua forza trasformatrice.
L’importanza attribuita a dhâraṇâ e a dhyâna, ossia alla concentrazione e alla meditazione, nei testi tradizionali può essere scorta nell’esperienza attraverso la quale l’uomo realizzava il suo essere: nel pensiero egli viveva, per così dire, come in un organismo sottile non limitato alla testa, bensì pervadente l’intero suo corpo e la sua anima.
Lo Yoga, la dottrina dei chakra, la nozione delle nâdî, e il lato pratico dello shaktismo sono intesi nell’Induismo a “corporificare lo spirito e a spiritualizzare il corpo”, e possono essere giustificatamente messi in relazione con l’idea dell’antica identità tra l’essere e il pensare. Il mistico realizzava se stesso nel pensare e sentiva ch’egli non era, allorché era cosciente unicamente del suo corpo; egli si sentiva disperdere e quasi svanire nel processo sensorio, laddove invece egli sentiva il proprio essere integrale, mentre era impegnato nel pensare meditativo. Per lui l’essere era pensare e il pensare essere. Al di fuori dell’attività interiore suscitata dal pensare egli non era. All’interno di essa, egli percepiva il proprio essere, la propria vita. Nella meditazione l’uomo viveva realmente. In altre parole, le astrazioni erano ignote all’asceta antico, poiché il pensiero era volontà, al tempo stesso che jñâna era autorealizzazione».
Tornando a quanto Massimo Scaligero scrive a p. 180 dell’Avvento dell’Uomo Interiore, troviamo:
«La visione, in quanto sia possibile, è liberatrice ed è previsto che si abbia, se le condizioni a ciò necessarie siano acquisite: è l’inizio di un «essere liberi dal male» nel suo germe, ed in tal senso le sue conseguenze positive sono valide, oltre il limite individuale, per l’umanità. L’impressione della radicale malvagità e del selvaggio attaccamento a se stessi desta, insieme con la conoscenza di sé, l’umiltà – in quanto si sa di essere ancora legati a ciò che si guarda – e la compassione per gli altri esseri che ignorano la loro miseria: umiltà e compassione vere, non quelle che si cercano per sentirsi migliori. In effetto, non possono darsi vera compassione, vera tolleranza per l’altrui errore, vera comprensione per l’isolamento degli esseri, prima della esperienza di questa condizione radicale della natura umana.
Chi abbia una simile esperienza, contempla una realtà inconoscibile a chi sia legato ad essa in modo da non potersene separare, essendogli essa interno motivo di vita, supporto inalienabile: condizione dell’uomo ordinario, ma anche del ricercatore dello spirito sino alla soglia della visione penetrante a cui si è accennato. Presso la quale viene insegnato che vigila un essere detto Guardiano della Soglia».
Si dirà che queste parole di Massimo Scaligero sono troppo dure, sconsolanti, e che l’austerità dell’impegno ascetico che richiedono non sono sopportabili per molti cercatori dello Spirito. Personalmente ritengo che la più desolante e disperante realtà sia ben migliore della più rosea illusione. Per cui conviene – come ammoniva quel paganaccio impenitente, dal grandissimo cuore, che era Arturo Reghini – di mettere al bando, senza veruna misericordia, ogni illusione, e di guardare romanamente in faccia la realtà. Questa potrà non piacere ma, appunto, è reale, con essa dobbiamo fare rigorosamente i conti, e solo da essa possiamo partire per giungere a quella che il Buddha chiama l’Eccelsa Mèta.
Coloro che, rinunciando all’impresa interiore, scelgono di sostituire all’austerità della Via dello Spirito, alla Via eroica, una illudente “via dell’anima”, ossia la comodità della via egoica, oggi hanno a disposizione, per stordirsi rispetto all’angoscia interiore, e beatamente sognare, i narcotici e gli stupefacenti del misticismo, del sentimentalismo, dell’intellettualismo culturale ed estetizzante, del moralismo, del “virtuismo”, che in taluni ambienti è diventato un vero e proprio mito idolatrico, dell’attivismo, dell’obbligatorietà dell’impegno “sociale”.
Quanto sia possibile manipolare ed illudere le “anime belle”, può essere illustrato da un episodio, che è un esempio tipico di una “intelligente” operazione di “trasbordo ideologico inavvertito”, mediante il quale le persone vengono sedotte ad una “via sostituita”, come la chiamava un tempo un esoterista francese. Tale voie subtituée non è altro che un deviare i ricercatori sinceri, ma troppo ingenui, su un “binario di scambio”, e poi su un “binario morto”. Indi poscia, al treno viene pure staccata la locomotiva, in attesa che poi dalle alture circostanti – come direbbe il mio ottimo e sapiente amico C. – scendano gli Apache Chiricahua a fare scempio dei malcapitati e lauto bottino. L’intelligente autore di cotale “nobile” (si fa per dire…) impresa – perfettamente riuscita – anni fa, affermò ai suoi fidenti ascoltatori che, in questa epoca, non è più tempo di giungere all’esperienza della Soglia individualmente. Ciò, a suo dire, non sarebbe più necessario, e sarebbe anzi eccessivamente pericoloso. Alla Soglia, e al suo superamento si può giungere comunitariamente, ovvero “tutti insieme appassionatamente”, come nel bellissimo film di Robert Wise, con Julie Andrews e Christopher Plummer. In luogo del troppo austero e silente Rito della meditazione in comune, indicato da Massimo Scaligero, vennero proposte al fidente gruppetto, trasformato in un “Club di Lettura e Conversazione”, delle più interessanti “sedute di autocoscienza”, in stile anni sessanta.
Quanto, in luogo dell’audace ricerca della Via assoluta, certi “surrogati” siano ben miseri, e certi “rimedi” proposti siano dei narcotici illudenti e dei placebo sempre meno efficaci, lo affermò già 2600 anni fa Laotzu, con parole che più eloquenti e chiare non si potrebbe, per es, nel XXXVIII capitolo del Taotehking, ove dice:
« XXXVIII – SULLA VIRTU’
La virtù somma non si fa virtù per questo ha virtù, la virtù inferiore non manca di farsi virtù per questo non ha virtù. La virtù somma non agisce, ma non ha necessità di agire; la virtù inferiore agisce, ma ha necessità di agire. La somma carità agisce, ma non ha necessità di agire; la somma giustizia agisce, ma ha necessità di agire; il sommo rito agisce, e se non viene corrisposto si denuda le braccia e trascina a forza. Fu così che, perduto il Tao, venne poi la virtù; perduta la virtù, venne poi la carità; perduta la carità, venne poi la giustizia; perduta la giustizia, venne poi il rito: il rito è labilità della lealtà e della sincerità e foriero di disordine».
Oggi, pur di non affrontare l’impresa spirituale, si giunge in maniera insana e improvvida ad attuare, con una alchìmia inversa e perversa, a trasmutare, anzi a degradare, l’oro della Sapienza in volgarissimo piombo, quando non in strame. E invece di cogliere l’invito, del sapientissimo Maestro del Celeste Impero, Laotzu, di esser «dritti nel curvo, interi nel frammento», si fa di tutto per esser curvi nel dritto e di mandare in frantumi l’intero, ciò che, nella essenza spirituale, è uno.
Ma per chi cerchi di conoscere la realtà – yathâbhûtam, ossia “così com’è” – e non i sogni, che prima o poi da rosei e consolanti si trasformano in incubi opprimenti e disperanti – l’unica Via, la Via vera, la Via per “conoscere se stessi, gli Dèi, l’Universo e la Natura”, è la Via del Pensiero, la Via della Concentrazione. Da essa scaturisce la Conoscenza folgorante delle “cose che sono e non appaiono”, la Conoscenza liberatrice e risvegliatrice dal millenario sonno, dall’abietto servaggio dell’anima alla tombale prigione corporea.
È verissimo che la Via dell’Ascesi pensante è dura, che la Concentrazione è una pratica decisamente non grata alla natura caduta dell’uomo, che ad essa si ribella e si sottrae in ogni modo possibile, ma è altresì vero che tale Via «eroica» è l’unica terapia, l’unica Via di salvezza per l’uomo, che rischia la degradazione nel subumano e lo sfracellarsi nell’abisso. Surrogati e rimedi palliativi sono come dare su una nave che, sull’oceano in tempesta, sta affondando, ansiolitici, sedativi e sonniferi a chi rischia di affogare tra le onde, e sia nell’angoscia per tema di dover affrontare vigorosamente le onde.
Nella prima edizione, ormai introvabile, dell’Avvento dell’Uomo Interiore, Massimo Scaligero pose, nella seconda di copertina, queste parole, che sono una mirabile sintesi dell’intera Via del pensiero. Queste parole del Maestro, purtroppo, non vennero riprodotte nella riedizione, apparsa negli anni settanta dello scorso secolo, come L’Uomo Interiore ad opera delle Edizioni Mediterranee. Le trascrivo per offrirle alla diligente meditazione degli amici innamorati della Via Vera, e della Concentrazione:
«Chiave del senso della presente epoca e del valore attuale della Iniziazione, quest’opera è dedicata a coloro che hanno ancora il coraggio di volere l’uomo. Viene indicata una «via spirituale» che, mentre è di là dalle tradizioni, attinge a un segreto e imperituro insegnamento: che un tempo agì attraverso le metafisiche dell’Oriente, oggi opera, inconosciuto, nell’anima dell’occidente, per chi giunga a scorgerla. La tecnica dell’esperienza soprasensibile descritta in questo volume già reca in sé quanto di essenziale operò nello Yoga, nel Taoismo, nella «via» del Buddha, nello Zen nel Tantrismo, ma si trae precipuamente dall’attivazione di un ulteriore elemento interno, che può sorgere soltanto nello svincolamento del pensiero razionalistico e astratto dai contenuti finiti e sensibili, valsi unicamente alla sua formazione. Per l’uomo moderno, è questo pensiero disanimato, che, risorgendo come magica forza , diviene veicolo della resurrezione cosciente del «sopranaturale» in lui, epperò virtù risolutrice degli urgenti problemi del tempo».
Grazie. Un caffè a mezzanotte.
Cavoli, speriamo che tu abbia potuto dormire!
No: appunto!
Mi dispiace Francesco….. Puniro’ Hugo a mio modo come merita! Nel frattempo pero’ mi sa che e’ arrivato un caffe’ espresso doppio! Eh eh! Povero Hugo! La mia punizione allora la rimando!
Tranquilla Savitri, ora a Isidoro glielo servo io un caffè al fiele, e non al miele! Glielo cucino io un bel caffè!
Hugo Terribilissimo,
che più terribilissimo non si può,
nemmeno col candeggio!
Come no! Un caffè corretto da cicuta, oleandro, tasso e aconito: minimo sindacale!!
Dico io: buon signore pure lei si ostina in questa egoica presunzione che, in verità, rende Eco così sgradevole.
Ma lei, sì lei, si rende conto che le sue bizzarre argomentazioni contrastano con grandissima parte di sentimenti e valori che animano i cultori dell’antroposofia e in pratica, offendono le incorrotte anime di chi si dedicò (e continua a dedicarsi) con evangelico amore all’insegnamento dell’Iniziato vissuto a Roma?
Già la vedo controbattere, avendo riportato nel suo offensivo articolo, righe su righe di Scaligero…Ma questo che vorrebbe significare?
A molti di noi quelle righe piacciono assai poco o niente affatto: sono dunque invalidate da ciò che sente la nostra anima…perciò dovrebbe esserle chiaro che per noi sono nient’altro che nebbia, fastidiosa nebbia.
Avvertiamo chiaramente il suo intento polemico, la sua aggressività, il suo tentativo di elevarsi al di sopra degli altri e – devo ripetermi – il suo egoismo. Questo è quanto e altro non c’è.
Detto ciò, per noi lei resterà sempre e comunque un amico, la pecorella smarrita che sapremo attendere sino al momento in cui saprà dismettere l’orgoglio per aprirsi alla gentilezza, alla bontà e all’umiltà del cuore e sarà pronto per entrare nella comunità spirituale che indefessamente coltiviamo.
mmmh…l’Isidoro sembra essere tornato dalle vacanze con i canini ben intinti nel curaro…Salute!!
povere nuore e poverissime suocere…
Veeraj, non devi preoccuparti dei “canini” intinti nel curaro d’Isidoro, quanto dei “lupini” di Hugo, che in questo periodo ha la cattivonite acuta!
Hugo Cattivissimo
sento gli ululati da qui!
Buffissima è Lei, Donna Savitri!
Hugo
Ma Isidoro, dai tempo al tempo e vedrai che Hugo si addomestichera’ con tanto tuo amore che trabocca da ogni capello della tua testa!
Poffarbacco! Per dindirindina! Per le trippe del gran Sacripante, come esclamava nelle situazioni di stupore Kit Carson, il fedele e alquanto caustico “pard” del grandissimo Tex Willer! Pare ch’io sia oggetto dei “dolci” rimproveri e dei nobili tentativi di “moral riforma” – “correctio fraterna”, la chiamava l’Aquinate – da parte del nostro ottimo Isidoro il quale, come direbbe il mio amato Dante, “d’ogni virtù è carco”, e che “poscia il pasto ha meno fame che pria”!
Conciosiacosacché ben conviene che mi faccia un esame della poca lupesca coscienza che mi ritrovo, ed ascolti eziandio voci benevole e malevole, ovverossia di amici (dai quali mi guardino gli Dèi…) e di nemici (ai quali penso e “provvederò” diligentemente io…).
In effetto, negli ultimi anni – per tacer degli ultimi sette lustri – ho avuto l’onore di essere oggetto delle “attenzioni” non precisamente benevole di una serie di personaggi, il livello dei quali è pari a quello di quei gentiluomini di mare, che gli ufficiali della Regia Marina di S.M. Britannica, nei passati secoli, erano usi impiccare all’albero di trinchetto dei loro agili e veloci vascelli.
O, come direbbe il mio sapientissimo nonché ottimo amico C., cotesta gentaglia sono dei “bandoleros” della Sonora, dei “desperados”, dei “pirati della filibusta”, dei “comancheros” che vendono i winchesters agli Apache Chiricahua e Mescaleros fuggiti dalle riserve, indifferenti come poi tali winchesters verranno usati, ad es. contro pacifici coloni!
Ma come usa dire, non tutto il male vien per nuocere, e talvolta l’insulto, in origine voluto sanguinoso, può talvolta suonare graditissimo e lusingare alquanto la lupesca vanità d’un unnico lupaccio della steppa.
Oralmente – il più delle volte, “more jesuitico”, rigorosamente alle spalle – ma negli ultimi tempi persino su alcuni “asocial network” e “forum”, fu scritto e urlato ch’io non sarei cristiano: verità, questa, semplice e piana. Fu detto e scritto ch’io sarei un reprobo e impenitente pagano: vero anche questo, e in tal pravità sono in compagnia di Omero, Virgilio, Esiodo, Pitagora, Platone, Apuleio, Plutarco, Porfirio, Giamblico, Ottaviano Augusto, Giuliano Imperatore ed altri Spiriti magni, per fare solo qualche nome di soci dell’affollato Club. Che sarei ammiratore del paganaccio Arturo Reghini: vero anche questo. E per peggiorare la mia malafama, confesso che sono stato e sono amico di suoi cari amici, alcuni oramai passati per motivi anagrafici ai Campi Elisi, altri tuttora felicemente viventi. Dicono e scrivono altresì ch’io sarei induista, buddhista e persino taoista: non merito – troppo buoni! – cotanta lode, ma prometto che in futuro scuoterò la mia indolenza, e mi sforzerò ad ogni possa di meritare ancor più tali lusinghieri insulti!
Mi consola il fatto che Massimo Scaligero, sin dai primi incontri, mi invitasse costantemente ad approfondire – alla luce della Via del Pensiero Vivente – lo studio meditativo di correnti spirituali d’Oriente come le Upanishad e lo Yoga, il Buddhismo originario e Mahayana, il Taoismo, il Ch’an e lo Zen, ed altre sapienti tradizioni del misterioso Oriente, indicandomi testi, o fornendomene lui stesso. Addirittura, egli giunse a dirmi – rendendo felicissimo il mio lupesco cuore – che, un giorno, si tornerà al Politeismo. Nonché altre cosucce “sulle quali il tacere è bello!”.
Quel che mi lascia non poco perplesso, è il fatto di venire da taluni immeritatamente accomunato in tali accuse e ingiurie – con curiale abilità, e con la prudenza dei vili, mai messe per iscritto, o proclamate pubblicamente a gran voce – con Massimo Scaligero. La persona – la stessa che ad un fidente gruppo di suoi estatici ascoltatori propose, in luogo del da lui deriso e ripugnato Rito della silente meditazione in comune, la pratica delle “sedute d’autocoscienza” per giungere, “tutti insieme appassionatamente”, a superare la Soglia del Mondo spirituale – affermò, senza infingimento veruno, di fronte a me, in casa mia, a tavola, “oretenus”, ossia unicamente “suae oris verbis”, non soltanto che la “la Via di Massimo Scaligero è incompleta e superata”, ma, parlando per sei ore in quella occasione ed altre sei in una successiva, affermò che “Massimo Scaligero – e la sua Via pure – era orientale, yoghico, buddhista, ingiustamente distaccato dal mondo, unicamente contemplativo e non pratico”, e che “nella sua Via mancava il Logos, e mancava il Graal”, e che era necessario distogliersi da una cotal errata Via, per seguire invece quella “via dell’anima”, da lui invece devotamente raccolta da diversa ed altissima fonte e, con curiale prudenza, rivelata e trasmessa a pochissimi a ciò “maturi” e “degni”. Delle sue affermazioni, di tali enormità, sono state e sono testimoni le mie orecchie, il mio cuore, la mia fedele memoria, e la mia coscienza. E tralascio di riferire le affermazioni ingenerose, calunniose, e falsissime di costui circa il carattere, l’intelligenza, l’ascesi, la moralità, e la vita personale di Massimo Scaligero.
Ora, avendo fatto amplissima esperienza sulla mia propria lupesca pellaccia, delle “tenere” e “compassionevoli” attenzioni di tali predicatori della più eccelsa moralità, delle preclare, e necessarissime, “virtù”, che scaturiscono da sì mirabile “via dell’anima”, pubblicizzata per ogni dove sino all’asfissia, contro i pericoli di una, a loro dire, unilaterale, “sublimamente egoistica” Via del Pensiero, di una “esagerata” pratica della Concentrazione, di una “troppo austera”, “insopportabile”, Via dello Spirito, sono estremamente riluttante a seguire i loro consigli e precetti.
Dopo aver poi osservato, inoltre, le medesime “attenzioni” rivolte nei confronti di altre persone, le quali, non essendo lupacci pieni di riprovevoli difetti, non sempre hanno potuto efficacemente difendersi da tanto “caritatevoli” affettuosità, persone che hanno dovuto sperimentare ingiurie, calunnie e diffamazioni, ostracismo, congiura del silenzio, terra bruciata, distruzione delle amicizie e talvolta dei rapporti familiari, mi viene in mente il beffardo invito che il Sapiente ed Iniziato Enrico Cornelio Agrippa mette in bocca ai preti, ai monaci e ai prelati del suo tempo (ma da allora le cose non son cambiate, se non in peggio…): “Popolo, TU non rubare!”.
Allora, mio ottimo Isidoro, non è più savio seguire il sapiente adagio dei nostri padri, i Latini, i quali affermavano che “melius esse quam videri”? Ora, se come, appunto, affermavano i nobilissimi Latini, che “l’essere è meglio del sembrare”, e se infinite volte Massimo Scaligero ci ammoniva “ad apparire come realmente siamo, e ad essere quali appariamo”, a che le ipocrite recitazioni moralistiche di tanti sepolcri imbiancati? A che pro’ prender lezioni da quanti amano ben predicare e ancor più razzolare malissimo? Cosa possono mai insegnare di vero e di commendevole dei gaglioffi e pendagli da forca, che son spergiuri, più di Horatio Nelson, più falsi del Marchese di Talleyrand, che lo stesso Napoleone definiva “un mucchio di letame in una elegante calza di seta”? E perché mai farsi impressionare da “gentiluomini”, compassati e con l “aplomb” di un Principe Consorte, che non indietreggiano di fronte ai tradimenti dei patti di fede giurata, al mancare alla parola data, alla menzogna e alla calunnia, al furto con destrezza, all’occultamento del testamento del Maestro, alla falsificazione della sua opera, alla manipolazione di individui e di famiglie, alla seduzione, al disorientamento e alla disgregazione di Comunità spirituali?
Isidoro, ma devo mettermi davvero anch’io a recitare ipocritamente atteggiamenti buonisti e compassati, ad ostentare mitezza, imperturbabilità di facciata, gentilezza, umiltà di cuore, stucchevole bontà, e pelosa carità parrocchiale?
Ma se così facessi, ci sarebbe in Appennino e nelle sconfinate steppe d’Asia, una micidiale epidemia di lupi e di Unni morti dal ridere!
Hugo, ch’affamato
or lesto s’appresta
ad un ricco piatto
a fare degna festa.
Affamato come un lupo,
sarò sfamato come un pupo.
Amava ironicamente ripetere il mio amato e cattivissimo Arturo Reghini il detto un po’ futurista e un po’ “dada”:
BUON DIO,
COM’E’ NOIOSA,
LA GENTE VIRTUOSA,
QUANDO PREDICA
MORAL!
Hugaccio,
ch’or al sacro desco,
del ricco pasto
ei s’appresta
a far orrendo spaccio
Se Morale fosse il nome di un vento proveniente da (direzione) sovrasensibile, questo articolo, con le parole di Scaligero, sarebbe (e lo è) un portentoso schiaffo di vento Morale. Infinite grazie.