I FONDAMENTI PSICOLOGICI DELL'ANTROPOSOFIA…

Rudolf Steiner cop

I FONDAMENTI PSICOLOGICI DELL’ANTROPOSOFIA E LA SUA POSIZIONE RISPETTO ALLA TEORIA DELLA CONOSCENZA (*)

Rudolf Steiner

Sia detto innanzi tutto senza riserve che quella che si è usi chiamare scienza dello spirito, già per quanto riguarda il concetto di conoscenza, solo difficilmente può essere messa sullo stesso piano di quella che oggi sembra essersi affermata come l’idea di scienza e conoscenza, idea che è stata tanto ricca di benedizioni per la civiltà umana, e che indubbiamente continuerà anche in futuro ad esserlo.

Gli ultimi secoli hanno portato a considerare come scientifico tutto ciò che può essere senz’altro dimostrato, sempre e da tutti, mediante l’osservazione, l’esperimento e la loro elaborazione da parte dell’intelletto umano. Inoltre dai dati scientifici si deve escludere tutto ciò che presenta un significato solo nell’ambito delle esperienze soggettive dell’anima umana.

Non si potrà negare che il concetto filosofico di conoscenza si sia già da molto tempo adeguato all’atteggiamento scientifico ora caratterizzato. Ciò risulta con la massima chiarezza dalle disamine, in uso all’epoca nostra, sull’oggetto di una possibile conoscenza umana, e sui limiti che questa conoscenza deve riconoscere come suoi.

Sarebbe superfluo qui voler documentare una tale affermazione, dando un abbozzo di tutti gli studi fatti oggi dalle varie filosofie. Queste presuppongono tutte che il concetto del processo conoscitivo sia da determinarsi mediante il rapporto dell’uomo col mondo esterno: e che poi, sulla base di questo concetto, si possano delineare i contorni di ciò che è raggiungibile su base scientifica. Per quanto diverse possano essere le varie correnti gnoseologiche, purché si prenda in sufficiente considerazione la caratteristica di cui sopra, si potrà scoprire nella detta caratteristica il lato comune di tutte queste correnti filosofiche.

Ora, il concetto di conoscenza della scienza dello spirito è tale che sembra contraddire a quanto è stato caratterizzato ora. La scienza dello spirito intende la conoscenza come un qualcosa che non risulta direttamente dall’esame del rapporto fra l’uomo e il mondo esterno.

Sulla base di dati sicuri della vita dell’anima, la scienza dello spirito crede di poter affermare che la conoscenza non sia qualcosa di compiuto, di conchiuso, ma sia fluida e suscettibile di sviluppo. Crede di poter additare, dietro alla sfera della normale cosciente vita dell’anima, un’altra sfera in cui l’uomo può entrare. Ed è necessario sottolineare che con quest’altra sfera della vita dell’anima non si intende quella che oggi si è soliti designare come subcoscienza.

La subcoscienza può essere oggetto dell’indagine scientifica: da un punto di vista degli usuali metodi di indagine, essa può diventare oggetto di esame, come lo sono gli altri fenomeni naturali ed animici. Ma la subcoscienza non ha nulla a che fare con quella condizione dell’anima di cui intendiamo parlare qui. In questa condizione l’uomo vive altrettanto cosciente e con altrettanto controllo logico, quanto entro l’ambito della coscienza ordinaria.

Solo che questa condizione deve prima prodursi, mediante determinati esercizi, mediante determinate esperienze dell’anima. Non si può senz’altro premetterla, come un dato dell’entità umana: in questa condizione dell’anima si manifesta quello che può essere designato come un ulteriore sviluppo della vita animica umana: in questo ulteriore sviluppo, però, il controllo di sé e gli altri segni distintivi della vita cosciente non vengono meno.

Ora io vorrei prima caratterizzare questa condizione dell’anima, e poi mostrare che quanto in essa si consegue può essere inserito nei concetti conoscitivi del nostro tempo. Mio primo compito sarà dunque di descrivere, sulla base di un possibile sviluppo dell’anima, i metodi della corrente spirituale di cui qui si tratta. Questa prima parte della trattazione potrà chiamarsi:

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I

Un metodo scientifico spirituale

fondato su determinati possibili fatti psicologici

Quanto andremo esponendo è da intendersi come una serie di esperienze dell’anima, attuabili purché nell’anima umana si producano determinate condizioni. E solo dopoché siffatte esperienze dell’anima saranno descritte, si potrà provarne il valore conoscitivo.

Si tratta di intraprendere quella che possiamo designare come una disciplina dell’anima.

Innanzi tutto si dovranno considerare da un punto di vista nuovo i contenuti dell’anima a cui normalmente si attribuisce solo un valore di immagini della realtà esterna. Nei concetti e nelle idee, l’uomo intende per lo più avere un quid che possa riprodurre o almeno significare ciò che sta al di fuori di tali concetti o idee.

Ma chi fa indagini spirituali, nel senso inteso qui, cerca dei contenuti animici che, pur essendo simili ai concetti e alle idee della vita ordinaria, o dell’indagine scientifica, non vengono da lui scelti per il loro valore conoscitivo, per il loro riferimento ad alcunché di oggettivo: bensì egli fa vivere questi contenuti nella sua anima come forze attive.

Li immerge, per così dire, come semi spirituali nel terreno della vita dell’anima, e attende con tranquillità assoluta che essi esplichino la loro azione su di essa. Così egli può osservare che, mediante il ripetersi di esercizi siffatti, la costituzione dell’anima effettivamente si muta: sia detto esplicitamente che quello che conta qui è il ripetersi dell’esercizio.

Infatti non è che nell’anima, mediante un contenuto concettuale, si attui un processo conoscitivo, come avviene solitamente: bensì, nella vita dell’anima, ha luogo un divenire reale. In questo divenire i concetti non operano come elementi conoscitivi, ma come forze reali: la loro azione si fonda sul fatto che la vita dell’anima viene ripetutamente afferrata sempre dalle stesse forze. E un tale effetto sull’anima non si ottiene essenzialmente mediante l’esperienza concettuale ma mediante la ripetuta azione sull’anima delle medesime forze.

A tale scopo si fanno perciò in genere, per un periodo di tempo abbastanza lungo, delle meditazioni sempre sul medesimo contenuto, le quali vengono ripetute in determinati momenti. La durata della meditazione non ha molta importanza. Può anche essere breve, purché si svolga nella quiete assoluta dell’anima e nel totale isolamento di questa da tutte le impressioni del mondo esterno e da tutta la consueta attività intellettuale. Quello che conta è l’isolarsi dell’anima in se stessa col contenuto di cui si è parlato.

E ciò sia detto esplicitamente, in quanto deve essere chiaro che, intraprendendo siffatti esercizi, l’andamento ordinario della vita non deve essere per nulla turbato. Per questa disciplina, ogni uomo normalmente ha a sua disposizione il tempo necessario. E il mutamento che essa produce, se esercitata correttamente nella vita dell’anima, non influisce affatto sulla struttura della coscienza necessaria all’uomo per una vita normale (che poi talvolta, a causa della loro stessa natura, gli uomini esagerino o facciano stranezze e ne consegua un danno, non può mutare per nulla la nostra visione sulla cosa stessa).

Per un siffatto trattamento dell’anima, i concetti consueti non sono in linea di massima molto usabili. Tutti i contenuti concettuali che si riferiscono spiccatamente a qualcosa di oggettivo situato fuori di loro, hanno uno scarso effetto per gli esercizi in questione. Sono invece da prendersi in particolare considerazione quelli che possiamo designare come concetti simbolici, come simboli. E utilissimi sono quelli che si riferiscono, in modo vivo e denso di sviluppi, ad un contenuto molteplice.

Buona per questa esperienza è per esempio quella che Goethe chiamava l’idea della pianta primordiale. Di questa pianta pianta primordiale egli tracciò una volta, in occasione di un suo colloquio con Schiller, con pochi tratti, un’immagine simbolica. E disse anche che chi fa vivere nella sua anima questa immagine, trova in essa qualcosa che permette di concepire, mediante legittime modificazioni, tutte le possibili forme di piante, tutte le forme vegetali che portano in sé la possibilità dell’esistenza. Qualunque cosa si pensi sul valore conoscitivo oggettivo di una siffatta simbolica pianta primordiale, se come si è detto, la si fa vivere nell’anima, se si attende tranquillamente l’effetto della sua azione sulla vita dell’anima, allora ecco che subentra quella che possiamo chiamare una disposizione mutata dell’anima.

Le rappresentazioni simboliche che la scienza dello spirito ritiene utilizzabili per questo scopo, potranno talvolta apparire assai singolari. Da un tale fatto però si può prescindere, se si riflette che tali rappresentazioni non devono essere prese, come di consueto, per il loro valore di verità, bensì se si tiene conto che esse operano sull’anima come forze reali. Chi fa indagini spirituali non dà valore a quello che questi simboli significano, ma a quello che, per loro influsso, si sperimenta nell’anima. Naturalmente qui si possono dare solo pochi esempi di simboli in tal senso efficaci.

Si pensi per esempio, in immagine, all’entità umana, in modo che il rapporto fra la natura inferiore dell’uomo, affine all’animale, e l’uomo stesso quale essere spirituale, venga espresso simbolicamente mediante la figura di un animale a cui sovrasta una figura umana altamente idealizzata (per esempio mediante una figura simile al centauro). Quanto più immaginativamente e denso di contenuto è il simbolo, tanto meglio è. Questi simboli, nelle condizioni sopra menzionate, operano sull’anima in modo che questa, trascorso che sia un tempo sufficientemente lungo, sente in se stessa rafforzarsi, mettersi in moto e vicendevolmente illuminarsi i processi vitali interiori.

Un simbolo antico, adatto allo scopo, è il cosiddetto caduceo, ossia l’immagine di una retta intorno a cui si svolge una curva a spirale. Occorre veramente rappresentarsi questa immagine come un sistema di forze: come se lungo la retta scorresse un un sistema di forze, a cui corrispondesse nella spirale, secondo determinate leggi, un altro sistema, di velocità relativamente minore (in concreto, si può aiutarsi rappresentandosi la crescita del fusto di una pianta e il germogliare lungo di esso delle relative foglie; oppure l’immagine dell’elettromagnete. Similmente possiamo anche rappresentarci l’immagine dell’evoluzione umana: le facoltà che si sviluppano nella vita sono simboleggiate dalla retta e la molteplicità delle impressioni corrisponde alla spirale).

Particolarmente significative possono essere le figure matematiche, in quanto vi si possono vedere dei simboli di processi universali. Un buon esempio è la cosiddetta curva del Cassini con le sue tre varianti: la forma simile all’ellissi, la lemniscata e la forma che consiste di due rami interdipendenti. In questo caso quello che conta è di far vivere in sé l’immagine, in modo che il passaggio da una forma all’altra, effettuato secondo leggi matematiche, corrisponda nell’anima a determinati sentimenti.

A tali esercizi se ne aggiungono altri. Anche questi consistono in simboli, che però corrispondono a rappresentazioni da esprimersi in parole. Si pensi alla saggezza che vive e opera nell’ordinamento del mondo, simboleggiata dalla luce. E si pensi alla saggezza che si manifesta nell’amore sacrificale, simboleggiata dal calore generato in presenza della luce. Si pensino delle parole coniate su tali rappresentazioni, che abbiano perciò solo un carattere simbolico. L’anima può abbandonarsi ad esse nella meditazione.

Il successo dipende in sostanza dal grado di tranquillità e di isolamento che l’uomo raggiunge nell’anima mediante l’immersione in un tale simbolo. Il successo consiste nel sentire l’anima come sollevata fuori dall’organizzazione corporea.  Subentra in essa come una trasformazione del suo senso dell’esistenza. Come nella vita normale l’uomo sente la sua vita cosciente unitaria specificarsi secondo le rappresentazioni derivate dalle percezioni dei singoli sensi, così in conseguenza di questa disciplina, l’anima si sente pervasa da un’autoesperienza i cui elementi mostrano confini meno netti che non, per esempio, le rappresentazioni dei colori e dei suoni entro l’ambito ordinario della coscienza.

L’anima ha l’esperienza viva di potersi ritirare in una sfera della vita interiore di cui va debitrice al buon successo degli esercizi e che, prima che fossero stati intrapresi, era un vuoto, era un alcunché di impercepibile. Prima che si possa raggiungere una tale esperienza interiore, hanno luogo nell’anima vari mutamenti. Uno di questi è annunziato da un notevole prolungarsi – ottenuto con l’esercizio – del momento in cui l’uomo si desta dal sonno.

Allora egli è in grado di sentire chiaramente che da un quid, prima ignoto, penetrano ora nella struttura dell’organizzazione corporea delle forze ben determinate. Egli sente, come in una rappresentazione mnemonica, l’eco dell’azione esplicata da questo quid, durante il sonno, sull’organizzazione corporea. Se poi l’uomo acquista anche la facoltà di sperimentare un siffatto quid dentro la propria organizzazione corporea, allora gli risulta evidente che il rapporto  fra questo quid e il corpo è diverso durante la veglia e durante il sonno. Allora egli non può dire se non che questo quid durante la veglia sta dentro al corpo e durante il sonno sta fuori. Non bisogna però connettere questo fuori e questo dentro con le consuete rappresentazioni spaziali: bensì bisogna designare per loro mezzo le esperienze specifiche che l’anima fa, quando abbia compiuto la sopra menzionata disciplina.

Gli esercizi sono di natura intimamente animica, e per ogni uomo si configurano in forma individuale. Principiati che siano, l’individuale risulta da una determinata prassi dell’anima che ne deriva. Ma quella che si manifesta con assoluta necessità è la positiva consapevolezza di una vita situata in una realtà che, rispetto all’organizzazione corporea esteriore, è autonoma e di natura soprasensibile. Per semplificare, chiameremo iniziato chi aspira a siffatte esperienze dell’anima.

L’iniziato si trova di fronte alla precisa consapevolezza, sottoposta ad esatto controllo, che alla base dell’organizzazione corporea sensibilmente percepibile sta un mondo soprasensibile, e che in quel mondo è possibile sperimentare se stesso, come alla coscienza normale è possibile sperimentare se stessa entro l’organizzazione fisico-corporea. Qui possiamo solo accennare in linea di principio a tali esercizi. Un’esposizione particolareggiata di essi si trova nel mio libro L’iniziazione.

Mediante un adeguato proseguimento degli esercizi, questo quid ora caratterizzato, passa ad una condizione in certo modo organizzata spiritualmente. Allora alla coscienza risulta evidente di essere in rapporto con un mondo soprasensibile come, mediante i sensi, essa è in rapporto conoscitivo col mondo sensibile. E’ ben naturale che gravi dubbi possano sorgere riguardo l’asserzione di un tale rapporto conoscitivo fra la parte sovrasensibile dell’entità umana ed il mondo sovrasensibile circostante. Si può tendere a relegare tutto quanto in tal modo si sperimenta, nella sfera dell’illusione, dell’allucinazione, dell’autosuggestione, ecc.

Naturalmente, una confutazione teorica di siffatti dubbi deve essere in fondo impossibile. In questa sede infatti non può trattarsi di una discussione teorica intorno all’esistenza, o meno, di un mondo soprasensibile, ma solo di possibili esperienze e percezioni che si presentano alla coscienza proprio nello stesso modo come si presentano le percezioni trasmesse dagli organi di senso esteriori. Non si può perciò raggiungere per il mondo soprasensibile nessun altro genere di cognizioni se non quello che l’uomo ha del mondo dei colori e dei suoni.

Bisogna però tener presente che se si fanno questi esercizi correttamente, e soprattutto senza che mai l’autocontrollo venga meno, la diversità tra la rappresentazione del sovrasensibile e la percezione di esso risulta per esperienza diretta con altrettanta certezza quanta ne risulta, nel mondo dei sensi, tra la rappresentazione di un ferro rovente e un ferro rovente toccato realmente. Proprio riguardo al divario fra allucinazione, illusione e realtà sovrasensibile, l’iniziato, coi suoi esercizi, acquista una pratica quanto mai infallibile. Naturalmente però,  l’iniziato deve andare cauto, e deve essere altamente critico nei confronti di ogni sua osservazione soprasensibile.

Ed effettivamente non si deve mai parlare di risultati positivi dell’indagine sovrasensibile, se non con la seguente riserva: sono state fatte delle osservazioni e la critica, esplicata al riguardo con ogni cautela, autorizza a supporre che chi sia in grado, mediante esercizi adeguati, di mettersi in rapporto col mondo sovrasensibile, farà anch’egli le medesime osservazioni. Che poi, nelle comunicazioni fatte dai diversi iniziati possano presentarsi delle differenze, ciò non può spiegarsi se non analogamente a quando dei viaggiatori diversi danno notizie differenti intorno ai luoghi che hanno visitato e descritto.

Nel mio libro L’iniziazione, accordandomi con la consuetudine di coloro che si sono rivelati iniziati nel medesimo campo, ho chiamato mondo immaginativo quel mondo che, nel senso ora descritto, emerge sull’orizzonte della coscienza. Questo termine, però, usato esclusivamente in senso tecnico, non è assolutamente da confondersi con quanto potrebbe alludere ad un mondo puramente immaginario. Qui il termine immaginativo sta solo ad indicare la qualità del contenuto animico. Nella forma, questo contenuto animico è simile alle immaginazioni della coscienza ordinaria: solo che, nel mondo fisico, un’immaginazione si riferisce ad un reale sensibile: mentre le immaginazioni dell’iniziato sono da attribuirsi altrettanto univocamente ad un reale sovrasensibile. Il mondo immaginativo e la sua conoscenza però, sono solo un primo passo sulla via dell’iniziazione. Per mezzo loro si può sperimentare soltanto il lato esterno del mondo soprasensibile.

Occorre ora fare un altro passo, il quale consiste in un approfondimento della vita dell’anima oltre quanto è stato effettuato col primo passo. Concentrandosi rigidamente sulla vita che gli si presenta nell’anima per opera dei simboli, l’iniziato deve ora acquistare la facoltà di allontanare totalmente dalla sua coscienza il contenuto dei simboli. Mediante una specie di astrazione reale, il contenuto rappresentativo deve ora essere eliminato, e solo la forma dell’esperienza deve permanere. In tal modo il carattere simbolico irreale della rappresentazione, che ha un significato per l’evoluzione dell’anima solo come stadio di transizione, viene rimosso: ora la coscienza prende come oggetto di meditazione l’attività interiore stessa dell’anima. Quello che di un tale processo è possibile descrivere, è, rispetto all’esperienza reale dell’anima, come una debole ombra rispetto all’oggetto che la proietta. Quella che dalla descrizione risulta come una parvenza dell’esperienza reale, acquista il suo significativo effetto tramite la forza impiegata.

La vita così suscitata nell’interiorità dell’anima, può essere chiamata una reale autopercezione. In essa l’interiorità umana impara a conoscersi, non soltanto mediante la riflessione su se stessa, come veicolo delle impressioni dei sensi e della elaborazione concettuale di esse. Bensì il sé impara a conoscersi come esso è, senza alcun riferimento ad un contenuto sensibile: sperimenta sé in se stesso come realtà sovrasensibile. Questa esperienza non è come la consueta auto osservazione dell’Io, nella quale l’attenzione viene distolta dal mondo conosciuto e riflessa sul sé conoscente. In tale caso per così dire si restringe sempre più nel punto dell’Io. Ma non è così per l’autopercezione reale dell’iniziato. Nel corso degli esercizi il contenuto dell’anima si arricchisce in lui sempre più e vive secondo determinate leggi: il suo sé non si sente estraneo alla rete di queste leggi, come lo è per le leggi naturali, estratte dai fenomeni del mondo circostante.

In questa fase della disciplina può presentarsi il pericolo che chi la esercita, a causa dell’insufficienza di un vero controllo di sé, creda troppo presto di aver conseguito il giusto risultato e senta allora come vita interiore quella che non è che una reminiscenza delle rappresentazioni simboliche. Naturalmente ciò è senza valore e non deve essere scambiato per la vera vita interiore che si presenta  al momento giusto, che è veramente riconoscibile a chi consideri che, sebbene essa manifesti una realtà piena, tuttavia non assomiglia a nessuna realtà precedentemente nota.

(*) Dagli Atti del IV Congresso Internazionale di Filosofia – Bologna 1911, Vol. III, pag. 224-227.

(Continua…)

5 pensieri su “I FONDAMENTI PSICOLOGICI DELL'ANTROPOSOFIA…

  1. Due parole su quanto ho trascritto: quello che ora leggete è all’incirca la metà dell’intervento del Dott.Steiner. Oltre una seconda parte ci sarà un ulteriore intervento dell’Oratore sul rapporto tra l’antroposofia e la teoria della conoscenza.
    Il tutto può risultare di difficile assimilazione: però ci si ricordi il coraggio del Dottore nell’esprimere contenuti notevolmente astrusi ad un pubblico di filosofi, ognuno dei quali con la propria costruzione di pensiero e notoriamente ben poco portati alla stranezza di una disciplina interiore che, di fatto, annienta gli edifici (astratti) del pensiero ordinario, anche quello più raffinato…proprio nel carattere della filosofia.

  2. Quante persone (con la S aggiunta?) dovrebbero leggere e rileggere.

    Ma sapete che inizio a pensare che il problema non siano gli studi “sbagliati” ma il pensiero che, troppo spesso, viene spento.

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