Oltre alla evoluzione della specie ora abbiamo anche quella dei fini.
Qualche tempo fa lessi un articolo, di cui riporto, di seguito, le due citazioni in grassetto. L’autore è un estimatore di Vico e considera questi superiore a Bruno.
“Proprio Vico ha introdotto il concetto di “eterogenesi dei fini”, che delinea un accadere il quale va sempre oltre il senso del nostro agire, una continua deviazione dagli intenti degli individui e delle nazioni, come se una Mano invisibile tirasse fili da noi inattingibili.”
Un modo, da un certo punto di vista, giusto, se si vuol riconoscere l’esistenza di un Dio padre creatore e la dipendenza eterna religiosa, totale dell’uomo; ma errato nella misura in cui si vuole a priori relegare l’uomo nella impossibilità congenita di comprendere e partecipare della creazione.
“Il bosone di Higgs è la particella che interagendo con le altre ha permesso che esse assumessero una massa. Cosa non di poco conto perchè se non si fosse verificata non si sarebbe creato l’Universo che ci ospita. Non a caso il linguaggio giornalistico ne parla come “la particella di Dio”.”
Interessante questa potenza dell’uomo di poter sperimentare Dio con una macchina costruita da lui stesso.
Sicuramente si deve dare l’onore alla scienza di voler riunirsi a quella sorgente che dolorosamente le manca, una sorta di identità perduta o genitore mai conosciuto che magari l’ha ripudiata alla nascita.
Là fuori da qualche parte c’è molto vuoto o antimateria, se lo manipoliamo però, non è detto che Dio correrà ai nostri piedi come un cagnolino.
Intanto ogni mattina l’astro per eccellenza sorge, e così pure la sua sposa alla sera.
Le acque sgorgano dalle loro sorgenti come sempre, i fili d’erba, i fiori e le piante nascono dal seno della terra.
Tutte prove di qualcosa di straordinario almeno nella misura in cui non siamo capaci di fare lo stesso.
Non parliamo poi di quel qualcuno il quale ogni volta che si mette a investigare, ad osservare, e a codificare in leggi sacre (fino a che qualcosa di straordinario non viene a correggerle e a sovvertirle) è sistematicamente dimentico di sè mentre si tuffa nell’oggetto mitizzando quest’ultimo così tanto da farsi poi alla fine condurre da esso, per riconoscenza: Viva la Materia!
Ma siamo insaziabili e scontatamente superiori di fronte a ciò che non riusciamo a conoscere, e che fino a prova contraria non ha diritto d’esistere, di essere.
Che un Dio abbia potuto amare tanto da creare noi e il mondo, e noi che a somiglianza sua tentiamo di creare per mezzo del mondo, in virtù di un pensiero che ci è stato donato ma che disconosciamo… è roba da chiesa e da hobby domenicale; intanto è proprio col pensiero che giudichiamo cosa può esistere e cosa no, insomma, ce l’aggiustiamo come ci pare, alquanto pigramente, almeno intellettualmente parlando.
Che una eterogenesi dei fini umani possa dipendere dalla nostra incoscienza di un Logos creatore e di quello umano è impossibile da considerare e contemplare fin tanto che l’uomo gioca con una macchina a cercare di produrre fenomeni automatici esclusivamente dimostrabili con leggi materiali.
Quanto potrà soddisfarci questo metodo, se la fedeltà del quotidiano che ritorna nel sole, nella luna e nelle altre stelle non basta a farci immergere con devozione e gratitudine e con coraggio in quel vuoto sacro che la tradizione perenne non osa nemmeno di nominare come Dio?
Quel che si vorrebbe materializzare e misurare ha del fanciullesco come l’azione del bimbo che immerge le dita credendo di poter toccare la luna che invece è solo il suo riflesso sull’acqua. E allora per non ammettere di voler rimanere bambini, per non riconoscere di essere degli eterni Peter Pan incoroniamo la natura a legge autocratica e dirigente, chiamiamola materia se come prova di sè ogni volta si ribella contro l’uomo, non è cosi’? La responsabilità è sempre di qualcos’altro o di qualcun altro… in mancanza la colpa è anche di un Dio onnipotente… nel frattempo possiamo giustificarci l’eventuale cronico abbandono a qualsiasi omissione o efferatezza.
Crediamo forse di aver materializzato il nostro pensiero quando fu creato il computer? Il pensare bisognerebbe distinguerlo dal pensato, che una volta tale è donato – appunto dato – al mondo, privo della sua sorgente originaria, un dato che non dovrebbe diventare nostro tiranno.
Forse dovremmo svuotare di filtri e condizionamenti logici – da noi creati ma poi morti – il nostro pensare ordinario e unidirezionale, ossia dovremmo svuotarlo di ciò che lo imbriglia e lo zavorra, per poterlo finalmente vedere come è e sperimentarlo indipendente e puro nella coscienza, così come si dona tutto nell’oggetto della scienza quando si immerge e sprofonda nel mondo delle percezioni.
Diventare noi simili a quel vuoto tanto da poterlo conoscere: come dire che dovremmo diventare della stessa natura del vuoto, svuotarci noi stessi.
Poter risalire il riflesso argenteo fino a toccarla veramente la luna… E dalla luna ritrovata contemplare il sole….. questo è il mistero della nostalgia e del dolore dell’anima umana, destinata, se saprà volerlo, ad abbracciare dal piedistallo di falce luminosa tutta la creazione.
Scoprire questo mistero forse ci libererà dalla ferrea legge di natura che crediamo esclusiva pazza conduttrice anche dell’uomo mentre scioccamente, paradossalmente, nello stesso tempo cianciamo e sogniamo di libertà umana.
Finchè ci sottomettiamo scontatamente all’eterogenesi del finalismo di natura, il nostro parlare di libertà rimarrà tale, solo un sentimento, un capriccio, una retorica.
La materia è forma, e quando troveremo ciò che la anima forse l’uomo conoscerà la sua vera natura e la sua vera evoluzione.
Intanto, se crediamo che la materia pensi e non che quest’ultima sia invece un pensato del pensiero, ossia di un pensiero la cui forza una volta conosciuta possiamo sperare di poter dirigere a sanare noi stessi e il mondo, rischiamo di venderci prima di nascere: stiamo infatti per riconoscere in un mero meccanismo economico, da noi all’infinito astrattamente ed empiricamente manipolato, il nostro padrone: se questo è essere umani, logici, e concreti e scientifici …
L’economia è attività in sè pura e giusta, dell’uomo, fintanto che da spirito di giustizia e libertà essa viene generata.
Quando all’attività si concede potere su di noi essa perde la sua caratteristica di armonizzatore sociale.
Attenzione dunque agli sbandieratori di una pura giusta e libera economia a legiferare sugli uomini, è un inganno. Una economia giusta per tutti non può esistere senza “l’uomo” che la diriga.
Mente quindi chi blatera di una classe dirigente economica, finanziaria, apolitica e apartitica: non esiste, mentre vorrebbe invece imporre ai popoli e alle nazioni la sua personale politica, il suo proprio partito di interesse, promettendo come un qualsiasi altro pensiero corrotto, in base a sole demagogia, retorica e dialettica.
L’economia giusta deve essere giusta conseguenza di spirito di giustizia e libertà, ossia di corrispondente attività interiore continua. Questa è l’irrinunciabile Politica di cui improntare la vita sociale.
Oggi invece vogliamo far dipendere dall’economia la possibilità della giustizia e della libertà.
Se non ci svegliamo e non rimaniamo desti la nostra sofferenza per le ingiustizie, le nostre emozioni e i nostri sentimenti saranno manipolati e usati contro di noi dagli stessi cattivi economisti tecnici e banchieri che ora rifiutiamo e contestiamo.
Conclude kantianamente il sostenitore del pensiero di Vico: “Tutto ciò (i limiti dell’uomo) è traducibile in conclusioni operative. Ci dice che siamo tenuti a fare la nostra parte nel processo storico e nella contingenza del periodo che la sorte ci ha assegnato, ma nella consapevolezza che il corso delle cose sarà profondamente diverso da quello per il quale abbiamo operato. Esserne convinti non ci esime dall’impegno e nello stesso tempo è il migliore antidoto al fanatismo.”
Non mi sembra questo un pensiero tessuto di logica bensì di fragili e inconsistenti basi, di fatalismo e ossequio proprio a quella legge dell’evoluzionismo che si vuole contestare, che più che farci considerare solamente umili (l’umiltà non è cosa cattiva in sè) anche rischia di farci disattendere il compito di partecipazione alla costruzione di un nostro sè migliore, di un mondo migliore: con ciò rendendoci ipocriti quando moralisticamente andiamo a criticare coloro che sempre in base a questo assunto kantiano invece che cedere al fatalismo magari si sentono giustificati ad operare anche il male, perché magari chissà, se i buoni nel fare il bene possono causare un male, magari a fare del male si può causare un bene…
Penso che dare attenzione scientifica ai fenomeni per ricavarne loro intrinseche leggi sia insufficiente; stessa attenzione deve darsi al pensare che come minimo dobbiamo riconoscere essenziale nella fase di constatazione e presa d’atto delle cose e del loro corso: senza il pensare non ci accorgeremmo nemmeno dei nostri disagi, dell’impotenza, dell’ inconcludenza, del fallimento, delle delusioni….di noi stessi.
E forse chissà, potremmo scoprire che ad esso, al pensare, non è solo possibile e concesso di prendere atto delle cose ma anche di potere influire sulla realtà.
A quel punto sarà importante mettere da parte il fatalismo perchè magari a sforzarsi un pò sorgerà impetuosa una domanda: E se oltre che a ritenere essenziale per l’uomo l’esercizio della Scienza sui fenomeni dimostrabili materialmente – onde aumentare il bagaglio di conoscenza dell’uomo visibile e dei fenomeni visibili – se accanto a questa Scienza si potesse autonomamente e liberamente applicare un metodo, una Scienza del pensiero, quindi dell’invisibile, di quell’invisibile e immateriale che usiamo inconsapevolmente o automaticamente tutti i giorni solo per incensare e curare il materiale, forse scopriremmo che come contribuiamo (così come stiamo facendo) all’essere dell’attuale economia, in quanto uomini che agiscono e lavorano, forse allo stesso modo possiamo modellarla con consapevolezza questa attività affinchè non finisca sempre di soffocare e asservire l’uomo.
In fondo è proprio una partecipazione incosciente, immatura, che rende malsana l’economia e suscettibile di essere abusata dai tornaconti egoistici e corrotti di persone, istituzioni delegate a dirigere le attività e i governi.
Sarebbe un peccato buttare alle ortiche gli entusiasmi e le buone intenzioni di propositori di alternative economiche quando questi attribuiscono solo a un meccanismo declinato in manuali e leggi economiche, equazioni e parabole, la speranza e il potere di sanare e prevenire gli squilibri. La fragilità delle azioni suddette sarà simile a quella delle azioni degli attuali esperti in carica che contestiamo, perchè in comune avrebbero l’esclusiva fede nei meccanismi ponendo in secondo piano, e/o conseguenti, la giustizia e la libertà.
Più che di appropriazione di materiali e/o imposizione di gestione di determinati meccanismi, quel che conta è la cosciente partecipazione attiva e costante di un pensare risvegliato che può garantire a sua volta nel tempo l’esercizio della forza correttrice delle attivita’ umane e quindi degli stessi meccanismi economici.
Forse la corruzione di dirigenti economici e di popoli non è identificabile e sanabile se prima non si risale alla causa prima che è l’errore del pensiero o la sua imperfezione, perché ad accanirsi sulla corruzione in sè, unicamente in base a leggi date, non si agisce sul nostro pensare errato o atrofizzato, o basato su predeterminatezze, che continuerà a generare l’errore in quanto non considerato e curato nella sua totale potenzialità.
Il denaro in sè non è il male, esso è simbolo di potere di giusto scambio e fraternità; la possibilità del suo male o del suo errore può risiedere nel suo errato ab-uso.
Abbiamo tutti la potenzialità del pensiero. Ognuno dovrebbe sviluppare il proprio.
Gli errori e le sofferenze, i dilemmi sono lì per darci un segno.
Non è troppo tardi.
E davvero siamo liberi, non di fare quello che ci pare, ché questa e’ solo dittatura dell’istinto, bensì di poter scegliere tra diventare uomini nuovi, completi e attivi, e quindi co-creatori del nuovo oppure rimanere gli stessi pigri e pavidi di sempre all’ombra protettiva e sostitutiva del padre a subire quel che i fini casuali della natura (nostra e del mondo) ci impongono perché essa non ha ancora chi, in consapevolezza e autocoscienza, liberamente, l’abbia conosciuta ed amata, ma al massimo, solo fideisticamente, fatalisticamente, accettata e temuta.
Carissima, l’Heterogonie der Zwecke è espressione che incute timore nel lettore: ma se ho capito bene è ciò che capita a un pover’uomo (libero e bello) che vorrebbe solo fare l’amore con una ragazza e si ritrova padre di famiglia! Che orrore!!!
Dico bene o dico sciocco?
E vuoi dirlo a me?
Credo che tu abbia centrato in pieno Isidoro 😀