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Uno dei problemi di coloro che hanno la grandissima ventura di incontrare il Sentiero dell’Iniziazione, l’eterna Scienza dello Spirito, di epoca in epoca sempre diversa e pur sempre a se stessa uguale, è l’oblio di che cosa comporta l’avere incontrato la Via Solare, la dimenticanza degli impegni, che il ricercatore spirituale ha liberamente assunto nei suoi momenti di altezza e di profondità, di intensità e di entusiasmo. Ma tali momenti di altezza e di profondità, di intensità e di entusiasmo vengono facilmente dimenticati, perché «il cuore degli uomini si corrompe facilmente», e la cosa più turpe è il tradimento degli impegni sacri, perpetrato per pigrizia, per svogliata inerzia, per comodità interiore.
Da una parte, in seguito ad una lettura che ha acceso l’anima, una lettura che ha suscitato un moto interiore autentico, l’entusiasta cercatore afferma – giustissimamente afferma – « nel mio cuore vi è una scintilla del fuoco che ha creato l’Universo, io mio Io è tutt’uno con l’Io dei mondi». Poi l’entusiasmo si attenua, si intiepidisce e si spegne, l’intensa lucidità si appanna, l’anima ridiventa opaca e il cuore sordo, e colui che giustamente – per una breve eternità – si era sentito tutt’uno con l’Io dei mondi, si fa vilissimamente portare a spasso, in maniera ridicola, come un cagnolino al guinzaglio, da istinti volgari, brame mediocri, passioncelle piccolo-borghesi, emozioni superficiali, scialbe e scipite. Tutto questo è – a dir poco – ridicolo.
Il fatto è che quella intensità, quella luminosa accensione, quel vivido entusiasmo, erano molto poco una attiva realizzazione ascetica del cercatore: venivano suscitati in lui – ma non da lui – dall’aureo pensiero del Maestro, la cui trama ideante celava – per un suo mirabile dono e attraverso un suo eroico sacrificio – come incantata, una forza celeste, un fuoco segreto, che penetrando nel cuore e nell’anima li accendevano, e chiedevano che colui che li riceveva non si beasse di emozioni soggettive egoisticamente assaporate, bensì avesse forza e coraggio di andare oltre una mera emozione (che è solo la deformazione soggettiva dell’esperienza nella parte superficiale dell’anima), di non fare spegnere quell’entusiasmo e quel fuoco, che volesse attuare – e non assaporare per goderne – quella identità del suo Io con l’Io dei mondi, ovverossia attuare il moto conoscitivo che fa sì che la coscienza di una tale identità col Divino sorga e permanga. Che una tale identità dell’individuale Io umano con l’Io dei mondi, del Jivatman o del Purusha con il Paramatman o col Brahman, indubbiamente sia, è quanto afferma da sempre la Sapienza Eterna in Oriente e in Occidente. Ma che una tale identità sia e basta, e che l’essere umano individuale non ne sia punto cosciente, è una vergogna per ogni asceta operante, un obbrobrio per ogni autentico praticante interiore. Oltre che vergognosa, una tale incoscienza è cosa inutile, e addirittura tragicamente comica.
È perfettamente inutile vivere 23 ore e 50 minuti della propria giornata nella più totale dispersione esteriore e pretendere poi in 10 minuti di attuare la necessaria, più intensa concentrazione interiore. È passabilmente comico, se non ridicolo, vivere quasi interamente la propria giornata come se l’essere umano fosse unicamente un essere corporeo, un essere animale, psichico, nevrotico, affondato nei suoi puerili pregiudizi, agitato dalle sue altalenanti e contraddittorie emozioni, sospinto dalle più oscure e diverse pulsioni istintive, immerso in una visione del mondo mediocre, banale, opportunista, oppure arrampicatrice, cinica, affaristica, politicante, bramosa di potere, ricchezza, di godimento sensuale, e poi – in maniera assolutamente schizofrenica – pretendere di compiere un Rito interiore come la concentrazione o la meditazione, che presuppongono slancio, consacrazione allo Spirito, purificazione dalle sozzure del letame terrestre, accensione della volontà. Questa la grande contraddizione.
D’estate poi, affermava Massimo Scaligero, si attua un vero e proprio «adulterio», un autentico «tradimento» nei confronti dello Spirito. Ancora una volta, è necessario far rilevare che è inutile lavorare interiormente – quando poi tale lavoro venga realmente compiuto – 11 mesi in un anno e poi, ripetendo in senso inverso la fatica della fedele Penelope, devastare e distruggere in pochi giorni, se non in poche ore quel molto, o quel pochissimo, faticosamente conquistato durante un anno di pratica interiore. Magari andando a fare in riviera la parte di patetici “vitelloni” invecchiati . In questo caso, la contraddittoria inconsequenzialità logica rasenta veramente la stupidità!
Sempre Massimo Scaligero sovente ci diceva come quello che maggiormente respinge le Intelligenze Celesti, che all’uomo aperto nei confronti dello Spirito tutto vorrebbero generosamente donare, è proprio il livello di banalità del suo stato di coscienza, la fiacchezza della sua pavida volontà, l’arroganza dell’animalesca natura inferiore nel cui fangoso sterco egli ama rotolarsi, il suo sfrangiato e discontinuo impegnarsi, il suo fare le cose all’insegna dell’episodico, dell’improvvisato e dell’approssimativo. Mentre agli audaci, ai consacrati, ai sinceri, a coloro che oltre ogni loro limite umano – e anche oltre le loro inevitabili difficoltà umane e morali – vogliono realizzare lo Spirito, vogliono con tenace ostinazione che lo Spirito si realizzi in loro, non per asservirlo a decadenti, e deludenti, finalità umane-troppo umane, ma perché si attuino le «intenzioni» e le «finalità» dello Spirito e alla realizzazione di queste tutto coraggiosamente sacrificano, tali celesti Intelligenze rispondono con illimitata generosità.
Un tale generosità celeste e lo slancio eroico del praticante interiore possono giungere a far impallidire nel discepolo la consueta visione profana del mondo, inevitabilmente «comoda» e «borghese», a dissolvere ogni attaccamento umano, a suscitare la coscienza della tragicità della condizione umana, dell’impellente urgenza del suo superamento. Ciò esige che liberamente ci si doni con impeto, con intensità, con frequenza, con gioiosa abnegazione, alla pratica della concentrazione, della concentrazione profonda, della meditazione, della contemplazione, che come esplicitamente dichiara Massimo Scaligero, sono l’azione più efficace, più urgente, più elevata che un essere umano possa compiere sulla Terra. Ma anche l’azione più attesa, più struggentemente invocata e anelata, l’azione di cui maggiormente le Intelligenze Celesti hanno bisogno.
Per rimanere fedeli a quella che Massimo Scaligero, ed evocata da Isidoro, chiamava «essere fedeli alla propria tradizione interiore», e per mostrare quanta intensità ascetica, quanto ardore della volontà, quanta devozione e dedizione era presente in alcuni asceti del mondo orientale, riportiamo qualcosa relativa a Eihei Dogen o Dogen Zenji, e a quanto egli ci dice del suo Maestro Jou-tsing.
«Il vecchio Jou-tsing praticava la sera la meditazione sino ai tre colpi della seconda veglia (ore 23.00) e ricominciava all’alba al secondo o terzo colpo della quarta veglia (ore 02.30 o 03.00). Egli prendeva posto a lato dei monaci nella sala di meditazione tutte le notti senza eccezioni. Durante quel tempo molti monaci si addormentavano. Egli faceva allora il giro dei monaci assopiti e li colpiva, talvolta col pugno, altre volte con una delle sue scarpe ch’egli si toglieva appositamente e li faceva vergognare di esser stati tratti così da lui dal sonno. Se essi si addormentavano ancora, egli si recava nella sala di servizio, suonava la campana, chiamava un praticante, gli faceva accendere una candela, poi si metteva all’improvviso a tuonare nella maniera seguente: “A che serve riunirsi nella sala di meditazione per dormirvi senza far nulla? Perché avete lasciate le vostre famiglie e siete entrati nel monastero? Guardate: dove vedete nel mondo un sovrano o dei funzionari che passano la loro vita nell’inazione? gli imperatori governano alla maniera dei sovrani, i vassalli servono con una estrema lealtà, e sino al popolo minuto che coltiva il suo campo o prende l’ascia, non c’è nessuno che passi la vita prendendosela comoda. Fuggendo il mondo, siete entrati in monastero ove passate i giorni nell’ozio. In fin dei conti, tutto ciò a che serve? I Maestri di Dottrina del Buddhismo e i Maestri dello Zen hanno dato valore al fatto che la “vita-e-morte” per noi è la questione essenziale, che ci urge l’impermanenza delle cose. Che forse la Morte non ci sorprenderà questa sera, domani, oppure una malattia qualunque? È estremamente stupido durante la nostra breve vita, non praticare il Buddhismo, coricarsi e dormire, passare il tempo nell’ozio. È per questo motivo che il Buddhismo declina. In ogni luogo, quando il Buddhismo era fiorente, tutti i monasteri facevano praticare lo Zazen. nei tempi moderni, da nessuna parte si incoraggia lo Zazen, e così il Buddhismo declina».
Quello che un Maestro severo come Jou-tsing – che ha tutta la mia più colpevole ammirazione – dice circa le condizioni della pratica della meditazione, nella Cina del XIII secolo, allorché la dinastia dei Sung, e tutta l’Asia, stavano per essere travolte dalla tempesta mongola, a maggior ragione – mutatis mutandis per adattare alle attuali condizioni dell’Occidente e della Via Solare – si attaglia ai fiacchi e spesso imbolsiti e chiacchieroni seguaci – sedicenti seguaci – della Scienza dello Spirito.
Oggi i troppo comodi e pigri discepoli della Grande Arte della resurrezione del pensiero, neppure si immaginano quale meravigliosa atmosfera di permanente mobilitazione spirituale, di dinamica accensione della volontà, regnasse in Oriente anche nei periodi di decadenza, fatalmente provocati dagli eventi esteriori di una civiltà in graduale via di esaurimento. Ne è un esempio Dogen Zenji, discepolo del suddetto terribilissimo Jou-tsing. Dogen, che era un asceta veramente energico adamantino, praticava la meditazione dello Zen con un estremismo interiore che talvolta lo portava a rischiare la vita. Così egli ricordava nei suoi anni più tardi, una volta tornato in Giappone:
«Io praticavo notte e giorno la meditazione seduta. Certi monaci abbandonavano per qualche tempo la loro pratica, per tema di cadere malati durante i fortissimi calori o il grandissimo freddo. Ma io, in quei momenti, pensavo: io continuerò la mia pratica persino se dovessi ammalarmi o dovessi morire. A che mi servirebbe aver cura del mio corpo, se non praticassi quando sto bene in salute? Poco importa che io cada malato e che muoia, poiché il mio scopo sarebbe raggiunto. […] Se io muoio praticando lo Zazen prima di essere giunto all’Illuminazione, i legami buddhici che si saranno stabiliti mi faranno rinascere in una famiglia buddhista. Se non pratico lo Zazen è assolutamente inutile che io viva a lungo».
Questa è ascesi radicale, portata avanti checché avvenga. Ma se otto secoli fa, in Oriente, nella Scuola Zen del Buddhismo, in un mondo ancora in gran parte a misura dell’Uomo Spirituale, erano capaci di tanta estremistica radicalità, quanto più dovremmo noi, in un epoca molto più pericolosa, come la nostra attuale, essere capaci di radicale dedizione all’Ascesi solare del pensiero, che ci è stata donata. A quell’epoca, nella Cina dei Sung, che dopo alcuni decenni sarebbe stata travolta dalla tempesta mongola, i discepoli della Via dell’Illuminazione non si lamentavano della severità di un Maestro come Jou-tsing, della Casa di Tsao-tung dell’austera Scuola Zen, anzi ne gioivano come di un aristocratico privilegio. Così racconta, sempre Dogen Zenji, ricordando con commozione il suo venerato Maestro:
«Quando nel corso di una riunione di monaci per lo Zazen nella sala di meditazione, egli puniva coloro che si addormentavano, colpendoli con la propria scarpa ed ingiuriandoli, tutti i monaci si rallegravano, l’ammiravano e lo lodavano. Un giorno, mentre si trovava nella Grande Sala, egli disse: “Ora, divenuto vecchio, dovrei ritirami dalla Comunità, e andare a finire i miei giorni in un eremitaggio. Tuttavia, resterò il vostro Superiore al fine di insegnare alla Comunità, di strappare l’errore da ciascuno dei monaci e di mostrare la Via. È per questo che talvolta sgrido tuonando gli uni, talaltra ne colpisco altri con la canna di bambù. Io detesto ciò al più alto grado, ma lo faccio ugualmente perché è la maniera di condurre l’insegnamento al posto del Buddha. Fratelli miei, perdonatemi con tutta la vostra benevolenza”. Allora tutti i monaci piansero».
Beh, io ho avuto numerose volte l’aristocratico «privilegio» di vedermi da Massimo Scaligero levata a strisce la pelle di dosso, e quello di farmi fare lo «shampoo» prima con l’acido nitrico e poi con l’acido muriatico, mentre vedevo che degli autentici pendagli da forca, dei veri gaglioffi – allora mi concedevo l’arbitrario lusso di giudicare – venivano da lui trattati in guanti gialli, il che – conoscendo cotanto Maestro e i suoi metodi severi – non deponeva granché a pro’ dei suddetti pendagli da forca, alcuni dei quali ancora in circolazione, con quanto beneficio per la Comunità spirituale lascio all’apprezzamento e alla sagacia del «vispo» lettore.
Un’amica della quale ho grande stima mi chiede talvolta perché io citi tanti esempi presi dall’Antichità dell’Occidente e dalla Sapienza d’Occidente. È che forte è il contrasto tra quell’antico mondo sapienziale d’Occidente e d’Oriente, e l’attuale imbelle oziosa inerzia di quei sedicenti seguaci della Scienza dello Spirito, che non solo se la prendono molto comoda, ma pretendono persino di imporre agli altri tale neghittosa accidia. Oggi vogliono davvero andare tutti in Paradiso in carrozza: naturalmente con l’aria condizionata, con l’i-pod, l’i-pad, l’i-phone di ultima generazione, e il frigo-bar. E soprattutto senza fare troppa – meglio punta – fatica.
Che la concentrazione sia faticosa lo sa chiunque ogni giorno si misura ripetutamente e sempre di nuovo con essa con energia, con tenace pazienza, con una forma di calma disperazione. Concentrazione ostinatamente ritentata ogni volta come se fosse la prima volta, eseguita ogni volta come se fosse l’ultima ed unica volta: l’occasione suprema di attuare la vivificazione dell’atto pensante, oltre ogni limite, oltre ogni disperazione, oltre ogni morte interiore. È la via del vero coraggio!
Al fine di insistere – con inumana compassione, direbbero i terribilissimi Maestri della Scuola della Meditazione, o dello Zen – sull’assoluta necessità della pratica interiore, è forse buona cosa riportare l’episodio decisivo della vita interiore di un Maestro così eccezionale come Eihei Dogen Zenji.
Al Tempio di Tien-tong-szu, diretto da Jou-tsing, i monaci meditavano letteralmente giorno e notte. Ed il Maestro rampognava aspramente coloro che battevano un po’ – solo un po’ – la fiacca, o in preda alla stanchezza talvolta si addormentavano. Una volta, i monaci che erano a lui più vicini gli fecero osservare: “Quando i monaci sono riuniti nella Sala di Meditazione e si addormentano perché sono affaticati o perché cominciano ad ammalarsi, la loro mente non è minacciata da una regressione nella Via del Risveglio? Ciò non è dovuto alla lunghezza della meditazione seduta, lo Zazen, e non sarebbe bene accorciarne la durata?”. Il Maestro li rimproverò molto aspramente e disse: “No, non si tratta affatto di questo. Se dei praticanti che non hanno lo spirito della Via vengono a fare presenza nella Sala di Meditazione, essi si addormenterebbero persino se la seduta di pratica venisse accorciata della metà e persino di più. Coloro che, invece, hanno lo spirito della Via e sono animati dalla volontà di praticare, si rallegreranno tanto più quanto più la meditazione sarà lunga. Quando ero ancora giovane, fui Superiore successivamente in diversi monasteri situati in varie regioni e colpivo così fortemente i monaci che si addormentavano, che quasi mi rompevo il pugno. Ora che è giunta la vecchiaia, le mie forze si sono indebolite e non picchio più così forte. Allora i buoni monaci non vengono più da me. E se il Buddhismo declina, è perché i Maestri si mostrano troppo teneri quando dirigono gli esercizi della meditazione Zazen. Dunque, bisogna picchiare più forte”.
Ora – era un mattino dell’estate del 1225 – al momento dell’aurora Dogen meditava nella Sala di Meditazione con gli altri monaci. Jou-tsing andava in su e in giù per sorvegliarli, quando si accorse di un monaco che si era addormentato seduto. Si levò una scarpa e cominciò a colpirlo rimproverandolo così: “La ricerca dello Zen deve essere l’abbandono del corpo e della mente. Dove pensi di arrivare dormendo così tutto il tempo?”.
Dogen, che si trovava seduto accanto al povero confratello sonnolento, era immerso nella meditazione più profonda. Al sentire le parole di Jou-tsing che ingiungevano di “abbandonare il corpo e la mente”, Dogen fu come percosso da un fulmine e sperimentò quell’Illuminazione folgorante, che è la ragion d’essere della Via che il Buddha Shakyamuni ha prima conquistato e realizzato, e poi donato al mondo. Si dona solo ciò che si è realmente conquistato e realizzato, non le chiacchiere verbose, che gli umani spendono con troppa facilità!
Un vecchio Maestro fiorentino, da molto tempo defunto, iniziato nelle Vie dell’Antica Sapienza e amico di Massimo Scaligero, osserverebbe argutamente che “Maestri come Jou-tsing e Dogen sono di difficile contentatura”, ed avrebbe ragione. Ma non per questo, egli avrebbe praticato e consigliato una Via meno austera.
Massimo Scaligero avrebbe fatto osservare, con sottile sagacia, che il “sonno” al quale oggi voluttuosamente si dànno i sedicenti seguaci della Scienza dello Spirito è quello della comodità borghese, del perbenismo convenzionale, quello che si inchina temente e reverente di fronte alla “immane potenza del convenzionale”, alla pubblica opinione accertata, alle varie “ortodossie” (o contortodossie) antroposofazziche o confessionali o politiche o culturali. Un tale voluttuoso “sonno” dell’anima – avida di tamasica inerzia, direbbe Massimo Scaligero – spegne la “memoria” spirituale, soffoca il “fuoco” che arde nella volontà, ottunde il cuore, raffredda l’entusiasmo e rende opaca l’anima, uccide lo slancio interiore. Questa è la peggiore sciagura che ad un praticante interiore possa capitare, e spiega poi come si cerchino dei surrogati nella politica, nella cultura, nelle manifestazioni pubbliche, negli intrallazzi paraesoterici. Spiega pure come, inoltre, quasi a giustificare e celare il fallimento della propria impresa interiore, ci si volga talvolta – spinti da una sorta di “invidia metafisica” (“ciò che io non oso realizzare, gli altri non devono realizzare”) – a calunniare il Maestro, e diffamare coloro che, magari in maniera animosa e imperfetta, con generosità si dànno ad una intensa pratica interiore, ed invitano gli altri a fare altrettanto.
Aveva ragione un Maestro terribile come Jou-tsing: bisogna picchiare più forte!
Per fedeltà e compassione.
Hugo al sugo di carciofi.
Terribilissimo Hugo,
gli ottimi esempi riportati, se venissero PENSATI, potrebbero insegnare ancora qualcosina!
Sai bene quanto io sia entusiasta assertore delle randellate che, indialettiche, varrebbero assai più di mille parole.
Nel molle tempo delle “opinioni”, opino che molti non siano della stessa opinione. Peccato: poiché non si vuol capire come la Tradizione muta di forme ma non d’essenza. Ora si vorrebbe che il Cielo facesse da tappeto alla terra: questo è ciò che si sogna. Si sogna un’inversione che non è possibile ma che è divenuta polpa e forma di discussioni, indirizzi, valori.
Mah! Scelgo di vedere tutto ciò come una sorta di “via lunghissima” di cui sarà comunque pesata positivamente la dedizione, l’entusiasmo e altre cose ancora che, per ora, sono impiegate stupidamente.
Grazie per quello che hai scritto.